I volontari sono una colonna portante della vita delle nostre strutture sociosanitarie. In quest’articolo non si danno però istruzioni teoriche su come sviluppare il volontariato in RSA, ma si raccoglie una testimonianza dalla viva voce di una persona che ha sentito interiormente la spinta a diventare volontario. Un’esperienza positiva di crescita e scambio tra RSA e associazione di volontariato.
Quando tutto è cominciato
“È partito tutto dagli alberi di Natale che bisognava allestire.
Venivo in RSA a trovare la mamma e mentre aspettavo ho cominciato a dare una mano agli educatori. Lì ho iniziato a capire quanto impegno e quanto lavoro c’era dietro a ogni cosa in struttura…”
Con queste parole Marco Signorelli inizia a raccontarmi di come è diventato volontario per l’Associazione IRIS, che opera presso la Fondazione Casa Serena di Brembate Sopra (BG), prevalentemente a supporto del servizio educativo.
62 anni e con un’esperienza precedente di volontariato nel settore sportivo, Signorelli ha scelto di dedicare oggi il proprio tempo alle persone fragili, arrivando ad assumere l’impegno come Presidente dell’Associazione IRIS nel febbraio di quest’anno.
“Con l’associazione sportiva era bello, ma era per far divertire. Qui è diverso, è per fare il possibile affinché le persone stiano meglio, è una cosa molto più interiore. Quando mia mamma è venuta a mancare ho potuto presentarmi e dire “io ci sono”, anche perché a quel punto avevo conosciuto la vera realtà dell’RSA…”
“Avremmo dovuto sceglierlo prima”
Anche Marco Signorelli, come tantissimi normali cittadini, non aveva avuto occasioni per conoscere le RSA, se non attraverso i notiziari, prima che la sua storia personale lo portasse a incrociarle per bisogno.
Con molta onestà mi confida che ha varcato la soglia di questo mondo con l’idea che le persone anziane non venissero trattate bene nelle strutture e con la sensazione che fosse solo un modo per le famiglie di “liberarsi di un peso”.
Si tratta di pensieri e sentimenti condivisi anche dai suoi fratelli e che faranno rimandare loro il più possibile la scelta di portare la mamma in struttura.
(Abbiamo già approfondito quanto è delicato per le famiglie questo momento nell’articolo: “L’ingresso in RSA: riflessioni sull’accoglienza delle famiglie in struttura”)
“Abbiamo preso la decisione di inserirla in Casa Serena quando abbiamo capito che a casa non poteva più avere un’adeguata qualità di vita: ormai era allettata, si alzava solo per poche ore, stava un po’ in poltrona, ma non riusciva più a fare le scale e a uscire; soprattutto non riusciva più ad andare a messa, pur essendo lei molto religiosa.
Qui invece è rinata.
Ha ricominciato a frequentare la messa due volte a settimana, e ha ripreso alcune attività. Vederla giocare di nuovo a carte, per esempio, per noi è stata una gioia.
È stato lì che io e mia sorella ci siamo detti che forse, col senno di poi, avremmo dovuto sceglierlo prima.
In più abbiamo visto che era curata bene anche dal punto di vista assistenziale e sanitario. E anche per noi la qualità del tempo si è trasformata. Perché quando andavamo a trovarla a casa c’era sempre tanto di operativo da fare, invece in struttura potevamo stare solo con lei, tutto il tempo era dedicato alla relazione.”
Volontariato in RSA: persone e non numeri
Una parola emerge più volte dalla sua testimonianza: comunità.
Mi chiarisce che ciò che lo ha spinto a restare e a impegnarsi per le persone fragili è proprio lo spirito di comunità che si respira in Casa Serena, non solo all’interno dell’associazione IRIS, ma soprattutto tra volontari e professionisti.
Mi spiega come da tante azioni quotidiane si possa cogliere che i professionisti conoscono realmente le persone e i loro bisogni – “nessuno è un numero qui”, mi dice – e come l’approccio della direzione generale, spesso improntato al dialogo anche informale, sia capace di farli sentire valorizzati e utili come volontari all’interno della struttura.
Un’associazione che è cresciuta nel tempo
Ed è anche grazie a questa collaborazione con la struttura che l’Associazione IRIS è cresciuta nel tempo, passando dai 6 soci fondatori iniziali alle oltre 20 persone attive oggi.
Signorelli mi chiarisce infatti che nessuno qui viene “mandato allo sbaraglio”: c’è un corso preliminare tenuto dall’équipe della struttura che si deve seguire necessariamente, e non manca mai un periodo di affiancamento, con un punto di riferimento costante negli educatori.
Così l’associazione è cresciuta non solo in termini di numero ma anche di “professionalità” – per citare esattamente la sua parola – attirando non solo persone in pensione, ma anche giovani lavoratori sui quarant’anni, che “hanno iniziato dando poca disponibilità, per poi arrivare a esserci sempre di più”.
D’altra parte le persone qui possono scegliere tra molte diverse attività: “c’è il volontario che aiuta nel momento del pasto, quello che preferisce portare le persone a fare passeggiate e c’è persino un volontario che si sentiva in difficoltà a stare accanto alle persone malate e così si è preso a cuore il nostro verde, dandosi da fare con il grande parco di Casa Serena.”
“Io oggi racconto l’RSA”
La testimonianza di Marco Signorelli è unica e riguarda la sua esperienza in una specifica struttura, ma rimane comunque estremamente preziosa, perché mette in evidenza quanto uno sguardo realmente posato sulle persone possa fare la differenza per far sì che altre persone arrivino a varcare le porte del nostro Ente con più fiducia nel cuore.
È in uno spazio spesso invisibile e interiore che si gioca la partita principale, come emerge chiaramente dalle sue parole.
Lo “spirito di comunità”, come lui lo ha definito, non è qualcosa che si può raccontare in un volantino o su un sito web; è qualcosa che si costruisce nel quotidiano e nel collettivo, dove nessuno in particolare è protagonista, ma tutto concorre affinché i gesti arrivino là dove ce n’è più bisogno.
Pensiamo a quel volontario che si occupa del verde, per esempio. Senza entrare nelle camere, finisce in verità per essere di aiuto a quegli anziani che abitano in Casa Serena e che amano a loro volta prendersi cura del parco, “aiutandoli a innaffiare fragole e fiori”.
“Io oggi racconto l’RSA”, mi dice Signorelli in chiusura della nostra chiacchierata, “ne parlo, quando sento qualcuno che dice che è solo un “parcheggio per anziani”; lo dico, che per noi è stato possibile accompagnare la mamma alla fine della vita in modo dignitoso, con la possibilità di starle accanto, senza orari e in un clima molto più vicino a quello di una casa”.
E così, alla fine, quando ci si sente davvero accolti in una RSA, quando si vive sulla propria pelle la differenza tra un luogo di cura come l’ospedale, inevitabilmente più freddo, e uno dove i professionisti ti conoscono invece in maniera più integrale e dove la tua storia ha davvero un peso specifico, allora si può finire anche per aver voglia di restare e di trasmettere la propria esperienza agli altri.
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I volontari sono una colonna portante della vita delle nostre strutture sociosanitarie. In quest’articolo non si danno però istruzioni teoriche su come sviluppare il volontariato in RSA, ma si raccoglie una testimonianza dalla viva voce di una persona che ha sentito interiormente la spinta a diventare volontario. Un’esperienza positiva di crescita e scambio tra RSA e associazione di volontariato.
Quando tutto è cominciato
“È partito tutto dagli alberi di Natale che bisognava allestire.
Venivo in RSA a trovare la mamma e mentre aspettavo ho cominciato a dare una mano agli educatori. Lì ho iniziato a capire quanto impegno e quanto lavoro c’era dietro a ogni cosa in struttura…”
Con queste parole Marco Signorelli inizia a raccontarmi di come è diventato volontario per l’Associazione IRIS, che opera presso la Fondazione Casa Serena di Brembate Sopra (BG), prevalentemente a supporto del servizio educativo.
62 anni e con un’esperienza precedente di volontariato nel settore sportivo, Signorelli ha scelto di dedicare oggi il proprio tempo alle persone fragili, arrivando ad assumere l’impegno come Presidente dell’Associazione IRIS nel febbraio di quest’anno.
“Con l’associazione sportiva era bello, ma era per far divertire. Qui è diverso, è per fare il possibile affinché le persone stiano meglio, è una cosa molto più interiore. Quando mia mamma è venuta a mancare ho potuto presentarmi e dire “io ci sono”, anche perché a quel punto avevo conosciuto la vera realtà dell’RSA…”
“Avremmo dovuto sceglierlo prima”
Anche Marco Signorelli, come tantissimi normali cittadini, non aveva avuto occasioni per conoscere le RSA, se non attraverso i notiziari, prima che la sua storia personale lo portasse a incrociarle per bisogno.
Con molta onestà mi confida che ha varcato la soglia di questo mondo con l’idea che le persone anziane non venissero trattate bene nelle strutture e con la sensazione che fosse solo un modo per le famiglie di “liberarsi di un peso”.
Si tratta di pensieri e sentimenti condivisi anche dai suoi fratelli e che faranno rimandare loro il più possibile la scelta di portare la mamma in struttura.
(Abbiamo già approfondito quanto è delicato per le famiglie questo momento nell’articolo: “L’ingresso in RSA: riflessioni sull’accoglienza delle famiglie in struttura”)
“Abbiamo preso la decisione di inserirla in Casa Serena quando abbiamo capito che a casa non poteva più avere un’adeguata qualità di vita: ormai era allettata, si alzava solo per poche ore, stava un po’ in poltrona, ma non riusciva più a fare le scale e a uscire; soprattutto non riusciva più ad andare a messa, pur essendo lei molto religiosa.
Qui invece è rinata.
Ha ricominciato a frequentare la messa due volte a settimana, e ha ripreso alcune attività. Vederla giocare di nuovo a carte, per esempio, per noi è stata una gioia.
È stato lì che io e mia sorella ci siamo detti che forse, col senno di poi, avremmo dovuto sceglierlo prima.
In più abbiamo visto che era curata bene anche dal punto di vista assistenziale e sanitario. E anche per noi la qualità del tempo si è trasformata. Perché quando andavamo a trovarla a casa c’era sempre tanto di operativo da fare, invece in struttura potevamo stare solo con lei, tutto il tempo era dedicato alla relazione.”
Volontariato in RSA: persone e non numeri
Una parola emerge più volte dalla sua testimonianza: comunità.
Mi chiarisce che ciò che lo ha spinto a restare e a impegnarsi per le persone fragili è proprio lo spirito di comunità che si respira in Casa Serena, non solo all’interno dell’associazione IRIS, ma soprattutto tra volontari e professionisti.
Mi spiega come da tante azioni quotidiane si possa cogliere che i professionisti conoscono realmente le persone e i loro bisogni – “nessuno è un numero qui”, mi dice – e come l’approccio della direzione generale, spesso improntato al dialogo anche informale, sia capace di farli sentire valorizzati e utili come volontari all’interno della struttura.
Un’associazione che è cresciuta nel tempo
Ed è anche grazie a questa collaborazione con la struttura che l’Associazione IRIS è cresciuta nel tempo, passando dai 6 soci fondatori iniziali alle oltre 20 persone attive oggi.
Signorelli mi chiarisce infatti che nessuno qui viene “mandato allo sbaraglio”: c’è un corso preliminare tenuto dall’équipe della struttura che si deve seguire necessariamente, e non manca mai un periodo di affiancamento, con un punto di riferimento costante negli educatori.
Così l’associazione è cresciuta non solo in termini di numero ma anche di “professionalità” – per citare esattamente la sua parola – attirando non solo persone in pensione, ma anche giovani lavoratori sui quarant’anni, che “hanno iniziato dando poca disponibilità, per poi arrivare a esserci sempre di più”.
D’altra parte le persone qui possono scegliere tra molte diverse attività: “c’è il volontario che aiuta nel momento del pasto, quello che preferisce portare le persone a fare passeggiate e c’è persino un volontario che si sentiva in difficoltà a stare accanto alle persone malate e così si è preso a cuore il nostro verde, dandosi da fare con il grande parco di Casa Serena.”
“Io oggi racconto l’RSA”
La testimonianza di Marco Signorelli è unica e riguarda la sua esperienza in una specifica struttura, ma rimane comunque estremamente preziosa, perché mette in evidenza quanto uno sguardo realmente posato sulle persone possa fare la differenza per far sì che altre persone arrivino a varcare le porte del nostro Ente con più fiducia nel cuore.
È in uno spazio spesso invisibile e interiore che si gioca la partita principale, come emerge chiaramente dalle sue parole.
Lo “spirito di comunità”, come lui lo ha definito, non è qualcosa che si può raccontare in un volantino o su un sito web; è qualcosa che si costruisce nel quotidiano e nel collettivo, dove nessuno in particolare è protagonista, ma tutto concorre affinché i gesti arrivino là dove ce n’è più bisogno.
Pensiamo a quel volontario che si occupa del verde, per esempio. Senza entrare nelle camere, finisce in verità per essere di aiuto a quegli anziani che abitano in Casa Serena e che amano a loro volta prendersi cura del parco, “aiutandoli a innaffiare fragole e fiori”.
“Io oggi racconto l’RSA”, mi dice Signorelli in chiusura della nostra chiacchierata, “ne parlo, quando sento qualcuno che dice che è solo un “parcheggio per anziani”; lo dico, che per noi è stato possibile accompagnare la mamma alla fine della vita in modo dignitoso, con la possibilità di starle accanto, senza orari e in un clima molto più vicino a quello di una casa”.
E così, alla fine, quando ci si sente davvero accolti in una RSA, quando si vive sulla propria pelle la differenza tra un luogo di cura come l’ospedale, inevitabilmente più freddo, e uno dove i professionisti ti conoscono invece in maniera più integrale e dove la tua storia ha davvero un peso specifico, allora si può finire anche per aver voglia di restare e di trasmettere la propria esperienza agli altri.