Sulla migliore organizzazione del lavoro in RSA si sono spese molte parole negli anni. Nell’intervista che segue, Roberto Franchini ci suggerisce le azioni concrete da intraprendere per far sì che i nostri servizi siano orientati davvero al bene delle persone anziane.
Abbiamo letto con interesse il tuo capitolo contenuto nel libro Sarà un paese per vecchi. Idee per valorizzare l’età anziana, innovare le politiche di cura, costruire il futuro dei servizi. All’interno, scrivi espressamente che gli attuali servizi per anziani sono orientati da una logica di qualità basata sui processi e non sui risultati. Cosa vuol dire in poche parole?
«Pensiamo alle logiche legate all’accreditamento delle nostre residenze: i nostri servizi tendono a essere complianti a queste ultime e non ai risultati. Per essere più chiari: se una residenza per anziani disponesse di tutti i protocolli, per esempio di quello sulla gestione delle piaghe da decubito, e tuttavia ospitasse anziani depressi, secondo le attuali misure di certificazione, questa verrebbe accreditata. Viceversa, se un’organizzazione avesse anziani sereni e felici, ma non avesse una procedura sulla gestione delle piaghe da decubito, non verrebbe accreditata.
Per scherzarci sopra, un marziano che venisse qui e osservasse il nostro funzionamento non ne capirebbe la logica. Per fare un paragone su un altro fronte, è come se scegliessimo il ristorante in base alla metratura e alla superficie finestrata del locale e non per la qualità del cibo. Quando vogliamo andare a cena fuori cerchiamo un posto dove spendendo il giusto mangiamo bene, e quindi magari andiamo a guardare il rating, il luogo dove c’è la percezione degli outcome qualitativi, cioè dove si vedono i risultati.
Una famiglia che deve scegliere dove ricoverare un proprio caro non ha dati di esito perché tutta l’attenzione è concentrata sui processi. È una sorta di taylorismo organizzativo. Le nostre organizzazioni tendono ad avvitarsi lì. Il rischio è che se si fermano al processo, magari ricevendo anche un riconoscimento da parte delle ATS, potrebbero non accorgersi del fatto che gli anziani non sperimentano livelli significativi di qualità della vita.
Se la qualità della vita non fosse misurabile, come succedeva in passato, allora sarebbe un meccanismo giustificabile, ma oggi non è più così. Esistono infatti sistemi e modelli di accreditamento che consentono di verificare gli esiti».
Quindi se volessimo concentrarci sui risultati e cambiare il paradigma delle nostre organizzazioni cosa dovremmo fare?
«Dovremmo prendere il sacco dalla cima, ovvero dare centralità al costrutto della qualità della vita. In questo c’è dentro tutto: la salute, la spiritualità, le relazioni, l’autonomia, l’autodeterminazione, il gradimento del cibo e tutti quegli elementi che contribuiscono alla qualità dell’abitare in un contesto residenziale. Se oggi un’organizzazione prendesse questo costrutto e lo usasse cambierebbe tutto.
Purtroppo le nostre organizzazioni soffrono un po’ della sindrome di Stoccolma, sono innamorate dei loro aguzzini. È vero che il problema viene principalmente dalle normative, ricordo infatti che quando era uscito il decreto Bindi ero molto felice e oggi non lo sono più. Il sistema di accreditamento attualmente vigente, per come è stato stipulato dal Patto Stato Regioni (Legge 883) e dal relativo manuale Agenas sulle procedure di accreditamento, credo sia uno dei principali problemi di questo settore.
Ma evidentemente la tortura ci piace, perché continuiamo così .Forse perché questo modello ci rende tutto chiaro, forse perché siamo convinti che lavorare bene significhi seguire le procedure, rispettare i protocolli invece di pensare a come realizzare la qualità della vita.
In ogni caso, non tutte le strutture si comportano così, qualcuna si sta attrezzando per emanciparsi dai processi. Il nostro contesto italiano è certamente arretrato rispetto a quello degli altri Paesi ed è indietro anche rispetto al contesto della disabilità relativamente alla qualità della vita.
Ci sono però strumenti del nostro territorio, come il Quality_VIA, che hanno il pregio di mettere al centro la qualità della vita come costrutto, ma presentano un limite strutturale, ovvero rilevano la qualità percepita della vita, senza essere strumenti di progettazione.
Ovvero non cercano a monte di rilevare le preferenze dell’anziano per riprodurre un contesto di qualità di vita, ma misurano a valle la sua percezione di qualità di vita».
Un altro problema che rilevi è quello dello “iato fra valori e metodi”, ovvero della distanza che c’è fra il dichiarare di “mettere la persona anziana al centro” e l’organizzare di conseguenza i servizi. Qual è la prima cosa che dovremmo fare per garantire la personalizzazione del servizio da un lato, e l’esigenza di procedure ripetibili dall’altro?
«Quello dei valori e metodo è il grande rebus. Se dico “centralità della persona” ma il metodo che uso è il PAI e il piano di lavoro, è evidente che qualcosa non funziona e che c’è una distanza siderale fra il piano delle enunciazioni (valori) e quello degli strumenti di metodo […].
Allora il tema è costruire veramente il Progetto di Vita […]»
La risposta completa nel video che segue
Cosa vuol dire a tuo modo di vedere che le organizzazioni sociosanitarie devono trasformarsi in “istituzioni di comunità”?
«Questo è un tema straordinario. Anche qui sul piano valoriale dichiarare che le RSA debbano trasformarsi in istituzioni di comunità è facile, tradurlo in azione concreta non lo è affatto, anche a causa dei retaggi culturali del passato.
Al netto delle ideologie, il rischio che oggi corrono le nostre organizzazioni è di essere chiuse in un rapporto non vivo e non biunivoco col territorio. “Istituzione di comunità” vuol dire “luogo che diventa punto di riferimento per i cittadini”, per gli anziani in particolare.
L’esperienza delle Case Della Salute fatta dalle ASL deve metterci in guardia dal rischio di diventare una somma di ambulatori, cosa ancora distante dall’essere una comunità. Per costruirla dobbiamo immaginare che ci siano servizi di sostegno alla famiglia, che esista una membrana permeabile.
L’indicatore può essere l’elevato numero di ingressi delle persone: più persone entrano e più vuol dire che c’è vita, movimento. La residenza come comunità deve produrre eventi, servizi, al pari di un centro di aggregazione giovanile o culturale. Questo è molto importante anche per superare tutti i pregiudizi legati alle nostre organizzazioni. Tutte le residenze dovrebbero diventare istituzioni di comunità e questo vuol dire, ancora una volta, lavorare sul piano del metodo, chiedendoci quali indicatori siano quelli giusti».
Recente è la notizia del “Patto per un nuovo welfare sulla non autosufficienza” siglato da molte associazioni e proposto ai ministri Orlando e Speranza. Ti sembra un buon passo per risolvere quel “cortocircuito di rappresentanza” a cui accenni nel libro?
«È un primo passo ma non è un passo completo ed efficace. Il limite è che la rappresentanza dei servizi per anziani la fanno i soggetti gestori e le parti datoriali. In parte questo è normale, ma se le organizzazioni rendono un servizio efficace per le famiglie, allora non vedo la ragione per cui anche quest’ultime non compiano azioni di rappresentanza a sostegno del cambiamento delle organizzazioni.
In questo momento sul fronte anziani si è accesa una grande attenzione politica, un po’ ideologica ma pur sempre un’attenzione. Se la rappresentanza però, anche in questo caso, non è basata sugli esiti ma su una difesa pregiudiziale degli assetti, allora non funziona, perché viene incanalata nell’alveo di chi difende se stesso.
Se, come dicevamo, l’organizzazione produce qualità della vita e se questa è non solo misurabile ma misurata, allora rappresentare vorrebbe dire mostrare questi risultati e non difendere gli assetti. Per di più, questa rappresentanza così impostata, non può essere fatta da soli ma da tutti gli stakeholder interessati, come le famiglie per esempio.
Credo che se il mondo delle parti datoriali e il mondo associativo familiare – che è fragile e frammentato – trovassero i linguaggi per dialogare, allora forse avremmo una rappresentanza più forte. E credo anche che le organizzazioni debbano dialogare più con le famiglie e con i loro meccanismi associativi che con gli assessorati e le aziende sanitarie».
Potrebbe essere il caso di suggerire la formazione di associazioni ibride?
«Sarebbe un’ottima idea: organismi super partes che abbiano board altrettanto super partes e che usino un linguaggio e un metodo diretto veramente al bene della persona».
Roberto Franchini è docente di Metodologie Educative per la prevenzione della marginalità sociale e progettazione delle attività educative speciali presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore; responsabile del settore Strategia, Sviluppo e Formazione dell’Opera don Orione
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