Dietro la divisa di ogni operatore c’è la sua storia. In quest’articolo vi racconto quella delle sorelle Olga e Nelly, rispettivamente 58 e 50 anni, nate a Cali, in Colombia, che oggi lavorano come OSS presso la Fondazione A. E. Cerino Zegna di Occhieppo Inferiore, Biella.
Confidando nel fatto che la diversità culturale è ricchezza e che ogni voce conta, ho chiesto loro di esprimere il loro punto di vista sulla Cura. Il focus sulle relazioni e un approccio aperto e pacato verso la morte, sono tra gli elementi chiave che fanno da sfondo alla loro quotidianità di operatrici e dai quali possiamo trarre ispirazione.
Una cultura che guarda alle Persone
La prima ad arrivare in Italia è Olga, negli anni Novanta, tramite il marito, di origini siciliane. Inizialmente occupata in una fabbrica di stoffe pregiate, diventa successivamente OSS con l’aiuto di una suora dell’asilo dove porta suo figlio. Inizia quindi a lavorare in una struttura dell’Opera Don Orione, accanto a persone disabili: “tutto ciò che so, l’ho imparato grazie alle suore”, mi racconta.
Lavorerà in questa struttura fino al 2004, per poi iniziare invece il proprio percorso accanto alle persone anziane. “Questo lavoro mi piace e voglio trasmettere ai ragazzi giovani che ci vuole tanta passione per farlo”.
Passione che Olga ha trasmesso anche alla sorella Nelly, che la raggiunge infatti in Italia nel ’99 e segue un analogo percorso professionale, lavorando anche come badante in casa per 8 anni, prima di arrivare in RSA.
“Dopo più di vent’anni che facciamo questo lavoro ancora lo amiamo. Entrambe ci mettiamo il cuore. Probabilmente anche per cultura, perché da noi c’è una cultura molto forte di rispetto e attenzione alle persone, soprattutto verso i genitori e gli anziani”, raccontano, “e da noi la Casa di riposo non esiste. Da noi le persone stanno a casa; abbiamo solo un Piccolo Cottolengo dove vanno le persone che non hanno nessuno. Questa infatti per noi è stata una cosa nuova, alla quale non eravamo abituate”.
Fiducia, dono e relazioni
Secondo quanto Olga e Nelly mi raccontano, infatti, in Colombia anche le persone più compromesse e fragili restano comunque a casa e la comunità resta vicino a loro, aiutando “più con la relazione che non con i farmaci”.
In generale, mi dicono, le persone in Colombia sono più attive di quanto non lo siano qua in Italia, anche le persone con malattie gravi.
“Ecco, sì… ecco cosa mi manca della Colombia”, dice Olga, “mi manca l’allegria delle persone. Vedere le vecchiette fuori al pomeriggio, che parlano, che sono attive… Questa è la nostra cultura. Qui in Italia non si può, anche per il clima. Da noi c’è più caldo e si può stare all’aria aperta… questa è la cosa bella. Forse mi manca la felicità del mio paese. Da noi le relazioni sono più importanti del denaro e il perno di tutto è la fiducia: le famiglie sono molto unite generalmente, quindi puoi sempre contare sul fatto che se hai bisogno qualcuno ti aiuterà”.
E la fiducia si estende alla loro cultura del vivere più in generale:
“Noi crediamo che nella vita bisogna dare tanto, perché in qualche modo ti verrà sempre restituito”.
Questa cultura del dono fa da sfondo al loro essere OSS ed è anche uno degli elementi chiave che le porta a vedere la morte con occhi diversi dai nostri.
Accanto a chi muore
Alla domanda: “in quali aspetti dell’assistenza percepite maggiore distanza con la vostra cultura d’origine?”, le operatrici infatti non hanno dubbi: “Siamo molto diversi da voi nell’aspetto della morte”, mi rispondono subito.
Per prima cosa raccontano di come per loro sia fondamentale accompagnare ed essere accanto a una persona fino alla fine. Per loro è inconcepibile che una persona possa morire sola.
Spesso ci sono loro in RSA accanto alla persona che sta morendo, quando i parenti non possono essere presenti:
“non è sempre facile, siamo come spugne, che assorbono tutte le emozioni accanto a chi muore. E non tutte le morti sono belle. Dovresti crearti un’armatura, ma se sei umano non puoi e allora stai accanto alla persona e raccogli tutto ciò che ha da darti, spesso tutto il dolore che ha… devi essere molto forte”.
Il momento più duro in questo senso per loro è stato durante la pandemia, quando le famiglie non potevano entrare in RSA: “è stato terrificante”, raccontano, “c’eravamo solo noi accanto alle persone qui in RSA, a raccogliere tutte le loro paure”.
Il giusto tempo per la morte
D’altra parte, la loro cultura le aiuta a mantenere questa vicinanza con le persone morenti senza rimanerne schiacciate.
“Da noi c’è meno paura della morte, perché siamo un paese violento: tu ti alzi al mattino e non sei certo che ritornerai a casa alla sera. E dunque viviamo alla giornata e, appunto, non abbiamo tutto questo terrore della fine”.
Ma anche la cultura collegata al lutto e ai rituali per i propri cari defunti è diversa dalla nostra:
“noi siamo più attaccati ai nostri morti, li teniamo in casa almeno tre giorni e dopo il funerale facciamo una veglia di preghiere di 9 giorni, durante i quali non si può accendere né tv né radio, fino a quella che chiamiamo ‘l’ultima notte’, dopo la quale lo spirito non c’è più. È un modo per noi per salutare la persona e accompagnarla dall’altra parte con gradualità”.
Una gradualità che stride dentro di loro con i tempi più veloci che hanno incontrato qui, in particolare in struttura (“dove devi sistemare la stanza alla svelta, perché arriva subito un’altra persona a riempirla”).
E la gradualità vale anche per i lutti, che hanno tempi prestabiliti: per esempio, per i genitori si sta in lutto almeno 5 anni. Al cimitero, poi, si va ogni domenica – non solo il 2 di novembre – perché in verità è un luogo di ritrovo, dove si incontrano amici e altre famiglie, un luogo di vita insomma.
Cosa conta di più nella Cura?
Socialità, fiducia e vicinanza sembrano permeare l’approccio di Olga e Nelly non solo alla Cura, ma più in generale alla vita. Per sintetizzare tutto con una parola: Relazioni. Ecco cosa conta di più per loro nella Cura.
“La parte bella nel lavoro di cura è il contatto, la comunicazione con la persona”, mi dicono infatti, mostrandosi in questo senso in linea con molti dei professionisti della Cura italiani che abbiamo intervistato in questi anni.
Segnaliamo per esempio l’articolo “Essere OSS: cosa significa?” e, soprattutto il dossier cartaceo del N. 17 di CURA_“Riaccendere la luce dei professionisti”, dove abbiamo indagato che cosa spinge maggiormente le persone a imbracciare la strada di Cura (e le risposte hanno spesso a che fare con persone e relazioni).
Così, mi viene spontaneo domandare se c’è stata per loro una relazione significativa, una persona importante che le abbia ispirate alla strada di Cura.
La risposta è sì.
È la nonna che ha trasmesso loro l’idea di Cura, perché era una Curandera. A casa loro venivano continuamente accolte tantissime persone che arrivavano per farsi aiutare. “Quando siamo stati invasi dagli spagnoli”, mi raccontano, “le Curandere venivano bruciate… perché avevano poteri straordinari”.
Domando così quale fosse il potere più straordinario delle Curandere, ma mi rendo conto che la mia curiosità mette in imbarazzo le operatrici. Olga mi dice infatti che non sa come spiegarmelo in lingua italiana, perché le vengono le parole solo in spagnolo per descrivere questo potere.
Timidamente mi dice: “forse, la Curandera ha l’abilità di capire le piante, la natura in generale, prima ancora che le persone”.
“Come l’avresti detto in spagnolo?”, le domando.
“Donde no hay mata no hay mundo”.
Ovvero, Dove non ci sono le piante non c’è il mondo.
E così si chiude la mia chiacchierata con Olga e Nelly, che mi spiegano di come abbiano trasmesso un po’ del loro sapere anche ai colleghi, attivando diversi progetti con le piante in reparto.
Proprio loro, che da giovani usavano le foglie di coca non come droghe, ma per placare la fame.
“La natura non è a nostra disposizione, per i nostri piaceri”, mi dicono, “lei può curare e guarire, se sappiamo conoscerla”.
E così chiudo il cerchio della loro visione rispettosa del mondo e dei suoi cicli naturali, dove il focus sembra essere sempre e prima di tutto sulla relazione, non solo tra esseri umani ma anche – e forse soprattutto – tra noi e il pianeta che abitiamo.
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Dietro la divisa di ogni operatore c’è la sua storia. In quest’articolo vi racconto quella delle sorelle Olga e Nelly, rispettivamente 58 e 50 anni, nate a Cali, in Colombia, che oggi lavorano come OSS presso la Fondazione A. E. Cerino Zegna di Occhieppo Inferiore, Biella.
Confidando nel fatto che la diversità culturale è ricchezza e che ogni voce conta, ho chiesto loro di esprimere il loro punto di vista sulla Cura. Il focus sulle relazioni e un approccio aperto e pacato verso la morte, sono tra gli elementi chiave che fanno da sfondo alla loro quotidianità di operatrici e dai quali possiamo trarre ispirazione.
Una cultura che guarda alle Persone
La prima ad arrivare in Italia è Olga, negli anni Novanta, tramite il marito, di origini siciliane. Inizialmente occupata in una fabbrica di stoffe pregiate, diventa successivamente OSS con l’aiuto di una suora dell’asilo dove porta suo figlio. Inizia quindi a lavorare in una struttura dell’Opera Don Orione, accanto a persone disabili: “tutto ciò che so, l’ho imparato grazie alle suore”, mi racconta.
Lavorerà in questa struttura fino al 2004, per poi iniziare invece il proprio percorso accanto alle persone anziane. “Questo lavoro mi piace e voglio trasmettere ai ragazzi giovani che ci vuole tanta passione per farlo”.
Passione che Olga ha trasmesso anche alla sorella Nelly, che la raggiunge infatti in Italia nel ’99 e segue un analogo percorso professionale, lavorando anche come badante in casa per 8 anni, prima di arrivare in RSA.
“Dopo più di vent’anni che facciamo questo lavoro ancora lo amiamo. Entrambe ci mettiamo il cuore. Probabilmente anche per cultura, perché da noi c’è una cultura molto forte di rispetto e attenzione alle persone, soprattutto verso i genitori e gli anziani”, raccontano, “e da noi la Casa di riposo non esiste. Da noi le persone stanno a casa; abbiamo solo un Piccolo Cottolengo dove vanno le persone che non hanno nessuno. Questa infatti per noi è stata una cosa nuova, alla quale non eravamo abituate”.
Fiducia, dono e relazioni
Secondo quanto Olga e Nelly mi raccontano, infatti, in Colombia anche le persone più compromesse e fragili restano comunque a casa e la comunità resta vicino a loro, aiutando “più con la relazione che non con i farmaci”.
In generale, mi dicono, le persone in Colombia sono più attive di quanto non lo siano qua in Italia, anche le persone con malattie gravi.
“Ecco, sì… ecco cosa mi manca della Colombia”, dice Olga, “mi manca l’allegria delle persone. Vedere le vecchiette fuori al pomeriggio, che parlano, che sono attive… Questa è la nostra cultura. Qui in Italia non si può, anche per il clima. Da noi c’è più caldo e si può stare all’aria aperta… questa è la cosa bella. Forse mi manca la felicità del mio paese. Da noi le relazioni sono più importanti del denaro e il perno di tutto è la fiducia: le famiglie sono molto unite generalmente, quindi puoi sempre contare sul fatto che se hai bisogno qualcuno ti aiuterà”.
E la fiducia si estende alla loro cultura del vivere più in generale:
“Noi crediamo che nella vita bisogna dare tanto, perché in qualche modo ti verrà sempre restituito”.
Questa cultura del dono fa da sfondo al loro essere OSS ed è anche uno degli elementi chiave che le porta a vedere la morte con occhi diversi dai nostri.
Accanto a chi muore
Alla domanda: “in quali aspetti dell’assistenza percepite maggiore distanza con la vostra cultura d’origine?”, le operatrici infatti non hanno dubbi: “Siamo molto diversi da voi nell’aspetto della morte”, mi rispondono subito.
Per prima cosa raccontano di come per loro sia fondamentale accompagnare ed essere accanto a una persona fino alla fine. Per loro è inconcepibile che una persona possa morire sola.
Spesso ci sono loro in RSA accanto alla persona che sta morendo, quando i parenti non possono essere presenti:
“non è sempre facile, siamo come spugne, che assorbono tutte le emozioni accanto a chi muore. E non tutte le morti sono belle. Dovresti crearti un’armatura, ma se sei umano non puoi e allora stai accanto alla persona e raccogli tutto ciò che ha da darti, spesso tutto il dolore che ha… devi essere molto forte”.
Il momento più duro in questo senso per loro è stato durante la pandemia, quando le famiglie non potevano entrare in RSA: “è stato terrificante”, raccontano, “c’eravamo solo noi accanto alle persone qui in RSA, a raccogliere tutte le loro paure”.
Il giusto tempo per la morte
D’altra parte, la loro cultura le aiuta a mantenere questa vicinanza con le persone morenti senza rimanerne schiacciate.
“Da noi c’è meno paura della morte, perché siamo un paese violento: tu ti alzi al mattino e non sei certo che ritornerai a casa alla sera. E dunque viviamo alla giornata e, appunto, non abbiamo tutto questo terrore della fine”.
Ma anche la cultura collegata al lutto e ai rituali per i propri cari defunti è diversa dalla nostra:
“noi siamo più attaccati ai nostri morti, li teniamo in casa almeno tre giorni e dopo il funerale facciamo una veglia di preghiere di 9 giorni, durante i quali non si può accendere né tv né radio, fino a quella che chiamiamo ‘l’ultima notte’, dopo la quale lo spirito non c’è più. È un modo per noi per salutare la persona e accompagnarla dall’altra parte con gradualità”.
Una gradualità che stride dentro di loro con i tempi più veloci che hanno incontrato qui, in particolare in struttura (“dove devi sistemare la stanza alla svelta, perché arriva subito un’altra persona a riempirla”).
E la gradualità vale anche per i lutti, che hanno tempi prestabiliti: per esempio, per i genitori si sta in lutto almeno 5 anni. Al cimitero, poi, si va ogni domenica – non solo il 2 di novembre – perché in verità è un luogo di ritrovo, dove si incontrano amici e altre famiglie, un luogo di vita insomma.
Cosa conta di più nella Cura?
Socialità, fiducia e vicinanza sembrano permeare l’approccio di Olga e Nelly non solo alla Cura, ma più in generale alla vita. Per sintetizzare tutto con una parola: Relazioni. Ecco cosa conta di più per loro nella Cura.
“La parte bella nel lavoro di cura è il contatto, la comunicazione con la persona”, mi dicono infatti, mostrandosi in questo senso in linea con molti dei professionisti della Cura italiani che abbiamo intervistato in questi anni.
Segnaliamo per esempio l’articolo “Essere OSS: cosa significa?” e, soprattutto il dossier cartaceo del N. 17 di CURA_“Riaccendere la luce dei professionisti”, dove abbiamo indagato che cosa spinge maggiormente le persone a imbracciare la strada di Cura (e le risposte hanno spesso a che fare con persone e relazioni).
Così, mi viene spontaneo domandare se c’è stata per loro una relazione significativa, una persona importante che le abbia ispirate alla strada di Cura.
La risposta è sì.
È la nonna che ha trasmesso loro l’idea di Cura, perché era una Curandera. A casa loro venivano continuamente accolte tantissime persone che arrivavano per farsi aiutare. “Quando siamo stati invasi dagli spagnoli”, mi raccontano, “le Curandere venivano bruciate… perché avevano poteri straordinari”.
Domando così quale fosse il potere più straordinario delle Curandere, ma mi rendo conto che la mia curiosità mette in imbarazzo le operatrici. Olga mi dice infatti che non sa come spiegarmelo in lingua italiana, perché le vengono le parole solo in spagnolo per descrivere questo potere.
Timidamente mi dice: “forse, la Curandera ha l’abilità di capire le piante, la natura in generale, prima ancora che le persone”.
“Come l’avresti detto in spagnolo?”, le domando.
“Donde no hay mata no hay mundo”.
Ovvero, Dove non ci sono le piante non c’è il mondo.
E così si chiude la mia chiacchierata con Olga e Nelly, che mi spiegano di come abbiano trasmesso un po’ del loro sapere anche ai colleghi, attivando diversi progetti con le piante in reparto.
Proprio loro, che da giovani usavano le foglie di coca non come droghe, ma per placare la fame.
“La natura non è a nostra disposizione, per i nostri piaceri”, mi dicono, “lei può curare e guarire, se sappiamo conoscerla”.
E così chiudo il cerchio della loro visione rispettosa del mondo e dei suoi cicli naturali, dove il focus sembra essere sempre e prima di tutto sulla relazione, non solo tra esseri umani ma anche – e forse soprattutto – tra noi e il pianeta che abitiamo.