L’ubicazione, spesso periferica dei servizi per anziani ne trasferisce una scarsa inclusione nel mondo sociale. Come è cambiata l’urbanistica negli anni e come si possono progettare città più inclusive con la terza età? L’opinione dell’architetto Giuseppe Panebianco.
Perché scomodare l’architettura, l’urbanistica e gli aspetti edilizi come criteri per valutare l’inclusione sociale della terza età e dei servizi dedicati?
Come rivista CURA, specializzata nella cultura sulla terza, età ci confrontiamo spesso con stigmi, reticenze, retaggi culturali che riguardano l’invecchiamento e tutto il suo intorno, dunque l’assistenza e i servizi per anziani. Per affrontare l’argomento, ci siamo chiesti sotto quali angolazioni fosse possibile fare un’analisi della cause di questa esclusione culturale della terza età. Tra queste abbiamo voluto analizzarne una molto concreta: l’architettura e l’urbanistica.
Gli aspetti materiali, infatti, non hanno significati neutri e non sono casuali, ma sono un riflesso di assetti culturali ben sedimentati. Ne abbiamo parlato con l’architetto Giuseppe Panebianco per capire le dinamiche, la storia degli aspetti di progettazione dei servizi per anziani e per chiedergli, da esperto, cosa possiamo cambiare nella nostra urbanistica per rendere più inclusivi i servizi per anziani, al fine di collocarli più al centro della vita sociale, quella che si svolge nelle aree più frequentate e nei centri di interesse delle nostre città.
Giuseppe, è corretto, a tuo avviso, pensare che l’assetto urbanistico delle nostre città si possa considerare come criterio di una scarsa inclusione culturale del mondo della terza età?
Certamente sì e purtroppo questo lo vediamo da una lettura del territorio. È necessario però ripensare alle origini dell’assetto del tessuto edilizio, che deriva da una legge urbanistica del dopoguerra, tutt’oggi in vigore.
Le indicazioni urbanistiche odierne si basano ancora su una normativa degli anni quaranta, che aveva obiettivi profondamente diversi da quelli di oggi. A quel tempo c’era una vivacità costruttiva e c’era la necessità di dare risposta ad un paese molto giovane, che aveva la base della famosa piramide demografica molto estesa.
Poi c’era la necessità di dare risposte rapide ad aziende e ad attività produttive. La normativa, per far fronte a questa necessità, ha scelto di individuare delle zone di espansione, le periferie, così le le città hanno iniziato a ingrandirsi, a costruire dove era più semplice e con meno imprevisti.
Negli anni ’50 l’attenzione si è concentrata per lo più sui temi dei trasporti, visto che la mobilità era agli albori, tralasciando i centri storici o quel che c’era da ricostruire, per la difficoltà che ciò comportava.
Solo negli ultimi decenni è stato recuperato un dibattito urbanistico sui centri storici volto al loro recupero. In linea di massima, comunque, il ragionamento alla base della progettazione urbanistica si è sempre svolto in modo settoriale, prendendo in considerazione le zone sulla base della loro funzione. Da un lato la zona dell’abitazione, dall’altro quella della produzione, poi la zona dei servizi e così via. Tutto in maniera molto settoriale.
Se vogliamo pensare all’idea di una città inclusiva per gli anziani è necessario sapere che le nostre città sono state costruite in un’epoca in cui il tema degli anziani non era prevalente e oggi ci troviamo di fronte a città progettate urbanisticamente con una scarsa attenzione all’età avanzata e soprattutto con una scarsa inclusione del mondo dei servizi.
Progettare urbanisticamente per zone omogenee vuol dire che i servizi, storicamente diffusi nelle città, si sono decentrati per dare maggiore efficienza ed economicità di servizio. Così abbiamo visto il disgregarsi dalla cura dei centri storici e abbiamo assistito a una perdita della rete dei servizi territoriali.
Oggi, tuttavia, ci troviamo di fronte a una fase di controtendenza. Sono saltati tutti i meccanismi precedenti, perché il contesto socio-economico è cambiato, e l’attività economica e produttiva che c’era dagli anni cinquanta si è trasformata. Pensiamo alle grandi città con le fabbriche come la Fiat a Torino che oggi sono completamente diverse a livello sociale.
Le tendenze ci dicono che la piramide demografica sta completamente invertendo la sua geometria e quindi ci troviamo di fronte ad una società in cui la componente giovane comincia a diventare minoritaria. L’effetto è un progressivo abbandono delle zone che sono state di maggiore espansione, quelle periferiche. In più ci troviamo con dei grandi vuoti urbani, ad esempio quelli lasciati dalle fabbriche.
Quindi da un lato stiamo assistendo alla disgregazione dei servizi, per come erano stati progettati in passato, ma non abbiamo visto il ritorno alla ricostituzione di questa rete storica dei servizi territoriali.
Con questo assetto che hai descritto, oggi cosa possiamo fare per migliorare la nostra capacità di progettazione?
Non ci sono ricette uniche per rendere le città più smart, più inclusive. Innanzitutto è necessario conoscere i territori, i contesti, perché non possono essere individuate soluzioni preconfezionate che vadano bene per tutti, come si tendeva a fare nell’urbanistica degli anni passati. Il termine chiave della vecchia pianificazione urbanistica era infatti standard, e credo che oggi non sia più possibile ragionare così, ma che sia necessario porre molta attenzione alla qualità della progettazione e un po’ meno ai numeri.
La normativa oggi sta cambiando, piano piano si sta evolvendo dando attenzione alla rigenerazione urbana. In Liguria c’è stata una delle prime leggi regionali sulla rigenerazione urbana, con tentativi di riattivazione dei centri o delle aree degradate supportati da tentativo di rigenerare i territori.
Quello che innanzitutto bisogna fare, prima di intervenire sull’edificio in sé o sull’involucro, è cominciare a ragionare sulla ricostituzione della rete di servizi, senza la quale rischiamo di realizzare edifici accessibili o inclusivi dal punto di vista della fruizione architettonica, ma che rischiano di diventare involucri insufficienti alle domande, ai desideri delle persone e poco compatibili con l’allungamento della vita.
Soprattutto però bisogna evitare di ragionare in maniera settoriale, considerando distintamente l’area abitativa, l’area produttiva, l’area commerciale, l’area dei servizi. Oggi non possiamo progettare case rivolte unicamente a una categoria sociale, non possiamo realizzare le case per i giovani o per gli anziani, perché rischiamo di realizzare abitazioni “ghetto” che rispondono soltanto a un’esigenza.
Credo che la sfida del futuro innovativo sia quella di realizzare città per tutti, intergenerazionali. Questo va fatto, a mio avviso, partendo dalla rete dei servizi. Il futuro sta nella capacità di gestire questa multigenerazionalità e nel favorire il rapporto fra le diverse generazioni. E credo che la progettazione giochi un ruolo fondamentale nella capacità di sostenere l’intergenerazionalità.
Nell’articolo “I luoghi di cura: “periferie” o “centri” di valore sociale?” Paolo Venturi parlava della capacità dei luoghi di generare “conversazioni” e forse intendeva anche la possibilità concreta di avere zone di scambio, di incontro. A livello della progettazione “in piccolo” (cioè non riferita alla città nel suo intero), c’è qualcosa che secondo te si può migliorare per favorire questo incontro?
Dobbiamo provare, ad esempio, a progettare abitazioni più flessibili. In Italia ci troviamo oggi con un patrimonio edilizio molto difficile da gestire. Qui, per tradizione, l’ottanta per cento delle persone ha un’abitazione di proprietà e queste abitazioni sono spesso vecchie, molto grandi e raramente soggette a trasformazioni radicali. Tutti gli interventi sugli edifici e sulla casa sono sempre stati per l’ampliamento e, oggi sempre di più, per l’efficientamento energetico.
L’attenzione non è quasi mai rivolta alla flessibilità di queste case, alla possibilità di vivere più facilmente questi luoghi, magari frazionando quelli eccessivamente grandi. Ad oggi però dobbiamo pensare che una grande abitazione possa invece andare incontro alla necessità, ad esempio per una persona anziana, di essere divisa e magari condivisa con altri, utilizzandola in comune o cedendone una parte.
Questa potrebbe essere un’idea su come adattare un patrimonio edilizio pensato con altre logiche in altri momenti storici. Altro tema fondamentale è quello del Building Automation, che oggi può fare la differenza solo se visto come uno strumento per raggiungere degli obiettivi e non come fine in sé.
La tecnologia deve essere sempre più vista come un mezzo per raggiungere degli obiettivi – per esempio rendere le abitazioni più comode, più agevoli – deve essere quindi utile nella fruizione. Ma oggi la vera sfida è proprio implementare la tecnologia per mettere in connessione la rete sul territorio con i servizi del territorio stesso.
La tecnologia deve consentire di aprire le porte verso l’esterno della casa, anche stando a casa. I temi della digitalizzazione per la casa sono sul piatto da diversi anni e la pandemia non ha fatto altro che accelerarli. Anni fa raccontavamo di come servizi della spesa a domicilio potessero essere interessanti per accompagnare gli anziani nella progressiva perdita di autonomia. E, se prima sembravano dei servizi futuristici, oggi sappiamo che sono all’ordine del giorno. Quindi: fruibilità, cambio fisico della geometria, flessibilità, ma anche sicuramente molta tecnologia per rispondere a determinati obiettivi.
Ti facciamo una domanda un po’ provocatoria: come vedresti l’idea di rendere le attuali RSA o gli attuali centri di servizi per anziani dei luoghi multifunzionali, frequentati da più generazioni, che ospitano una moltitudine di altri servizi? Cioè farli diventare non più soltanto luoghi della cura, dove al massimo possono ospitare un poliambulatorio o servizi affini, ma centri ricreativi con – ad esempio – cinema, negozi o altri servizi attraenti per più generazioni? Secondo te si può realizzare?
Io la trovo un’idea molto interessante, trasformativa. Il tema centrale qui è quello di ricostruire una capacità di dialogo fra i diversi pezzi della comunità e quindi provare a riprogettare le città e anche gli edifici al fine di favorirlo.
I temi della progettazione partecipata, del coinvolgimento della comunità sono fondamentali. Poi però bisogna considerare di attuare una serie di interventi normativi a sostegno di tutto ciò. Poi ci deve essere anche qualcuno che faccia il primo passo.
A me personalmente è capitato, in alcune occasioni, di fare il primo passo per cercare di cambiare alcune dinamiche storicamente un po’ cristallizzate e credo che l’idea di costruire qualche RSA in maniera sperimentale sia appunto innovativa. Potrebbe essere il primo passo di apertura verso la comunità, un modo per coinvolgere e far conoscere anche le problematiche delle RSA, per evitare quella demonizzazione che in questi ultimi anni si è sviluppata.
Ci sono state idee di comunità create ad hoc per i soggetti con Alzheimer, ma il rischio è sempre quello di creare comunità chiuse.
Nel progetto Smart Open Home – che ho co-fondato – ripensavamo la casa come lo snodo dell’abitare, ponendo molto l’accento sulla parola “open”. La casa deve essere al tempo stesso un luogo di protezione, rassicurante per la persona, ma deve essere anche un luogo di apertura verso l’esterno, flessibile e modulabile, regolabile in base alle necessità ed esigenze della persona.
Devo anche dire che, purtroppo o per fortuna, l’architettura non può risolvere tutto. Non basta progettare in maniera sapiente per creare luoghi attrattivi, adatti a tutte le comunità. C’è una componente legata alla capacità delle persone di saper dialogare che è assolutamente imprescindibile.
Il tema di Smart Open Home era proprio quello di ricompattare le due reti che si sono spezzate: quella dell’abitare e quella dei servizi. Queste due reti hanno perso reciprocamente forza, rischiando di creare dei vuoti che sono sempre più difficili da recuperare. Quindi lo sforzo è proprio lavorare in maniera puntuale sulla ricostruzione della rete.
La mia esperienza pregressa è quella di tentare di farlo dal basso piuttosto che dall’alto. Le azioni del PNRR o i grandi fondi investiti chiaramente fanno la loro parte, ma credo che si possa fare anche partendo dall’esperienza di ognuno di noi, ciascuno con la propria abitazione, con la propria attività imprenditoriale ecc.
Pensiamo alle tante attività delle giovani startup e a quanto possano essere fondamentali se messe insieme a ricostituire quella rete.
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