Di Letizia Espanoli, consulente e formatrice in ambito sociosanitario, ideatrice Sente-mente modello, e Francesca Zedda, infermiera in nefrologia e dialisi.
Cos’è la gentilezza?
La gentilezza è il coraggio di lasciarsi andare alle proprie emozioni per incontrare l’altro in uno spazio di dolcezza e tenerezza. Se aggiungiamo a ogni nostro gesto accuratezza, pazienza e attenzione la nostra vita sarà un terreno fertile per far fiorire la felicità. La gentilezza ha il potere di fertilizzare questa possibilità, di darle vigore, e di instaurare una relazione di cura che risponda ai desideri degli anziani e che sia antidoto ai maltrattamenti.
La gentilezza nella relazione di cura si coltiva a partire dalla gentilezza verso noi stessi
Lo ha ben visto la dottoressa Barbara Fredrickson, dimostrando come le persone possano diventare più felici attraverso la pratica della gentilezza. I suoi studi spiegano come la gentilezza nella relazione di cura inizi sempre dalla gentilezza verso noi stessi: dalla capacità di non “dare” esaurendosi, dal concedersi momenti di ricarica, dai minuti investiti in qualcosa che crei calma e benessere per noi. Gesti che iniziano con “me lo merito” che è il contrario del “non posso, è da egoisti”. Nove settimane di pratica sono sufficienti.
In uno studio condotto nell’Università del North Carolina, la dottoressa Fredrickson ha evidenziato come una pratica di rilassamento, focalizzata sulla gentilezza amorevole verso sé stessi e gli altri, incrementi le emozioni positive che porteranno a sperimentare nella quotidianità più gioia di vivere.
Definizione di gentilezza
Nel dizionario di psicologia online, la gentilezza viene definita come:
Un’azione benevola e utile intenzionalmente diretta verso un’altra persona, che è motivata dal desiderio di aiutare un altro e non di ottenere una ricompensa esplicita o di evitare punizioni esplicite.
Dizionario di Psicologia online
Non è cortesia, non la trovi tra le pieghe dell’educazione, non è nella “civiltà”. È nell’essenza di ciò che siamo, di quello che vogliamo e pensiamo.
La gentilezza può allargare il tempo
Mi affascina pensare che, nella scelta di donare tempo alle persone che incontriamo – per perseguire “risultati” importanti non solo per noi stessi ma per l’intera comunità – l’odiosa sensazione di non avere abbastanza tempo si ridimensioni.
Se questo fatica a esistere nelle nostre residenze per anziani, è perché per anni si è data più importanza al che cosa che non al come. Abbiamo sistemi di qualità orientati per lo più solo al che cosa, creando così nel personale di cura quella sensazione di urgenza interiore, ritardo costante, ansia, frenesia e spesso inefficacia.
Nelle nostre residenze per anziani, nelle corsie degli ospedali, nei servizi sociali e domiciliari la frase che ascoltiamo più spesso è “non ho tempo”, “non c’è tempo”.
Il giorno in cui le politiche sociali e sanitarie riconosceranno il diritto a standard di cura migliori per gli anziani di questo Paese sarà un fantastico giorno. Ma nel frattempo, se non possiamo agire sul minutaggio, dobbiamo agire sulla mentalità. Il che cosa – nella relazione di cura – ha il suo tempo, definito e riconosciuto. Il come non lo allunga, ma lo allarga. Esso è intriso di presenza, accuratezza, gentilezza. È la capacità di fare bene una cosa alla volta.
Il piccolo “extra” che allevia la sofferenza
Una cultura premurosa ha un grande impatto sulle persone: sui residenti ma anche sul personale e sui familiari. E tutto si gioca in quel piccolo “extra” che fa la differenza, in ciò che di unico posso fare o dire per far arrivare all’altro la mia serenità e gentilezza. È quel lavorare per desideri e non solo per bisogni. Questo accade tutte le volte in cui, in una relazione di cura, ci impegniamo per trovare la migliore soluzione a un problema assistenziale.
È quando non ti fermi fino a quando non ritrovi quel capo amato dal residente anziché continuare a rispondere da mesi “è in lavanderia”; è quando “vai oltre” a un compito e ci metti la tua attenzione ed essenza; è quando comprendi che non è solo di cibo che ha bisogno quell’anziano, ma di attenzione, cura, presenza, tenerezza.
Le persone delle quali abbiamo cura non sono corpi da imboccare, da far deambulare, idratare, lavare, ma sono persone da incontrare.
È attraverso questi atti di cura spontanei che crei la tua protezione alla fatica. L’atto di cura diventa arte quando qualcosa di “molto speciale” è fatto con qualcosa di piccolo, ma infinitamente prezioso. Probabilmente è in quell’extra che risiede il senso profondo della Cura, un extra che diventa nocciolo vitale di ogni gesto e pensiero di cura.
Parole gentili per comportamenti organizzativi gentili
La gentilezza nella relazione di cura inizia con ciò che facciamo con noi stessi (vado a riposare dopo la notte o mi costringo a rimanere alzata/o per dei “doveri” familiari?). È la cura del tono di voce e delle parole che usiamo.
Le parole: quelle che usiamo per dare un senso ai nostri pensieri, quelle con le quali ci raccontiamo storie interiori (se non trovi un modo troverai sempre una scusa), quelle con le quali accarezziamo l’anima a qualcuno che amiamo, quelle con le quali confezioniamo bombe di rabbia da lanciare come missili quando ci sentiamo messi all’angolo, quelle che non pronunciamo.
La parola che diventa quindi strumento di lavoro nel delicato rincorrersi di Cura e di Relazione.
La parola non solo cura, ma divide: i sani dai malati, quelli mentalmente a posto da quelli con il decadimento cognitivo, quelli che stanno seduti da quelli con il wandering.
La lingua è uno strumento potente. Se usato in modo positivo, può ispirare le persone. Se usato negativamente, può ferire. Ma quando diventa parte di una cultura ed è semplicemente insensato, cioè quando pronunciamo le parole senza comprenderne l’impatto, è pericoloso. Quando ci rendiamo conto del fatto che questo tipo di linguaggio è penetrato nella nostra cultura e ora sta effettivamente guidando i nostri atteggiamenti all’interno della relazione di cura, e le nostre credenze, possiamo iniziare a cambiare il nostro linguaggio per plasmare una nuova cultura.
Per esempio le parole che usiamo nelle nostre consegne per descrivere un comportamento, possono aiutarci ad analizzare quanto accaduto e a creare soluzioni oppure semplicemente “etichettare”. C’è una bella differenza tra scrivere “residente aggressivo” e “mentre lo aiutavo a infilare il maglione dalla parte destra il residente mi ha colpito”: le parole influiscono nella relazione di cura che instauriamo. Nella prima versione definisco la persona aggressiva, nell’altra osservo un comportamento e creo le migliori ipotesi: in questo caso potremmo chiederci se il residente potrebbe manifestare dolore alla spalla destra e magari chiedere al fisioterapista una valutazione. Potremmo così scoprire che ha un dolore da trattare e l’indomani mattina avremmo anche definito con quali abiti aiutarlo a vestirsi senza scatenare il dolore, nel frattempo il residente potrebbe iniziare una terapia per il dolore o della fisioterapia mirata.
La gentilezza nella relazione di cura come antidoto alla trascuratezza
Non c’è cura senza relazione. Penso alla meccanicità della cura, alla sua routine (alzato, mangiato, bevuto, camminato…). Alla cura fatta di piani di lavoro che identificano solo le azioni creando soddisfazione appena puoi dire a te stesso: “fatto”. Bagno fatto, deambulazione fatta, magazzino fatto. “Fatto come?” potrebbe essere la domanda importante da porti a partire da questo mese, nel quale la Cura si svolge allenando l’accuratezza del gesto, della parola, dello sguardo.
Charles R. Swindoll scriveva che
… la differenza tra qualcosa di buono e qualcosa di grande è l’attenzione ai dettagli.
Per cui, mi impegno ad avere accuratezza nella relazione di cura, accuratezza in ciò che osservo e riporto in consegna perché tutto ciò che rilevo e compio aiuta il mio collega – a sua volta – a cogliere la continuità del momento di cura. Il gesto che cura è intriso di sensibilità, attenzione e ogni azione svolta in piena consapevolezza. Ti guardo negli occhi, ti riconosco, conosco il tuo spazio e non lo invado ma mi affianco e ti accompagno lungo i tuoi sentieri della vita fino al Tempo Ultimo. Ecco allora che gentilezza fa rima con accuratezza.
La multi-patologia ci interroga ogni giorno sul “come” stiamo lavorando: se con il senso di impotenza del “non poter far di più” o se con il seme della ricerca di nuove soluzioni di fronte a una complessa dimensione di benessere. Mi impegno ad avere accuratezza nell’affiancare le famiglie nelle scelte dettate dal fine di vita attraverso la tenerezza del momento del saluto.
Il gesto che cura non ci lascerà mai orfani ma saprà far germogliare nuove attenzioni, nuove consapevolezze. Sai quale potrebbe essere la prima? La cura verso te stesso. Quella che prevede la ricarica dell’energia. La passione per il lavoro che hai scelto deve trovare delle aree di manutenzione, nelle quali, con accuratezza, fai il tagliando alla motivazione e all’umanità. Perché nessun gesto che cura possa mai vestirsi di trascuratezza, di maltrattamento, di violenza.
I superpoteri intrisi di gentilezza del Professionista
Sono quattro “segreti” che quando agisci nella relazione con la persona che vive con demenza – o con la persona disabile grave e con chiunque viva la propria quotidianità con evidenti mancanze cognitive – possono creare ponti incredibili di relazione.
Sono quelli che non ho mai visto fallire e che mi hanno permesso di far accadere cose quando tutti intorno a me dicevano “è impossibile fare il bagno senza prendere cazzotti, è impossibile accompagnarlo a lavarsi i denti senza prendere testate, è impossibile…”.
Nella relazione di cura, i superpoteri sono quelli che prendono origine e si nutrono di gentilezza. Hanno a che vedere con i nostri gesti (il con-tatto), i nostri sguardi (il con-tatto visivo), l’utilizzo della nostra voce, lo spazio che c’è tra noi e la persona che assistiamo. Puoi approfondire anche gli altri “superpoteri” leggendo il nostro libro La gentilezza nelle relazioni di cura. Storie, studi e metodo come antidoto ai maltrattamenti .
A proposito del con-tatto visivo nella relazione di cura
Ciascuno cresce solo se guardato
Una delle cose che osservo quando vengo chiamata a vivere l’esperienza di un check organizzativo è il numero di interazioni visive tra il personale e tra il personale con i residenti. Sì, l’interazione visiva costante e frequente è gentilezza in azione. Uno sguardo capace di incontrare gli occhi dell’altro, aumenta la compassione, l’empatia e favorisce un caldo contatto emotivo. Quando ci connettiamo con gli altri in questo modo, produciamo l’ormone “ossitocina”. Uno dei suoi ruoli chiave è nel mantenimento della salute cardiovascolare. Dilata le arterie e riduce la pressione sanguigna e aiuta anche a eliminare gli agenti potenzialmente patogeni (è come se fossimo stati programmati per creare benessere attraverso le azioni di cura).
Rendi il tuo sguardo ricco di tenerezza. Guarda gli occhi della persona che hai davanti. Sta aspettando le tue cure, ma sta vivendo emozioni uniche. Se saprai sostare nei suoi occhi potrai “sentire” dentro di te le sue emozioni ed essere pronto così a costruire una relazione efficace. Se è una persona con demenza oppure con disabilità grave ricorda che il suo cervello non è in grado di spiegarsi il “perché” delle tue azioni, la persona sente le sue emozioni e potrebbe non riuscire a capire il contesto. C’è una radice comune tra le parole “cura” e “curiosità”. E questo cosa ci dice? Che chi vuole dare cura deve essere curioso dell’altro. Colui che vuole dare cura assolutamente deve andare a scoprire ciò che è invisibile.
Questa è la bellezza dello sguardo.
Siamo soliti pensare che la relazione inizi con la parola, con l’azione, mentre – se ci riflettiamo attentamente – inizia in quell’istante in cui i nostri occhi incontrano quelli dell’altro. E gli studi ci dicono che bastano 250 millesimi di secondo per capire se il viso della persona che abbiamo davanti ci ispira fiducia.
Lo sguardo si appoggia sui tuoi occhi e grazie allo sguardo tu diventi scopritore, archeologo dell’invisibile. Il visibile è un corpo defedato di un anziano, è la sua incontinenza, la sua fatica a stare in piedi. Ma lo sguardo ti conduce all’invisibile e l’invisibile – per esempio – è la sua inaudita lucidità a comprendere che c’è qualcosa che non va, a rendersi conto che tu sei stanco o, perché no, che tu hai paura di prendere un cazzotto.
Danilo Dolci, grande educatore, diceva “ciascuno cresce solo se sognato”; mi perdonerà se cambio questa frase e la faccio diventare “Ciascuno cresce solo se guardato”. Il primo punto è cogliere l’oltre. Devi diventare capace, attraverso lo sguardo, di guardare oltre e cogliere quell’invisibile che è parte della costruzione della relazione terapeutica di aiuto. È quell’invisibile che diventa fondamenta sulle quali costruire la relazione con l’altro.
Tratto da: La gentilezza nelle relazioni di cura, di Letizia Espanoli e Francesca Zedda, Edizioni Dapero, 2023.
La gentilezza è uno strumento concreto e allenabile, fondamentale per prevenire burnout e maltrattamenti.
Ti aspettiamo il 14 ottobre 2023 dalle 8:00 alle 13:00 presso RSA Zucchi Falcina
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