Dopo anni in cui si è provato a richiamare l’attenzione sulle fragilità del settore sociosanitario, la pandemia ha portato alla luce i punti deboli che devono essere affrontati. Ma cosa dovrà cambiare post Covid-19 nell’organizzazione dell’assistenza agli anziani?
Riflessioni dopo l’incontro di studio del 13 novembre realizzato da Exposanità.
Il Covid non è nato nelle RSA, ma è evidente che le strutture per anziani sono state tra le principali vittime della pandemia. Per questo motivo, appare fondamentale ripensarne l’assetto e non solo in ottica di future epidemie globali. È dall’inizio degli anni 2000 che il settore lamenta staticità e mancanza di innovazione, di adeguamento ai tempi. L’arrivo di un’emergenza sanitaria come quella che stiamo vivendo ha portato a galla i punti deboli sui quali da tempo veniva richiesto un intervento da parte delle istituzioni. Ma proprio da quando le fragilità sono sotto gli occhi di tutti, mass media e di conseguenza l’opinione pubblica si sono abbattuti sulle RSA guardando a loro come se fossero ancora gli ospizi del secolo scorso. O peggio, parcheggi per persone anziane che attendevano in modo passivo la fine della loro vita. Di fronte all’aumento dei decessi provocato dal Coronavirus (secondo l’Istituto superiore di sanità si è concentrato qui il 40% del totale della prima ondata), è partita quasi una rivolta: “Chiudiamole”, “Assistiamo gli anziani a domicilio, nelle loro case”.
Chi ci segue, saprà bene che questi sono temi con i quali come editori ci siamo sempre confrontati. Così, di fronte a questa confusione di informazioni, è ancora più importante provare a fare chiarezza e mettere a confronto diverse figure professionali, per avere un quadro completo del problema e, soprattutto, per proporre soluzioni concrete, che guardino in faccia alla realtà. «Per il genere di utenza che arriva nelle RSA, ovvero grandi anziani non autosufficienti, non si può pensare la domiciliarità come unica soluzione alternativa alla residenzialità – spiega il professor Antonio Sebastiano, docente di Economia e Management e direttore dell’osservatorio sulle RSA presso la LIUC – Università di Cattaneo. – L’idea che tutti gli anziani possano morire a casa circondati dall’affetto dei loro cari è bella e romantica, ma rischia di essere un’utopia se si guardano i dati oggettivi».
E proprio per staccarsi da una visione utopistica e provare invece a trovare risposte concrete a bisogni che esistono, durante la giornata organizzata da Exposanità a tema #ThinkTank Fragilità abbiamo posto una domanda diretta ai nostri intervistati: come deve essere impostato un nuovo assetto dei servizi per la non autosufficienza?
La domiciliarità è una risposta parziale
«Chi pensa che si possano sostituire integralmente le RSA con forme di assistenza domiciliare forse non ha grande conoscenza del nostro territorio. E dico questo, nonostante sposi in pieno l’idea di integrazione tra i diversi servizi presenti sul territorio», mette in chiaro Fabio Cavicchi di UNEBA Emilia Romagna. Ma integrazione non significa sostituzione: «Bisogna plasmare le RSA sempre più sul modello di Centro Servizi – prosegue. – Giusto quindi lavorare sul sostegno alla domiciliarità, avendo sempre come priorità la salvaguardia del benessere della persona e non si può dare per scontato che rimanere a casa sia meglio che essere ospitato in una struttura. Se l’anziano che entra in RSA non è in grado di tornare nella propria abitazione, bisogna creare un’osmosi tra le due realtà ed è questo che significa “integrazione con il territorio”».
Dunque, una rete consolidata e organizzata di cui le strutture devono far parte a pieno titolo. Domicilio, cure intermedie e ricovero nelle residenze, ricorrendo agli ospedali solo per le situazioni di maggiore complessità. Perché anche in quelle regioni dove la medicina del territorio è sempre stata presente, la cultura di fondo resta di stampo ospedale-centrico. A sollevare la questione è soprattutto la dottoressa Clelia D’Anastasio, geriatra e vicepresidente di ARAD (Associazione Ricerca Assistenza Demenze): «Il problema è che il territorio è oberato dalla burocrazia e da un sistema assai poco flessibile e poco clinico. Di conseguenza, l’attività medico-sanitaria, anche quella geriatrica, si riduce spesso a un impegno di tipo certificatorio. A mio parere, invece, il territorio andrebbe potenziato con maggiori competenze clinico-sanitarie».
«Tutti gli stakeholder devono essere messi attorno a un tavolo, compresi i caregiver, perché ciascuno di loro porta un valore aggiunto a questo tema e permette di compiere dei passi in avanti – interviene Isabella Mori, responsabile del servizio di tutela di Cittadinanzattiva. – L’approccio deve sicuramente essere integrato, perché sappiamo ormai che la presa in carico del paziente deve essere a 360 gradi».
Come cambiare: idee possibili sviluppate all’estero
Un cambiamento è necessario e non può più attendere. E non è una questione aperta solo in Italia. A settembre sulla prestigiosa rivista scientifica New England Journal of Medicine si provava a tirare le somme su quanto era accaduto nelle RSA degli Stati Uniti durante l’emergenza Covid. L’articolo dal titolo “La politica della Long-Term Care dopo il Covid-19 – Serve una soluzione per le RSA” (“Long-Term Care Policy after Covid-19 — Solving the Nursing Home Crisis”) riporta una situazione che a noi non suonerà nuova: il 35% di tutte le morti per Coronavirus registrate nel Paese è avvenuto nelle residenze per anziani. Gli autori sono categorici: «Erano come polveriere pronte ad esplodere. La politica ha trascurato per decenni la long-term care e questo è stato il risultato».
Di recente, un’altra importante rivista scientifica, The Lancet, è tornata sull’argomento, focalizzando l’attenzione su un aspetto culturale che si fa sempre più fatica a nascondere: «Una narrativa dicotomica avvolge l’idea dell’invecchiare nel 21esimo secolo. Da un lato, c’è la crescente ricerca di una vecchiaia in salute e la consapevolezza che invecchiare non sia per forza sinonimo di malattia. Dall’altro lato, c’è invece la paura dei costi incombenti a livello economico che comporta il fornire assistenza a un numero di anziani con bisogni complessi che è in aumento. È difficile trovare un punto in comune tra questi due filoni narrativi. Persino l’espressione “long term-care” è in contrasto con un’economia politica neoliberista con una visione breve termine. Di conseguenza, le residenze per anziani non autosufficienti sono spesso in fondo alla lista delle priorità dei governi».
«La nostra società è così impegnata a valutare il singolo individuo solo in base a quanto contribuisce all’economia, che la vita delle persone anziane perde di valore come conseguenza. E nulla ha mostrato questa forma di disprezzo in modo migliore della terribile domanda ricorrente sul perché dovremmo procurare danni all’economia, dal momento che le misure restrittive vengono adottate soprattutto per proteggere membri della società considerati economicamente inattivi». La conclusione è perentoria: «Questo atteggiamento disumanizzante sembra quasi una presa in giro dei buoni propositi della Medicina di prolungare la vita il più possibile, permettendo alle persone di viverla al meglio. Il sistema delle residenze per anziani per come lo consideriamo oggi è finito: deve essere immaginato in modo diverso».
Sì, ma come? «Forse una delle priorità è quella di incidere sulla comunicazione pubblica. – Propone il Direttore editoriale Renato Dapero – Fino a quando non esisterà a livello politico una considerazione adeguata del nostro mondo, le nostre figure professionali non saranno viste al pari di quelle ospedaliere. Ma noi non siamo professionisti di serie B, e i residenti nelle RSA non sono cittadini di serie B. Ci impegniamo per il benessere di persone che hanno il bisogno e soprattutto diritto di essere assistite».
Dal confronto organizzato sono emersi alcuni punti chiari: sistemi regionali più uniformi, potenziamento delle figure professionali e maggiore riconoscimento economico, più fondi da destinare alle RSA e una migliore integrazione tra pubblico e privato.
Sistemi regionali uniformi
Non solo nell’ambito dell’assistenza agli anziani, il Covid ha fatto emergere quanto sistemi sanitari regionali diversi portino prima di tutto a diseguaglianze nell’accesso a cure e assistenza. È poi molto più difficile gestire una situazione che si verifica a livello nazionale, che si tratti di una pandemia o, in forma più ordinaria, di presa in carico della demenza e della non autosufficienza. Lo fa notare subito Cavicchi: «Non riusciamo nemmeno a capirci tra colleghi di zone diverse, sembra quasi di non parlare la stessa lingua. In Emilia-Romagna le RSA si chiamano CRA e gli standard che si trovano qui saranno diversi da quelli di Veneto, Toscana o Lombardia. Non abbiamo, ad esempio, l’assistenza infermieristica h24 in tutte le strutture, mentre ci sono regioni che lo considerano un requisito obbligatorio per tutte le RSA».
«Concordo sull’estrema frammentazione tra le varie regioni rispetto all’organizzazione sociosanitaria – conferma la dottoressa D’Anastasio, segnalando come sia un ostacolo contro il quale anche i medici devono combattere ogni giorno. – E anche per quanto riguarda il linguaggio: spesso si usano termini differenti per menzionare concetti uguali. Questa pandemia ha messo in evidenza in modo drammatico una serie di criticità che sono indipendenti dal Covid ed erano presenti nel nostro sistema già da molto tempo. Nessuno, però, hai mai pensato di affrontarle».
Criticità, sempre le stesse, che vengono ripetute ormai da mesi. In un sistema già fortemente sottopressione, un’emergenza sanitaria non ha fatto altro che accelerare il suo collasso. E se da un lato bisogna sciogliere un gomitolo organizzativo, dall’altro serve il personale adeguato. Medici e infermieri che mancano ovunque nella Sanità, ma che sembrano creare un vuoto maggiore soprattutto nelle RSA, dove gli ospiti sono tra i pazienti più fragili di tutti. La domanda da porsi però è: quali figure si cercano di preciso?
Figure professionali da potenziare
«La carenza infermieristica viene annunciata da decenni». Nicola Draoli di FNOPI (Federazione nazionale degli ordini delle professioni infermieristiche) arriva subito al punto: il personale di cui si avrebbe bisogno per garantire standard di assistenza elevati, in realtà purtroppo non c’è. E prosegue sollevando una questione cruciale: «Da 10 anni spieghiamo che mancano 30mila infermieri sul territorio e che l’Italia è il Paese fanalino di coda se si guarda al numero di queste figure professionali in proporzione a quello degli abitanti e dei medici. Ho sentito dire che ci vengono rubate, ma non stiamo parlando di pedine senza iniziative personali. Se migrano dalle strutture per anziani è perché ci sono dei problemi o semplicemente sono attratti da condizioni contrattuali più favorevoli».
E infatti la direzione è quella del sistema sanitario pubblico, dove l’offerta è migliore, soprattutto in termini economici. «O cominciamo a pensarci come “sistema Italia” o continueremo a “rubarci risorse” l’un con l’altro – ammonisce Cavicchi. – Quando si sente dire che sono state potenziate le risorse infermieristiche negli ospedali, bisogna chiedersi da dove venga questo personale. Se ci tolgono figure sanitarie, non possiamo fornire risposta sanitaria e quindi non ci resta che far ricoverare gli anziani».
Una questione di cui ha parlato anche Roberto Volpe, Presidente dell’associazione RSA Veneto, al programma di La7 PiazzaPulita: «Molti infermieri si stanno spostando dalle RSA agli ospedali. Oggi abbiamo più Dpi ma manca il personale: abbiamo più fucili e munizioni, ma meno soldati. Così non si vince la guerra».
Serve personale dunque, e personale qualificato. Siamo ancora condizionati da un’immagine stereotipata dell’infermiere che lavora nell’ospedale in modo qualificato e dall’altra parte un mero dispensatore di terapie. Mentre dovrebbe risultare più chiara la differenza di mansioni e di competenze, che variano in base alle strutture nelle quali si presta servizio. Serve dunque una maggiore specializzazione in senso geriatrico e una diversa cultura alla base, a partire proprio dalle Università che formano i professionisti di domani.
E ai corsi di laurea guardano anche i fisioterapisti: «Bisogna rendere più attrattiva la prospettiva di lavorare nei servizi sociosanitari – sostiene Francesco Ciaghi di GIS, fisioterapia geriatrica- AIFI (Associazione italiana fisioterapisti), – mentre anche nel nostro campo si tende ad ambire all’ospedale. Ma questo atteggiamento è legato a un vecchio modo di pensare il lavoro con l’anziano, come se si limitasse a fargli muovere un po’ braccia e gambe. Le attività invece sono diverse e variegate. Le soddisfazioni, uniche. Una persona fragile ha la possibilità di recuperare anche buona parte dell’autonomia perduta».
«Le RSA non sono luoghi di cura, ma di vita – interviene Michela Bentivegna di AITO (Associazione Italiana Terapisti Occupazionali), quasi rispondendo a chi vorrebbe relegare gli ospiti delle strutture nella categoria degli individui non più utili al sistema produttivo ed economico di un Paese. – Noi lavoriamo proprio sulla persona, che deve essere attore del suo percorso riabilitativo e di cura. L’ “occupazione” dà un senso alla vita dell’anziano, il quale torna a partecipare alla sua esistenza. È quindi fondamentale l’ambiente, che se è pensato in modo facilitante, può permettere all’anziano di valorizzare tutte le sue risorse. Ci considerano spesso professionisti di serie B, perché quando si parla di “riabilitazione”, ci si immagina e si vorrebbe la piena ripresa. Il lavoro di recupero delle autonomie nella non autosufficienza, però, trae soddisfazione anche solo da un piccolo guadagno. Ricordiamoci che nelle RSA c’è una presenza molto elevata di persone con demenza, che perdono la capacità di muoversi anche nelle attività di base. La nostra è una figura fondamentale, che può generare risparmi notevoli nel carico di lavoro del personale assistenziale».
La mancanza di fondi
Alla base di tutti, o quasi, i problemi di cui abbiamo parlato, ce n’è uno: la mancanza di fondi. Secondo un rapporto di Fondazione GIMBE, tra il 2010 e il 2015 i tagli alla Sanità hanno raggiunto i 37 miliardi di euro, mentre tra il 2015 e il 2019 sono stati decurtati altri 12 miliardi. Quando nel marzo del 2017 bisognava salvaguardare la stabilità economica, a farne le spese sono stati anche il Fondo per la non autosufficienza, che ha perso 50 milioni, e quello per le Politiche sociali, con una riduzione del finanziamento di ben 211 milioni. Grazie a un’intesa tra Regioni e governo, a settembre dello stesso anno i soldi sono tornati, ma il problema era ormai chiaro: finanziare il settore sociosanitario non era, e non è, una priorità dell’agenda politica.
Nel frattempo, però, le strutture hanno dovuto sostenere costi di gestione ingenti, finendo per indebitarsi. E dall’arrivo del Covid, con i Dpi da acquistare e una nuova organizzazione da mettere in campo, le casse delle RSA sono sempre più vuote. «Governo e regioni devono necessariamente andare incontro alle strutture – fa notare Sergio Sgubin, presidente di Ansdipp (Associazione dei manager del sociale e del sociosanitario), – dal momento che hanno registrato perdite enormi. Alcune di loro hanno storie centenarie e rischiano davvero di chiudere, non possiamo permettere che questo accada. Bisogna trovare sistemi di finanziamento a lungo termine».
È qui che entra in gioco il privato, quando il pubblico non è più in grado di rispondere alle necessità crescenti. «Non si può accettare ancora il pregiudizio secondo il quale il pubblico è “bello, bravo onesto”, mentre il privato è “cattivo e pensa solo a fare i soldi”. Non si può demonizzare il privato, ma serve creare una sinergia tra i due settori, con il pubblico che agisca come grande regia di controllo e di indirizzo del comparto sociosanitario», aggiunge Sgubin.
Un esempio? La Casa di riposo Cerino Zegna di Biella: «La nostra Fondazione ha sempre avuto un obiettivo principale: l’innovazione nella cura dell’Alzheimer – racconta Paola Garbella, la direttrice. – Abbiamo infatti realizzato una serie di interventi attraverso terapie non farmacologiche. Siamo stati tra i primi a introdurre una stanza bianca sensoriale, la terapia del viaggio, la doll therapy e così via. Ma la collaborazione con le aziende è stata per noi fondamentale. I soldi erano e continuano a essere pochi e molti dei progetti che abbiamo concretizzato sono stati resi possibili proprio da questo aiuto».
Sul tavolo davanti a noi ora vediamo bene tutte le questioni. I problemi che hanno portato all’elevata concentrazione di decessi nelle RSA hanno radici ben più lontane dell’arrivo della pandemia. E da questo confronto verrà redatto un position paper, un documento per richiamare l’attenzione della Commissione per la Riforma delle Strutture Sociosanitarie per Anziani, che il ministro della Salute, Roberto Speranza, ha da poco istituito. Nella speranza che queste voci vegano finalmente ascoltate dalle istituzioni.
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