Un approccio ecologico al welfare vede l’urgenza di una rivoluzione culturale che stabilisca le possibili linee di azione e i risultati attesi da un nuovo atteggiamento, per assicurare il benessere dei cittadini di ogni età, condizione di disagio o fragilità.

Paolo Venturi (1), Flaviano Zandonai (2)

Esiste una dimensione ecologica del welfare, in particolare nella sua variante dei servizi di cura? E se sì come può essere definita e, soprattutto, gestita? 

Le risposte a queste domande, solo in parte astratte, richiedono di riconoscere e approfondire i diversi livelli di relazione che si stabiliscono tra protezione sociale e contesto ambientale. Una molteplicità di legami di mutua influenza di per sé rilevante ma che contribuisce anche a ridefinire le basi di significato e i modelli di gestione e governo attribuibili sia a beni e servizi di cura, educazione, salute, ecc. sia a risorse ambientali, paesaggistiche, infrastrutturali, tecnologiche, ecc. Se quindi altre qualifiche come welfare locale, welfare mix, welfare comunitario, ecc. hanno come obiettivo principale quello di evidenziare le specificità dei sistemi di protezione sociale, nel caso di un approccio ecologico al welfare ad essere sollecitate sono le fondamenta politico culturali di questo assetto contribuendo a dilatarne lo spettro di azione, visto che “ecologia” rimanda all’insieme delle funzioni di relazione tra specie umana, altre specie animali e vegetali e l’ambiente in cui essi vivono.

Servizi di welfare e correlazione con l’ambiente

Nella fase attuale possono essere riconosciuti almeno quattro correlazioni principali tra welfare ed ecologia, ognuna delle quali può essere considerata come uno “step evolutivo” in termini di incremento della complessità delle interazioni ma anche della generatività che scaturisce da esse

Per maggiori info su efficienza

energetica leggi l’articolo

Il primo livello, definibile in termini di esternalità, riguarda l’impronta ambientale dei servizi di welfare. Come tutte le attività umane anche i servizi sociali, educativi, sanitari generano effetti sull’ambiente che, stante la situazione di generale degrado, richiedono di essere gestiti per limitarne le ripercussioni negative. Si apre quindi un quadro strategico e operativo caratterizzato da esigenze di efficientamento che classicamente riguardano le risorse energetiche, ma anche l’approvvigionamento di materie prime, lo smaltimento dei rifiuti, ecc.

Su smaltimento rifiuti sanitario vedi l’articolo

Una modalità di relazione che già da tempo è oggetto di regolazione e di standard di certificazione legati soprattutto alla sicurezza e alla qualità dei servizi di welfare (si pensi, ad esempio, al comparto sanitario e alla sua produzione di rifiuti pericolosi), ma che sempre più spesso investe anche la preservazione della qualità ambientale, anche se, va detto, ciò sembra avvenire in modo non particolarmente diverso rispetto ad altri settori di attività.

Il secondo livello, definibile come dislocazione, fa riferimento a tutti quei modelli e servizi di welfare costruiti e gestiti a ridosso dei luoghi di vita “naturali” di persone, famiglie e comunità. Un legame che si stabilisce soprattutto, anche se non esclusivamente, per effetto di processi di deistituzionalizzazione a seguito dei quali la protezione sociale ri-dimensiona quei modelli di offerta che risultano eccessivamente separati dai contesti sociali, economici, ambientali, per ricercare invece un maggiore annidamento all’interno di questi ultimi. Servizi di welfare su scala domiciliare, territoriale, diurna, ecc. rappresentano, da questo punto di vista, un tentativo di accorciare le distanze con risorse ambientali latamente intese per riscoprirne l’efficacia in termini di apporto (si pensi, ad esempio al ruolo dei caregiver e delle reti di prossimità) sia per recuperare posizioni anche sul fronte della sostenibilità in termini economici.

Per un caso “speciale” di fare

attività all’aperto si veda l’articolo

Il terzo livello di scambio tra queste dimensioni si può definire in termini di sinergia perché riguarda l’ambiente come componente della catena del valore dei servizi di welfare. Alcune risorse di contesto, principalmente naturali e paesaggistiche, possono infatti essere incorporate all’interno di servizi di natura curativa, terapeutica, educativa, di inclusione sociale evidenziando quindi la rilevanza di ciò che “sta fuori” il perimetro classico del centro di servizio (come può essere una scuola, una casa di riposo, una comunità di recupero, ecc.). Si apre in questo modo il campo, sempre più vasto e articolato, della dimensione outdoor del welfare che non consiste semplicemente nel “fare attività all’aperto”, ma nel ridefinire gli approcci e i modelli di servizio, con importanti ripercussioni a livello di competenze degli operatori, di struttura organizzativa e, non da ultimo, di assetto dei sistemi di regolazione e di politica.

Il quarto livello stringe ulteriormente i legami oltre l’esternalità, la dislocazione e anche la stessa sinergia orientandosi verso una vera e propria integrazione che riconosce nel welfare un asset ecologico, ovvero una risorsa che è costitutivamente parte di ciò che si definisce “ambiente”. Se i primi tre livelli si caratterizzano soprattutto per un movimento di tipo adattativo del welfare nei confronti di una dimensione di contesto dove permane quindi un certo livello di separazione rispetto alla relazione di servizio, in quest’ultimo ambito si assiste all’”irruzione” della dimensione ambientale nel ridefinire il “codice genetico” della protezione sociale facendo proprio un assetto di ecologia integrale che accetta la sfida di riconoscere e processare una molteplicità di elementi di interdipendenza che scaturiscono dal rapporto uomo – natura e da tecnologie che sempre più “vivono di vita propria” (perché sempre più dotate in termini di intelligenza artificiale). In quest’ottica la protezione sociale nel suo insieme è parte integrante della qualità ambientale legandosi quindi a stretto filo con sfide dello sviluppo ormai non più rinviabili e di natura sistemica come dimostra, ad esempio, il rapporto tra cambiamento climatico e fenomeni migratori. L’ecologia integrale del welfare è dunque sempre più visibile guardando alla capacità di risposta rispetto a fenomeni diversi: sia di degrado lento e progressivo, come ad esempio l’erosione ambientale e sociale delle aree interne, sia nei confronti di veri e propri “shock” come la pandemia rispetto alla quale pare ormai evidente la correlazione tra diffusione dei focolai, qualità ambientale e sviluppo urbano.

La dimensione di luogo

Rispetto a questi diversi livelli di interazione si segnala in particolare un fattore che può contribuire a “fare la differenza”, ovvero la dimensione di luogo che emerge in modo sempre più evidente man mano che si passa da un livello all’altro. La “localizzazione” del welfare non riguarda solo i sistemi di integrazione multilivello dell’azione pubblica (a livello comunale, provinciale, ecc.), ma richiede un crescente investimento in senso relazionale volto ad arricchire servizi dove a predominare è sempre più la componente tecnico-prestazionale, oltre ad allargare e densificare una più vasta reticolarità che coinvolge non solo beneficiari diretti e indiretti ed erogatori, ma anche reti familiari e comunitarie. A queste ultime spetta infatti una funzione di riproduzione del legame sociale attraverso la quale cura, educazione, assistenza, ecc. diventano non solo parte di un sistema di offerta codificato (pubblico o privato che sia), ma la base di processi di coesione e inclusione sociale. Un “terzo pilastro” comunitario che oggi ritrova vigore grazie a un rinnovato protagonismo guardando alla sempre più vasta e variegata fenomenologia della rigenerazione di beni immobili e spazi per nuove finalità di interesse collettivo dove il welfare rappresenta spesso uno dei principali driver di sviluppo secondo un’accezione manifestamente ecologica.

Ma come si declina questa “ecologia integrale di luogo”, in particolare rispetto ai servizi di cura rivolti alle persone anziane? Le sperimentazioni ormai mature di innovazione sociale che fanno proprio un approccio di questo tipo consentono di individuare almeno tre direttrici.

Senior housing 

La prima riguarda l’abitare sociale per persone anziane che si fa carico di far evolvere i servizi abitativi in chiave sociale e di cura ponendosi come alternativa sempre più efficace e sostenibile nei confronti delle classiche “strutture per anziani” (RSA, centri diurni). I modelli di silver o senior housing sfidano infatti i servizi di welfare su un doppio fronte: in primo luogo annidarsi all’interno di “pacchetti di servizio” ampi e diversificati dove la componente “nobile” di queste attività (assistenza, riabilitazione, ecc.) è chiamata a integrarsi con servizi di facilitazione della vita quotidiana, oltre che di iniziative ricreative, culturali, ecc. La seconda sfida in termini ecologici consiste nel radicare queste nuove strutture abitative e di cura all’interno dei contesti sociali circostanti, lavorando quindi in modo consistente non solo sull’asset immobiliare (appartamenti, spazi comuni, ecc.) ma anche sull’infrastrutturazione delle reti di contesto (ad esempio a livello di quartiere). Particolarmente interessanti, da questo punto di vista, sono quei progetti che prevedono una dimensione distribuita delle residenze e dei servizi, ad esempio attrezzando e mettendo in rete appartamenti sparsi all’interno dello stesso spazio urbano o di paese.

Infrastrutture sociali

La seconda direttrice, in realtà complementare alla prima, riguarda la progressiva diffusione di nuove infrastrutture sociali di natura comunitaria (community hub) che si caratterizzano soprattutto per essere spazi polifunzionali non solo dal punto di vista della capacità di offerta, ma soprattutto per il fatto che abilitano, grazie a funzioni mirate di community management, processi di coproduzione di beni e servizi di interesse collettivo da parte di una pluralità di persone e organizzazioni che abitano un determinato contesto socioeconomico e in senso lato culturale. Infrastrutture simili rappresentano sempre più un importante “upgrade” in termini non solo gestionali ma anche di filosofia di servizio rispetto a servizi territoriali centrati su specifici target di popolazione (ad esempio quella anziana) e/o caratterizzati soprattutto da modelli di tipo erogativo e specialistico, piuttosto che, al contrario, da palinsesti di attività ricreative deboli e discontinue con scarsa capacità di risposta ai bisogni.

Digitalizzazione

Infine il terzo driver consiste nella trasformazione tecnologica che “socializza” gli spazi di vita, ad iniziare dal domicilio. Si notano, in questo ambito, due distinti sotto-processi che nel contesto pandemico hanno ulteriormente accresciuto il loro impatto. Il primo consiste nell’adozione di tecnologie pronte all’uso (plug and play) e sempre più accessibili che rendono maggiormente rispondenti e connesse le risorse abitative: sensori di movimento, assistenti digitali, devices indossabili, ecc. La seconda applicazione consiste nella declinazione in senso locale dei social network digitali, sempre più orientati (o orientabili) a mettere in contatto risorse di prossimità, rafforzando così la dimensione comunitaria: dalle social street alla delivery di beni e servizi che fa leva sugli hub comunitari appena citati, ecc. Una dimensione digitale / locale che ridisegna i servizi ma anche i significati che sostanziano in chiave autenticamente ecologica la protezione sociale, soprattutto in una fase complessa e al tempo stesso ricca di opportunità come quella attuale.

Paolo Venturi. Economista, Direttore di AICCON, Centro Studi promosso dall’Università di Bologna, dall’Alleanza delle Cooperative Italiane Co-fondatore di ASSIF (Associazione Italiana Fundraiser) e direttore di The Fund Raising School.

Flaviano Zandonai. Sociologo, da oltre vent’anni studioso di terzo settore e impresa sociale, svolgendo attività di ricerca applicata, formazione, consulenza e divulgazione editoriale. Open Innovation Manager presso il Gruppo cooperativo Cgm dove promuove la nascita di comunità imprenditoriali orientate al cambiamento attingendo da ecosistemi tecnologici e di innovazione sociale a base culturale.  

About the Author: Editrice Dapero

Casa Editrice Indipendente per una cultura condivisa nel settore dell’assistenza agli anziani.

Un approccio ecologico al welfare vede l’urgenza di una rivoluzione culturale che stabilisca le possibili linee di azione e i risultati attesi da un nuovo atteggiamento, per assicurare il benessere dei cittadini di ogni età, condizione di disagio o fragilità.

Paolo Venturi (1), Flaviano Zandonai (2)

Esiste una dimensione ecologica del welfare, in particolare nella sua variante dei servizi di cura? E se sì come può essere definita e, soprattutto, gestita? 

Le risposte a queste domande, solo in parte astratte, richiedono di riconoscere e approfondire i diversi livelli di relazione che si stabiliscono tra protezione sociale e contesto ambientale. Una molteplicità di legami di mutua influenza di per sé rilevante ma che contribuisce anche a ridefinire le basi di significato e i modelli di gestione e governo attribuibili sia a beni e servizi di cura, educazione, salute, ecc. sia a risorse ambientali, paesaggistiche, infrastrutturali, tecnologiche, ecc. Se quindi altre qualifiche come welfare locale, welfare mix, welfare comunitario, ecc. hanno come obiettivo principale quello di evidenziare le specificità dei sistemi di protezione sociale, nel caso di un approccio ecologico al welfare ad essere sollecitate sono le fondamenta politico culturali di questo assetto contribuendo a dilatarne lo spettro di azione, visto che “ecologia” rimanda all’insieme delle funzioni di relazione tra specie umana, altre specie animali e vegetali e l’ambiente in cui essi vivono.

Servizi di welfare e correlazione con l’ambiente

Nella fase attuale possono essere riconosciuti almeno quattro correlazioni principali tra welfare ed ecologia, ognuna delle quali può essere considerata come uno “step evolutivo” in termini di incremento della complessità delle interazioni ma anche della generatività che scaturisce da esse

Per maggiori info su efficienza

energetica leggi l’articolo

Il primo livello, definibile in termini di esternalità, riguarda l’impronta ambientale dei servizi di welfare. Come tutte le attività umane anche i servizi sociali, educativi, sanitari generano effetti sull’ambiente che, stante la situazione di generale degrado, richiedono di essere gestiti per limitarne le ripercussioni negative. Si apre quindi un quadro strategico e operativo caratterizzato da esigenze di efficientamento che classicamente riguardano le risorse energetiche, ma anche l’approvvigionamento di materie prime, lo smaltimento dei rifiuti, ecc.

Su smaltimento rifiuti sanitario vedi l’articolo

Una modalità di relazione che già da tempo è oggetto di regolazione e di standard di certificazione legati soprattutto alla sicurezza e alla qualità dei servizi di welfare (si pensi, ad esempio, al comparto sanitario e alla sua produzione di rifiuti pericolosi), ma che sempre più spesso investe anche la preservazione della qualità ambientale, anche se, va detto, ciò sembra avvenire in modo non particolarmente diverso rispetto ad altri settori di attività.

Il secondo livello, definibile come dislocazione, fa riferimento a tutti quei modelli e servizi di welfare costruiti e gestiti a ridosso dei luoghi di vita “naturali” di persone, famiglie e comunità. Un legame che si stabilisce soprattutto, anche se non esclusivamente, per effetto di processi di deistituzionalizzazione a seguito dei quali la protezione sociale ri-dimensiona quei modelli di offerta che risultano eccessivamente separati dai contesti sociali, economici, ambientali, per ricercare invece un maggiore annidamento all’interno di questi ultimi. Servizi di welfare su scala domiciliare, territoriale, diurna, ecc. rappresentano, da questo punto di vista, un tentativo di accorciare le distanze con risorse ambientali latamente intese per riscoprirne l’efficacia in termini di apporto (si pensi, ad esempio al ruolo dei caregiver e delle reti di prossimità) sia per recuperare posizioni anche sul fronte della sostenibilità in termini economici.

Per un caso “speciale” di fare

attività all’aperto si veda l’articolo

Il terzo livello di scambio tra queste dimensioni si può definire in termini di sinergia perché riguarda l’ambiente come componente della catena del valore dei servizi di welfare. Alcune risorse di contesto, principalmente naturali e paesaggistiche, possono infatti essere incorporate all’interno di servizi di natura curativa, terapeutica, educativa, di inclusione sociale evidenziando quindi la rilevanza di ciò che “sta fuori” il perimetro classico del centro di servizio (come può essere una scuola, una casa di riposo, una comunità di recupero, ecc.). Si apre in questo modo il campo, sempre più vasto e articolato, della dimensione outdoor del welfare che non consiste semplicemente nel “fare attività all’aperto”, ma nel ridefinire gli approcci e i modelli di servizio, con importanti ripercussioni a livello di competenze degli operatori, di struttura organizzativa e, non da ultimo, di assetto dei sistemi di regolazione e di politica.

Il quarto livello stringe ulteriormente i legami oltre l’esternalità, la dislocazione e anche la stessa sinergia orientandosi verso una vera e propria integrazione che riconosce nel welfare un asset ecologico, ovvero una risorsa che è costitutivamente parte di ciò che si definisce “ambiente”. Se i primi tre livelli si caratterizzano soprattutto per un movimento di tipo adattativo del welfare nei confronti di una dimensione di contesto dove permane quindi un certo livello di separazione rispetto alla relazione di servizio, in quest’ultimo ambito si assiste all’”irruzione” della dimensione ambientale nel ridefinire il “codice genetico” della protezione sociale facendo proprio un assetto di ecologia integrale che accetta la sfida di riconoscere e processare una molteplicità di elementi di interdipendenza che scaturiscono dal rapporto uomo – natura e da tecnologie che sempre più “vivono di vita propria” (perché sempre più dotate in termini di intelligenza artificiale). In quest’ottica la protezione sociale nel suo insieme è parte integrante della qualità ambientale legandosi quindi a stretto filo con sfide dello sviluppo ormai non più rinviabili e di natura sistemica come dimostra, ad esempio, il rapporto tra cambiamento climatico e fenomeni migratori. L’ecologia integrale del welfare è dunque sempre più visibile guardando alla capacità di risposta rispetto a fenomeni diversi: sia di degrado lento e progressivo, come ad esempio l’erosione ambientale e sociale delle aree interne, sia nei confronti di veri e propri “shock” come la pandemia rispetto alla quale pare ormai evidente la correlazione tra diffusione dei focolai, qualità ambientale e sviluppo urbano.

La dimensione di luogo

Rispetto a questi diversi livelli di interazione si segnala in particolare un fattore che può contribuire a “fare la differenza”, ovvero la dimensione di luogo che emerge in modo sempre più evidente man mano che si passa da un livello all’altro. La “localizzazione” del welfare non riguarda solo i sistemi di integrazione multilivello dell’azione pubblica (a livello comunale, provinciale, ecc.), ma richiede un crescente investimento in senso relazionale volto ad arricchire servizi dove a predominare è sempre più la componente tecnico-prestazionale, oltre ad allargare e densificare una più vasta reticolarità che coinvolge non solo beneficiari diretti e indiretti ed erogatori, ma anche reti familiari e comunitarie. A queste ultime spetta infatti una funzione di riproduzione del legame sociale attraverso la quale cura, educazione, assistenza, ecc. diventano non solo parte di un sistema di offerta codificato (pubblico o privato che sia), ma la base di processi di coesione e inclusione sociale. Un “terzo pilastro” comunitario che oggi ritrova vigore grazie a un rinnovato protagonismo guardando alla sempre più vasta e variegata fenomenologia della rigenerazione di beni immobili e spazi per nuove finalità di interesse collettivo dove il welfare rappresenta spesso uno dei principali driver di sviluppo secondo un’accezione manifestamente ecologica.

Ma come si declina questa “ecologia integrale di luogo”, in particolare rispetto ai servizi di cura rivolti alle persone anziane? Le sperimentazioni ormai mature di innovazione sociale che fanno proprio un approccio di questo tipo consentono di individuare almeno tre direttrici.

Senior housing 

La prima riguarda l’abitare sociale per persone anziane che si fa carico di far evolvere i servizi abitativi in chiave sociale e di cura ponendosi come alternativa sempre più efficace e sostenibile nei confronti delle classiche “strutture per anziani” (RSA, centri diurni). I modelli di silver o senior housing sfidano infatti i servizi di welfare su un doppio fronte: in primo luogo annidarsi all’interno di “pacchetti di servizio” ampi e diversificati dove la componente “nobile” di queste attività (assistenza, riabilitazione, ecc.) è chiamata a integrarsi con servizi di facilitazione della vita quotidiana, oltre che di iniziative ricreative, culturali, ecc. La seconda sfida in termini ecologici consiste nel radicare queste nuove strutture abitative e di cura all’interno dei contesti sociali circostanti, lavorando quindi in modo consistente non solo sull’asset immobiliare (appartamenti, spazi comuni, ecc.) ma anche sull’infrastrutturazione delle reti di contesto (ad esempio a livello di quartiere). Particolarmente interessanti, da questo punto di vista, sono quei progetti che prevedono una dimensione distribuita delle residenze e dei servizi, ad esempio attrezzando e mettendo in rete appartamenti sparsi all’interno dello stesso spazio urbano o di paese.

Infrastrutture sociali

La seconda direttrice, in realtà complementare alla prima, riguarda la progressiva diffusione di nuove infrastrutture sociali di natura comunitaria (community hub) che si caratterizzano soprattutto per essere spazi polifunzionali non solo dal punto di vista della capacità di offerta, ma soprattutto per il fatto che abilitano, grazie a funzioni mirate di community management, processi di coproduzione di beni e servizi di interesse collettivo da parte di una pluralità di persone e organizzazioni che abitano un determinato contesto socioeconomico e in senso lato culturale. Infrastrutture simili rappresentano sempre più un importante “upgrade” in termini non solo gestionali ma anche di filosofia di servizio rispetto a servizi territoriali centrati su specifici target di popolazione (ad esempio quella anziana) e/o caratterizzati soprattutto da modelli di tipo erogativo e specialistico, piuttosto che, al contrario, da palinsesti di attività ricreative deboli e discontinue con scarsa capacità di risposta ai bisogni.

Digitalizzazione

Infine il terzo driver consiste nella trasformazione tecnologica che “socializza” gli spazi di vita, ad iniziare dal domicilio. Si notano, in questo ambito, due distinti sotto-processi che nel contesto pandemico hanno ulteriormente accresciuto il loro impatto. Il primo consiste nell’adozione di tecnologie pronte all’uso (plug and play) e sempre più accessibili che rendono maggiormente rispondenti e connesse le risorse abitative: sensori di movimento, assistenti digitali, devices indossabili, ecc. La seconda applicazione consiste nella declinazione in senso locale dei social network digitali, sempre più orientati (o orientabili) a mettere in contatto risorse di prossimità, rafforzando così la dimensione comunitaria: dalle social street alla delivery di beni e servizi che fa leva sugli hub comunitari appena citati, ecc. Una dimensione digitale / locale che ridisegna i servizi ma anche i significati che sostanziano in chiave autenticamente ecologica la protezione sociale, soprattutto in una fase complessa e al tempo stesso ricca di opportunità come quella attuale.

Paolo Venturi. Economista, Direttore di AICCON, Centro Studi promosso dall’Università di Bologna, dall’Alleanza delle Cooperative Italiane Co-fondatore di ASSIF (Associazione Italiana Fundraiser) e direttore di The Fund Raising School.

Flaviano Zandonai. Sociologo, da oltre vent’anni studioso di terzo settore e impresa sociale, svolgendo attività di ricerca applicata, formazione, consulenza e divulgazione editoriale. Open Innovation Manager presso il Gruppo cooperativo Cgm dove promuove la nascita di comunità imprenditoriali orientate al cambiamento attingendo da ecosistemi tecnologici e di innovazione sociale a base culturale.  

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