di Giulia Oriani (RN, MSc, Infermiere Specialista in Neuroscienze. ASST Nord Milano)
Parole chiave:
Dementia, Interaction, Communic*, Nursing care, Skills training, caregiver, systematic review.
La persona con demenza e gli aspetti relazionali e comunicativi: cosa dice la letteratura scientifica sull’argomento? Nell’articolo che segue riportiamo una ricerca pubblicata su NEU* dove viene presa in analisi la letteratura internazionale (con uno sguardo che si concentra sul personale infermieristico) e dove viene raccontata l’esperienza italiana del rifugio Carlo Alberto.
Gli studi sulla demenza: a che punto siamo
La demenza è una patologia ormai estremamente nota e diffusa, seppure una sua definizione chiara sia ancor oggi difficile e non immediata.
Secondo quanto descritto da John Breitner, per più di 40 anni si è tramandata la definizione di Paul McHugh e Marshal Folstein, per i quali la demenza è “la sindrome clinica caratterizzata da un sostanziale declino nelle funzioni cognitive non imputabile ad alterazioni dello stato di coscienza” (Breitner, 2006).
Gli studi e gli approfondimenti svolti negli anni successivi hanno consentito di ampliare tale assunto, che rimane comunque ancor oggi il fondamento delle altre definizioni. La Committee of Geriatrics del Royal College of Physicians ha fornito nel 1981 la seguente definizione:
“La Demenza consiste in una compromissione globale delle funzioni cognitive superiori, ivi compresa la memoria, la capacità di far fronte alle richieste della vita di tutti i giorni, di svolgere le abilità percettivo-motorie acquisite in precedenza, di conservare un comportamento sociale adeguato alle circostanze e di controllare le proprie reazioni emotive, tutto ciò in assenza della compromissione dello stato di vigilanza”. (JR Coll Physicians Lond, 1981).
Secondo la quarta edizione del Manuale Statistico e Diagnostico dei Disturbi Mentali (DSM-IV) la demenza è una condizione clinica acquisita di natura organica espressa da assenza di alterazioni della coscienza e da un disturbo multiplo delle funzioni cognitive, con “ricaduta ecologica” cioè con effettive ripercussioni sulla vita di relazione del soggetto. (American Psychiatric Association, 2000).
Nel DSM-V, invece, il termine demenza viene sostituito con quello di Disturbo Neuro-cognitivo (American Psychiatric Association, 2013), ponendo l’accento sul declino sperimentato dal malato e sottolineando quindi la natura acquisita e degenerativa di tale affezione.
Tale disturbo neuro-cognitivo, distinto in lieve o maggiore, presume la presenza, accanto alla perdita di memoria, della compromissione di almeno una delle funzioni cognitive: linguaggio, abilità prassiche, capacità di riconoscimento degli oggetti e funzioni esecutive.
Tutto ciò porta ad una graduale perdita di autonomia nella vita quotidiana, fino alla totale dipendenza da un caregiver esterno.
Non si può considerare, quindi, la demenza come una patologia ben distinta, quanto piuttosto come una sindrome, caratterizzata da un insieme di segni e sintomi che costituiscono il quadro neurologico ben noto e che impattano notevolmente sulla qualità di vita della persona.
È importante che gli operatori sanitari conoscano in modo approfondito questa patologia, dal momento che essa colpisce circa 50 milioni di persone nel mondo, con un’incidenza approssimativa di 10 milioni di nuovi casi all’anno. (World Health Organization, 2021).
Secondo il rapporto OMS e ADI pubblicato nel 2012 (WHO and ADI, 2012), la demenza è una priorità mondiale di salute pubblica; “nel 2010 35,6 milioni di persone risultavano affette da demenza con stima di aumento del doppio nel 2030, il triplo nel 2050, con ogni anno 7,7 milioni di nuovi casi (1 ogni 4 secondi) e una sopravvivenza media dopo la diagnosi di 4-8-anni.
La stima dei costi è di 604 mld di dollari/anno.” In Italia il numero totale dei pazienti con demenza è stimato in oltre un milione (Istituto Superiore di Sanità, 2021); la crescita della popolazione anziana porterà ad un aumento costante dei casi con un impatto notevole sulla sanità pubblica e privata che non può e non deve essere sottovalutato.
Anche il sesso femminile rappresenta un importante fattore di rischio per l’insorgenza dell’Alzheimer, la forma più frequente di tutte le demenze (circa il 60%).
La sua prevalenza nei paesi industrializzati è circa del 8% negli ultrasessantacinquenni e sale ad oltre il 20% dopo gli ottanta anni. Gli effetti sulla sfera relazionale e cognitiva non impattano solo sulla persona con demenza ma anche sulla famiglia.
Il declino neuro-cognitivo esperito dal malato porta inevitabilmente ad una modifica sostanziale nella sua sfera relazionale e comunicativa (Samuelsson et al, 2014), che impatta sulla qualità di vita sia della persona che ne è affetta, sia del nucleo famigliare e dei caregiver coinvolti.
La comunicazione è uno scambio interattivo tra due o più partecipanti che presuppone la condivisione di un codice comunicativo, di un terreno comune che faciliti la comprensione del messaggio.
Va da sé, quindi, che un deterioramento cognitivo caratterizzato da perdite di memoria o alterazioni comportamentali quali aggressività o apatia, conduca inevitabilmente alla perdita dei fattori di interattività e condivisione che sono alla base di una comunicazione efficace.
Questo costante deficit relazionale può portare ad un progressivo isolamento dell’ammalato, allo sviluppo di forme depressive e, quindi, ad un peggioramento dei disturbi cognitivi.
Bisogna pertanto ricostruire il terreno comune partendo dalle caratteristiche e dalle esigenze della persona con demenza, in modo che si senta sempre coinvolta in una vita sociale e relazionale, nonostante i cambiamenti neurologici radicali che si verificano in lei in modo progressivo e definitivo.
Questo consente, a lungo termine, di ristabilire una comprensione efficace ed appagante per la persona con demenza.
Le difficoltà comunicative non impattano solo sulla persona affetta da demenza, ma coinvolgono anche la sua rete famigliare e relazionale
Le conseguenze di ciò sono spesso negative e si protraggono negli anni. È stato infatti dimostrato (Samuelsson et al, 2014) che le ripetizioni e la mancanza di risposta ai tentativi di interazione danno agli interlocutori la sensazione che la persona con demenza non stia ascoltando, o non sia interessata a ciò che il partner stia dicendo.
Non è infrequente, per chi lavora a contatto con questa tipologia di malati, diventare per il caregiver un riferimento non solo pratico, ma anche e soprattutto morale, ricevendo perplessità e confessioni scaturite da una modifica sostanziale dello stile di vita.
Ciò che viene frequentemente riportato è il senso di frustrazione e inadeguatezza avvertito da chi non riesce più a farsi comprendere dal proprio caro, fino a sfociare in un deleterio senso di colpa.
Alla tristezza di vedere modificata radicalmente la persona amata, spesso anche di non essere riconosciuti, si affianca il bisogno di restare presente in qualsiasi modo, che difficilmente riesce a trovare una traduzione pratica, proprio a causa della perdita di un terreno comunicativo fertile e favorevole.
L’accumulo di frustrazioni e sensazioni negative può portare sia la persona con demenza che i suoi caregiver ad uno stato depressivo (Adams et al, 2008). Diventa quindi prioritario, nel piano terapeutico-riabilitativo della persona con demenza, identificare le corrette strategie comunicative e coinvolgere i caregiver in questo processo rieducativo.
La ricerca sulla letteratura scientifica e i riscontri di una comunità “Dementia friendly”
Questa ricerca si propone come obiettivo primario quello di individuare nella letteratura scientifica dove vengono trattate le difficoltà comunicative e relazionali della persona con demenza, dei suoi caregiver, oltre alle eventuali strategie identificate come efficaci nel superare tali difficoltà.
È stato poi approfondito quanto identificato nella letteratura attraverso l’esperienza presso una struttura “Dementia friendly”.
È stata eseguita una ricerca bibliografica sulle principali banche dati, avvalendosi del sistema Lombardo SBBL. Le parole chiave utilizzate sono state: Dementia, Interaction, Communic*, Nursing care, Skills training, caregiver*, systematic review; sono state combinate utilizzando gli operatori booleani AND, OR, NOT e il database MeSH.
Gli articoli così ottenuti sono stati filtrati in un primo momento in base all’anno di stesura e alla lingua. Sono stati esclusi gli articoli precedenti il 1980 e quelli non in lingua inglese.
Successivamente, sono stati selezionati solo gli articoli pertinenti al quesito di ricerca escludendo tutti quelli che non chiarivano correttamente la diagnosi dei pazienti inclusi negli studi, quelli che riguardassero soggetti non affetti da demenza, quelli che non riportassero strategie comunicative efficaci e quelli non inerenti la comunicazione in senso stretto.
In un terzo momento, in fase di stesura, sono stati ricercati articoli di approfondimento di alcuni aspetti specifici.
La struttura selezionata è stata visitata personalmente in un periodo di tirocinio e le informazioni sono state fornite tramite intervista ai responsabili della struttura stessa.
I risultati dello studio:
Gli articoli consultati consentono di ottenere un buon panorama delle strategie messe in atto a livello internazionale per combattere il problema della comunicazione con la persona con demenza.
Una recente revisione della letteratura (Van Manen, 2020) sul processo di comunicazione tra la persona demente e il personale infermieristico ha identificato quali fattori giochino un ruolo importante in tale processo. Essi sono stati suddivisi in fattori legati allo staff e fattori legati al paziente.
Nel primo caso, l’analisi ha mostrato che la comunicazione è legata a:
- Caratteristiche professionali
- Esperienze individuali
- Abilità comunicative verbali e non verbali
- Approccio alla comunicazione
- Valori personali.
I fattori attribuibili alle persone affette da demenza, invece, riguardano:
- Caratteristiche del paziente
- Stato di salute
- Comportamenti
- Abilità comunicative verbali
- Valori.
In base a questi dati, gli autori della review hanno quindi costruito un modello comunicativo in grado di fornire un quadro generale dei fattori coinvolti nel processo comunicativo infermiere-paziente e di generare così strategie per migliorare tale processo, basate, ad esempio, sul rispetto dei bisogni, dell’identità e della privacy della persona con demenza, o sull’utilizzo di un sottofondo musicale nell’ambiente dedicato all’interazione.
La letteratura presa in analisi si concentra maggiormente sul personale infermieristico, identificando fattori modificabili e non modificabili, e sottolineando l’importanza del ruolo dell’infermiere nel processo comunicativo.
Vi sono tuttavia fattori che non sono direttamente modificabili dal personale, come ad esempio le capacità fisiche e cognitive del paziente.
In questi casi, è fondamentale adattare il proprio stile comunicativo in modo che venga incontro alle necessità di quest’ultimo, in rispetto al modello di cura basato sulla persona (Kitwood, 1997), che dovrebbe essere assistita non in base alla sua patologia, ma in base alle sue capacità e abilità residue, in un processo di adattamento delle cure costante e continuativo.
Supportare l’interazione per il personale infermieristico
Il limite maggiore identificabile in questo studio è l’assenza di una correlazione tra gli aspetti comunicativi e il setting di cura; si tratta comunque di una revisione estremamente recente, che lascia ampio spazio e suggerimenti per indagini future.
Nell’ambito dell’indagine dei fattori che contribuiscono a favorire l’interazione con le persone affette da demenza, uno studio condotto in Svezia e pubblicato nel 2019 da Christina Samuelsson e Anna Ekström (Samuelsson, 2019) ha valutato l’utilizzo di supporti tecnologici.
Coinvolgendo il personale ospedaliero opportunamente formato, sono stati utilizzati computer e applicazioni che consentivano la visualizzazione di fotografie, video e file musicali.
Il tipo di interazione sviluppatasi è stata quindi confrontata con tentativi di conversazione avvenuti senza il supporto della tecnologia.
È interessante notare come, nelle conversazioni “classiche”, il contributo maggiore provenisse dall’operatore, che guidava il paziente nella ricerca di nuovi “spunti” e argomenti, al fine di coinvolgerlo in modo continuativo e ostacolarne la tendenza alla distrazione e all’isolamento.
I supporti interattivi hanno invece consentito a codesti soggetti di prendere l’iniziativa e scegliere di cosa parlare, grazie alla presenza di immagini o suoni che suscitavano ricordi e attivavano in loro interesse e desiderio di condivisione.
Questo sistema è stato valutato positivamente dai pazienti stessi, che l’hanno descritto come divertente e coinvolgente; gli infermieri hanno invece osservato come per i pazienti fosse più semplice evocare ricordi dal passato che parlare di qualcosa di nuovo.
Da questo studio nascono numerosi spunti di riflessione su quanto possa essere effettivamente messo in pratica nella realtà di ogni giorno per far sentire le persone ancora partecipi nella vita sociale, e rimarca quanto importante sia il ruolo del caregiver nel processo di comunicazione.
È doveroso, infatti, essere ben coscienti di come debba essere condotta una conversazione
per aiutare la persona a viverla come parte attiva, sapendo sia quali argomenti trattare e come farlo, ma anche quale linguaggio sia più corretto utilizzare.
L’elderspeak: il “parlare anziano”
La letteratura dimostra infatti come anche il tipo di linguaggio utilizzato giochi un ruolo fondamentale nel processo assistenziale a questi pazienti e, conseguentemente, nell’andamento della loro patologia.
Williams e colleghi hanno pubblicato uno studio che evidenziava come i cosiddetti comportamenti di “resistenza alle cure” (RCT – Resistiveness to Care), per esempio aggressività, agitazione e wandering che spesso sono manifestati dalle persone affette da demenza, specialmente in corso di ricoveri ospedalieri, possano essere causati da un uso eccessivo del cosiddetto elderspeak (“parlare anziano”) (Williams, 2017).
Si tratta di uno stile comunicativo spesso utilizzato dai giovani quando parlano con gli anziani, che prevede l’utilizzo di un vocabolario e una grammatica semplificati, frasi brevi e sintatticamente povere, parlata rallentata associata a tono e volume più alti e l’utilizzo inappropriato di vezzeggiativi affettuosi.
Secondo il Communication Predicament of Aging model, un modello sviluppato alla fine degli anni Ottanta per identificare cause e conseguenze di una cattiva comunicazione inter-generazionale (Harwood, 2007), queste variazioni nel modo di parlare trasmettono un messaggio implicito di incompetenza del destinatario della comunicazione, con conseguenti perdita di autostima, depressione, ritiro in se stessi e dipendenza dal caregiver.
Sebbene la maggior parte delle volte le persone che fanno uso dell’elderspeak lo facciano convinte di migliorare la comunicazione e dimostrare affetto, la letteratura mostra chiaramente come esso fallisca nel raggiungimento di tali obiettivi.
Williams e colleghi hanno pertanto sperimentato l’introduzione di un programma di aggiornamento rivolto al personale delle case di cura che insegnasse loro a riconoscere ed evitare gli aspetti specifici dell’elderspeak che portano ai comportamenti RCT e, di conseguenza, ad un aumento del carico di lavoro, un maggior ricorso alle contenzioni fisiche e farmacologiche e un prolungamento del tempo di degenza (Williams, 2017).
Lo studio ha dimostrato un’interessante riduzione dei comportamenti di resistenza alle cure a seguito della riduzione del linguaggio adattato agli anziani: per ogni riduzione del 10% dell’elderspeak si assiste ad un calo del 4.3% dei comportamenti inappropriati, dato che si è mantenuto nel periodo di osservazione a posteriori.
Si tratta di uno studio di dimensioni relativamente piccole, limitato agli ambienti delle “Nursing Homes” ma fornisce sicuramente dati utili ad approfondimenti futuri e mostra come non solo sapere di cosa parlare, ma anche come farlo, sia fondamentale nel mantenere elevata la qualità della vita di queste persone.
Considerata l’importanza di un’adeguata comunicazione, non stupisce trovare in letteratura analisi di possibili programmi educativi rivolti allo staff ospedaliero e ai famigliari delle persone affette da demenza.
Come evidenziato da Eggenberger e colleghi, infatti, una scarsa conoscenza dei sintomi della demenza, dei cambiamenti comunicativi che intervengono in tale patologia e dei metodi per garantire una buona comunicazione, porta spesso a comportamenti di isolamento, paura e incomprensione, specialmente nel caregiver, con una conseguente rottura del rapporto interattivo con il proprio caro (Eggenberger, 2013).
L’importanza di una buona formazione in tema di comunicazione
Gli autori mettono quindi in luce l’importanza di programmi educativi e corsi di aggiornamento sul tema, proponendo una revisione della letteratura basata sull’argomento, dalla quale emerge come tali programmi conducano ad un decisivo miglioramento nella qualità della vita e nel benessere in generale della persona con demenza e aumentino positivamente le interazioni nei vari ambienti di cura.
Gli interventi educativi sono stati così classificati:
- Formazione in regime di ricovero
- Formazione sulle abilità comunicative concentrata sulla comunicazione tra i professionisti sanitari e i degenti con demenza
- Formazione sulle abilità comunicative concentrata sulla comunicazione tra i professionisti sanitari e le persone con demenza e in aggiunta concentrata sul miglioramento della comunicazione tra il personale
- Interventi di comunicazione per i professionisti sanitari finalizzati a migliorare la comunicazione tra il personale e i pazienti con demenza e in aggiunta focalizzata a incoraggiare la comunicazione e le interazioni paziente-paziente e paziente-visitatore.
- Formazione in regime di assistenza domiciliare
- Formazione sulle abilità comunicative per i famigliari che si prendono cura del paziente affetto da demenza in ambienti di comunità
- Interventi di comunicazione per educare i professionisti ad educare a loro volta i famigliari che si prendono cura di persone affette da demenza.
Le competenze comunicative e le capacità coinvolte nel processo interattivo da considerare all’interno di tali programmi di formazione sono riassumibili in:
- Abilità verbali. Suddivisibili in:
- Prima delle attività assistenziali
- Ad un primo stadio del percorso di malattia
- Ad uno stadio moderato o avanzato di malattia
- Abilità generiche
- Competenze non verbali ed emozionali
- Riconoscere tentativi di comunicazione inusuali
- Riflettere sul proprio comportamento non verbale
- Riconoscere e rispondere alle emozioni
- Attitudine verso la persona affetta da demenza
- Cambiare la propria prospettiva, assumendo quella del paziente
- Pensare alle attività da svolgere
- Riflettere sulle proprie percezioni
- Attitudini generali (utilizzo di approcci calmi, evitare elderspeak, ecc)
- Competenze di gestione dei comportamenti (ad esempio come rispondere ai disturbi comportamentali, tecniche di distrazione, evitare confronti diretti…)
- Uso di strumenti, come ad esempio libri di ricordi
- Esperienza personale
- Riflettere sul proprio stile comunicativo
- Dare e ricevere feedback.
- Conoscenze teoriche: generali, etiche e culturali.
Oltre ad un miglioramento dello stile di vita e del benessere generale del paziente, impostare una corretta comunicazione porta a benefici anche nella gestione delle attività assistenziali durante l’orario di lavoro, oltre che ad una riduzione significativa dell’utilizzo di antipsicotici.
Come valutato precedentemente, un’errata strategia comunicativa può comportare un aumento dell’insofferenza nei confronti delle cure che spesso richiedono, purtroppo, un ricorso alla contenzione fisica o farmacologica nonostante gli effetti collaterali ben noti e la loro ridotta efficacia (Bonner, 2015) (Tampi, 2016).
Lo studio pubblicato nel 2018 da Shaw e colleghi mostra come un programma educativo ben strutturato conduca ad una significativa riduzione nell’utilizzo di farmaci antipsicotici all’interno di strutture residenziali (Shaw, 2018).
Il programma, già proposto da Williams e colleghi, prevede una formazione perché il personale impari a modificare il proprio stile comunicativo con il paziente, in modo particolare operando la riduzione dell’elderspeak e degli “infantilismi” spesso utilizzati inconsapevolmente con gli effetti negativi già evidenziati.
I numerosi limiti dello studio preso in esame non consentono un’analisi approfondita, ma è immediato comprendere come una riduzione dell’aggressività riduca necessariamente gli interventi attuati per contenerla e le loro conseguenze negative sul paziente.
Dai miglioramenti comunicativi alla riduzione delle forme di contenzione
Gli effetti collaterali di contenzioni fisiche e farmacologiche sono infatti tristemente noti; la riduzione fino all’eliminazione del loro uso, però, contrasta spesso con il carico di lavoro eccessivo riscontrato negli ambienti di cura, sia ospedalieri che territoriali, e con le tempistiche ristrette di cui gode il personale sanitario.
Un aumento del personale assunto va, di conseguenza, a beneficio diretto del paziente comportando un miglioramento dell’assistenza e una riduzione degli elementi pericolosi e nocivi; formare il personale è fondamentale ma non sufficiente se non viene fornita la possibilità di attuare quanto appreso nei tempi e nei modi corretti.
Una diagnosi di demenza impatta non solo sulla persona, ma anche sulla sua sfera relazionale. Adams e colleghi dimostrano, attraverso uno studio, come la perdita di un confronto intimo, la qualità della relazione nel corso del tempo e la perdita del senso di identità esperita dalla persona demente possano avere un ruolo importante nel causare stress e depressione nei famigliari (Adams, 2007).
Per approfondire il tema della comunicazione con la persona con demenza:
Le fonti prese in analisi dimostrano come prendersi cura di una persona con demenza sia un fattore di rischio per la comparsa di depressione e problemi di salute sia mentale che fisica nei caregiver, portando inevitabilmente ad un peggioramento delle cure erogate (Beach, 2005).
La relazione tra il la persona con demenza e il suo nucleo famigliare, come abbiamo osservato, cambia inevitabilmente, portando ad una perdita di reciprocità che causa sofferenza sia nel malato che nei suoi affetti.
È dimostrato inoltre come il caregiver sperimenti un senso di perdita “anticipato”: se nell’assistenza ad un malato terminale il cordoglio tende a manifestarsi nelle ultime fasi di vita, nel caso della demenza la progressiva perdita di capacità cognitive tende ad anticipare notevolmente tale sofferenza, a volte fino a numerosi anni prima del termine della vita.
Gli autori dello studio, nonostante le limitazioni incontrate, dimostrano come sia estremamente necessario includere un approfondimento educativo sul senso di perdita e il cordoglio quando si lavora con il caregiver, concentrandosi sulla relazione tra la persona affetta da demenza e i membri della famiglia che si occupano dell’assistenza, per limitare le conseguenze sullo stato di salute di entrambe le parti coinvolte.
Il rendersi conto delle emozioni negative e dei problemi relazionali dovrebbe essere una componente fondamentale degli approcci educativi e degli interventi sociali rivolti ai caregiver in modo da impattare positivamente non solo su chi presta assistenza ma anche sulla qualità della vita della persona con demenza.
Questi risultati sono confermati anche da una revisione della letteratura condotta da Ablitt et al, volta ad analizzare l’impatto della demenza sulla qualità delle relazioni (Ablitt,2009). L’analisi si concentra su tre ambiti ben distinti:
- Evidenze sull’impatto della demenza sulle relazioni, ossia come la demenza cambia la qualità delle relazioni interpersonali.
- L’influenza delle relazioni sulla vita con la demenza; come la qualità delle relazioni passate e presenti influenza il modo in cui la persona affetta da demenza e i suoi cari gestiscono la vita con questa patologia.
- I differenti tipi di relazione pertinenti alla vita con la demenza; come le relazioni possono svilupparsi nell’ambito della demenza.
Ciò che emerge dallo studio è ancora una volta come la demenza influenzi negativamente le relazioni, portando a un declino nella reciprocità, nella comunicazione, nelle opportunità di condivisione di attività e momenti felici nella coppia e/o nella famiglia.
Anche la qualità delle relazioni prima della diagnosi riveste un certo ruolo; peggiori relazioni portano a maggior depressione sia nel caregiver che nella persona con demenza e aumentano tensioni e stress.
Sembra tuttavia che anche un elevato livello di affettività impatti negativamente sullo stato emotivo dei parenti, causando spesso depressione.
Risulta chiaro, pertanto, che il nucleo famigliare debba essere sempre tenuto in considerazione al momento della diagnosi perché quello è il momento critico dell’indagine sulla sfera relazionale del paziente quando lo si prende in carico, poiché essa influenza l’accettazione di quanto è avvenuto e di come si evolverà la malattia.
identificare la rete emotiva della persona con demenza e dei suoi caregiver consente di sviluppare interventi più personalizzati volti a ridurre stress e depressione per entrambi.
Una buona qualità della relazione precedente alla malattia è determinante nell’affrontare la stessa
Per fare ciò, viene proposto uno schema teorico in base al quale la qualità delle relazioni prima della diagnosi determina il modo in cui si svilupperà la relazione nel corso della malattia.
Considerare quindi sia le relazioni precedenti che l’andamento assunto in seguito è utile per i sanitari per riconoscere punti di forza e vulnerabilità sui quali lavorare in modo personalizzato con ogni paziente e le loro famiglie.
Non è stata identificata attualmente in letteratura una versione italiana di tale schema, che potrebbe essere utilizzato in futuro per personalizzare gli interventi educativi e sociali.
L’importanza della relazione pre-esistente è sottolineata anche da Quinn e colleghi, che evidenziano come essa sia l’elemento chiave che spinge il famigliare ad assistere la persona con demenza con meno fatica, poiché il legame emotivo ed affettivo porta a ritenere l’assistenza come qualcosa di normale e naturale (Quinn, 2009).
Anche in questa revisione della letteratura si evidenzia, però, come l’atto del prendersi cura possa impattare negativamente sullo stato emotivo di chi lo attua, fino a causare stati depressivi non trascurabili.
Il crescente stato di dipendenza sviluppato dalla persona demente può essere vissuto come un trauma, un carico fisico ed emozionale troppo grosso per il caregiver, che può alla lunga decidere di interrompere l’assistenza contribuendo così in modo involontario al peggioramento delle condizioni di salute del proprio caro.
È facilmente intuibile come questa situazione negativamente sul caregiver, aumentando i sintomi depressivi, in una spirale potenzialmente letale.
Ecco perché i professionisti sanitari giocano un ruolo fondamentale nell’analizzare le relazioni esistenti e pianificare un programma educativo e di supporto costante delle famiglie.
Il rifugio re Carlo alberto
Secondo i principi dell’assistenza centrata sulla persona di Kitwood, come già precedentemente sottolineato, la persona affetta da demenza dovrebbe essere gestita in base alle sue abilità residue, piuttosto che focalizzandosi sui sintomi e sulla malattia (Kitwood, 1997).
Da questo punto di vista, può essere utile considerare la persona con demenza come partner attivi nella comunicazione (Van Manen, 2020), in grado di fornire un contributo significativo nonostante i limiti fisici o cognitivi.
Tale contributo può e deve essere identificato dal personale sanitario e indirizzato verso una conversazione ricca di significato. Il tutto, sempre tenendo a mente l’obiettivo principale, ossia quello di non far vivere la demenza al paziente e ai suoi famigliari come un limite invalidante, ma come un punto di partenza per nuove possibilità di scoperta e relazione.
Questi principi guidano la costituzione di ambienti di cura centrati sulla persona con demenza, adattati alle sue capacità e necessità, non più “standardizzati” ma costruiti intorno alla persona con demenza. Ideologia che ha guidato e guida tutt’ora una realtà presente in Piemonte, sulla collina di Luserna S. Giovanni: il Rifugio Re Carlo Alberto.
Qui sono stati infatti creati nel corso degli anni una serie di ambienti diversificati in base alla gravità della patologia dementigena e della sintomatologia manifestata dalla persona.
In base al percorso di cura intrapreso, i pazienti possono essere ricollocati nel corso della loro degenza verso i nuclei ritenuti più adatti a loro.
Possiamo quindi riconoscere il nucleo Davit, che accoglie pazienti con buone capacità motorie o cognitive residue, senza disturbi del comportamento tipici della demenza (wandering, ansia, agitazione, insonnia…), il nucleo Mansarda, in cui si trovano persone prevalentemente giovani, con demenze iatrogene o da dipendenze, il nucleo Alzheimer vero e proprio, suddiviso in Cascina 1 e Cascina 2.
La prima accoglie persone in fase acuta senza disturbi del comportamento; nella seconda, invece, vi trovano accoglienza dopo la slatentizzazione di tali disturbi, che vengono però considerati dal personale sanitario come dei bisogni che la persona non è in grado di esprimere correttamente, e non come dei disturbi da correggere.
Per tale motivo la struttura e l’assistenza sono state adattate, in modo da cercare di rispondere adeguatamente a questi bisogni: ci sono quindi corridoi larghi e lunghi, messi in sicurezza, che permettono alle persone di fare lunghe camminate, sia durante il giorno che nelle ore notturne, con la presenza disseminata di sedie o panchine, che consentono qualche istante di riposo prima di ripartire con il cammino.
Anche il pasto è adeguato a questi bisogni: si è visto infatti che, costrette sedute a mangiare, le persone con manifestazioni comportamentali di tipo wandering, rifiutavano il cibo, manifestavano aggressività auto o eterolesiva, rendendo più difficoltoso il momento del pasto e aumentando l’utilizzo di contenzioni fisiche o farmacologiche.
Il ricorso a tipologie di alimenti in stile “finger food”, che si possano mangiare mentre si cammina, ha notevolmente ridotto il problema, mantenendo i pazienti sempre correttamente nutriti.
Anche il ricorso a stoviglie colorate, che attirino l’attenzione del paziente e stimolino la voglia di mangiare ma anche di socializzare ha contribuito a risolvere il problema del rifiuto dell’alimentazione.
Ai nuclei si aggiunge poi una RSA vera e propria, in cui si trovano degenti le persone che richiedono di assistenza totale; la personalizzazione dell’assistenza, centrata sui bisogni della persona, consente anche a questi malati di recuperare con il tempo alcune autonomie e ridurre così il grado di dipendenza.
Proprio il bisogno di autonomia ha spinto di recente alla fondazione di una nuova ala, nella quale gli ospiti sono stimolati anche a collaborare alla preparazione dei pasti, sempre sotto la sorveglianza del personale sanitario, e possono disporre del loro tempo quasi come se si trovassero a casa loro, in modo da rendere meno traumatica l’ospedalizzazione, ridurre il rischio di depressione e il conseguente aggravamento precoce della malattia.
Tutti questi dettagli fanno la differenza tra una struttura “Dementia friendly” come il Rifugio e le normali Residenze Sanitarie Assistenziali distribuite sul territorio italiano, e che hanno consentito alla struttura di vincere nel 2014 il prestigioso premio EFID (European Foundations’ Initiative on Dementia).
L’attenzione alla persona con demenza include tutti i suoi bisogni, compresi quelli comunicativi e relazionali. Grazie alla presenza di numerosi volontari e figure professionali dedicate, vengono svolte molte attività che stimolino le interazioni paziente-paziente e paziente-operatore nel rispetto delle evidenze scientifiche più moderne e aggiornate.
Per questo motivo viene utilizzata, nel corso di incontro con una neuropsicologa, un’interfaccia digitale chiamata Brainer, che consente di mantenere attiva e “allenata” la sfera cognitiva, contrastando il declino della demenza.
Anche la partecipazione ad attività esterne alla struttura, quando possibile, fa sì che la persona con demenza non si senta “rinchiusa” all’interno di un ambiente asettico fino alla fine dei suoi giorni, ma parte attiva di una nuova comunità.
Il caregiver viene coinvolto fin dalle fasi precoci di malattia, grazie ad una iniziativa chiamata Caffè Alzheimer: una serie di incontri periodici organizzati dal Rifugio con la partecipazione di diverse figure professionali volti a spiegare alla popolazione cosa sia la demenza e come ci si debba muovere nel caso in cui si sospettino dei sintomi in un proprio caro.
L’informazione e l’educazione sono fondamentali nell’evitare ritardi di diagnosi che molto spesso impediscono di iniziare i trattamenti nelle primissime fasi di malattia, quando cioè potrebbero ritardare l’evoluzione dei sintomi; sono inoltre importanti per abbattere l’alone di paura e stigmatizzazione che negli anni si è creato intorno a questa patologia e cercare di ridurre la depressione correlata alla diagnosi.
Per concludere
Nella stesura di questa revisione, l’esplorazione della letteratura è stata limitata solo dall’arco temporale esplorabile; si è scelto infatti di non andare troppo indietro negli anni, per stare al passo con i progressi fatti in campo tecnologico e rendere più contemporanei l’indagine e gli interventi proposti.
Per quanto riguarda l’esperienza sul campo, invece, purtroppo la pandemia da Covid-19 ha imposto una riduzione del numero di ore dedicate all’incontro con il personale e gli ospiti del Rifugio Re Carlo Alberto; l’ingerenza di tale evento è stata fortunatamente ridotta grazie all’ottima organizzazione dello staff della struttura.
Si è potuto osservare nel corso dell’analisi della letteratura scientifica selezionata come, specialmente negli ultimi anni, la dimensione comunicativa e relazionale del paziente demente sia diventata sempre più oggetto di interesse e studio, nella ricerca di un agire comune che aiuti le persone colpite da una delle patologie ormai più diffuse al mondo.
Se i problemi comunicativi erano già noti, la definizione di modello comportamentale volto alla loro risoluzione è importante per migliorare la qualità di vita delle persone affette da demenza e per ridurre le manifestazioni caratteriali ad essi correlati.
Anche l’attenzione alla sfera relazionale e ai caregivers ha raggiunto nuove evidenze. Uno dei primi studi che si è occupato di descrivere il dolore e il senso di perdita dei parenti, infatti, ha sottolineato come tale sofferenza fosse misconosciuta all’interno della società (Walker, 1994); ad oggi, non può e non deve più essere ignorata, ma integrata nel processo di riabilitazione di tutto il nucleo famigliare coinvolto.
Si aprono pertanto numerose prospettive future nel lavoro del personale sanitario coinvolto nell’assistenza di queste persone, soprattutto degli infermieri.
L’importanza della figura di un infermiere specialista in Neuroscienze
La definizione della figura di un infermiere specialista in Neuroscienze è il primo passo per tracciare un percorso di prevenzione, cura e riabilitazione dedicato esclusivamente ai pazienti affetti da malattie neurodegenerative, tra le quali figura la demenza.
Tale professionista, in possesso di un bagaglio culturale specifico ed approfondito, diventa un’importante figura di riferimento per il malato e i suoi famigliari, in grado di fornire assistenza altamente specializzata basata sulle evidenze scientifiche in costante evoluzione.
Quanto analizzato fino ad ora permette già di definire vari campi di intervento, sia teorici che pratici, partendo dalla costituzione di iniziative territoriali, sulla falsa riga di quanto viene fatto nei Caffè Alzheimer, che aumentino la consapevolezza della popolazione verso la malattia, le sue conseguenze, e le migliori strategie di trattamento esistenti.
Nell’assistenza alla persona con demenza l’infermiere specialista deve mettere in pratica quanto appreso dallo studio della letteratura, attuando interventi aggiornati e personalizzati che stimolino la relazione e la comunicazione con il malato e riducano progressivamente il ricorso a contenzioni fisiche e farmacologiche.
L’esperienza del Rifugio Re Carlo Alberto di Luserna insegna inoltre come adattare le strutture in modo che i pazienti possano dare spazio ai loro bisogni, per esempio camminando liberamente, o tramite l’eliminazione di orari rigidi per l’addormentamento e il risveglio, aiuti a ridurre drasticamente l’utilizzo terapie farmacologiche e strutturali contenitive.
Per il futuro sono auspicabili nuovi studi sul territorio italiano volti ad indagare da un lato sull’efficacia dell’introduzione dei supporti digitali per la comunicazione all’interno delle nostre realtà ospedaliere, dall’altro sull’emotività dei caregiver e sulle eventuali strategie utili a ridurne depressione e senso di perdita.
La speranza è quella che, un giorno, una diagnosi di demenza non venga più vissuta come una tragica condanna, ma come una prospettiva per una nuova ed interessante parentesi di vita.
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*La ricerca è stata pubblicata dal n°1 di marzo della rivista NEU (direttore scientifico: Francesco Casile)
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La persona con demenza e gli aspetti relazionali e comunicativi: cosa dice la letteratura scientifica sull’argomento? Nell’articolo che segue riportiamo una ricerca pubblicata su NEU* dove viene presa in analisi la letteratura internazionale (con uno sguardo che si concentra sul personale infermieristico) e dove viene raccontata l’esperienza italiana del rifugio Carlo Alberto.
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