Analizzare i luoghi di cura e renderli protagonisti nella produzione di valore sociale, economico e culturale: una chiacchierata con Paolo Venturi, direttore di Aiccon.

I luoghi di cura: mondi isolati e poco riconosciuti


Quando abbiamo chiesto a Paolo Venturi, direttore di Aiccon, di essere intervistato per la rivista CURA online siamo partiti da una premessa. Il mondo dei servizi alla persona, in particolare anziana, pur godendo di valore, alta competenza e grande umanità, è marginalizzato. Lo è sia a livello culturale – basti pensare alla scarsa considerazione che abbiamo dell’anziano e alle varie forme di ageismo che connotano il nostro sapere e il nostro agire – ma lo è anche a livello economico, sociale e istituzionale.
 
I luoghi di cura, a partire dalla loro ubicazione nelle nostre città che li vede in zone periferiche o circoscritte, fino alla loro rappresentatività a livello istituzionale e politico, soffrono. E con loro anche tutti i professionisti che li animano e le famiglie che sono coinvolte.
 
Abbiamo chiesto a Paolo Venturi di aiutarci ad approfondire questa analisi sui servizi, a trovare i giusti i criteri per valutarli. L’obiettivo? Eliminare la confusione – che anche gli addetti ai lavori hanno – e provare a tracciare vie percorribili per recuperare il valore dei luoghi di cura verso una ri-fioritura che avvenga su ogni livello.
 

Dalle “Imprese ibride” al “Dove”: un percorso di analisi che ci aiuta a capire meglio il valore dei luoghi di cura


 
Paolo Venturi è stato autore, insieme a Flaviano Zandonai, di un libro che si intitola “Imprese ibride”. In questo testo gli autori si accorgevano di un cambiamento radicale che coinvolgeva l’identità delle nostre istituzioni. In particolare analizzavano come le organizzazioni che producevano valore sociale non rispondevano più – in modo puro – alla logica del privato, del pubblico, del terzo settore, ma, erano invece “ibride,” nella misura in cui mescolavano le logiche dei settori fra loro.
 
Da questa prima base analitica, che iniziava dall’analisi dell’identità degli enti, gli autori sono arrivati poi ad analizzare i contesti, i luoghi di produzione del valore sociale.
 
Ecco infatti che nel libro “DoveVenturi e Zandonai ci introducono nella dimensione del “luogo” presentandolo come un elemento che si distingue dal mero “spazio fisico”, perché è invece connotato dal fatto di ospitare una serie di significati.
 


«I luoghi, diversamente dagli spazi, si caratterizzano perché sono abitati da significati. Ecco che allora si capisce l’importanza che hanno per la cura» ci ha detto Venturi.


 
 
La cura – continua Venturi – non è soltanto qualcosa di prestazionale, quindi non può accontentarsi di uno “spazio”, ma ha bisogno di un “luogo”. Se l’obiettivo qui è valorizzare o migliorare i luoghi di cura, allora, secondo Venturi, dobbiamo «ridisegnare i luoghi di cura e i significati che li abitano».
 
È importante, ci fa notare l’autore, che “ridisegnare i luoghi” vuol dire espressamente costruire uno spazio attorno non soltanto ai bisogni, ma anche alle aspirazioni, alle capacità, alle azioni, ai desideri delle persone.
 
Normalmente si compie l’operazione inversa: si costruisce uno spazio fisico e poi gli vengono assegnate le funzioni che rispondono ai bisogni. Invece, il tema di “ridisegnare i luoghi della cura” implica un cambiamento e una trasformazione dello spazio in relazione ai desideri, alle ambizioni delle persone.
 
 
Per fare un esempio concreto, è diverso chiedere a una persona di cosa ha bisogno e costruire uno spazio attorno a quel bisogno, dal chiederle cosa per lei voglia dire condurre una “vita buona”. Lo spazio così diventa il luogo fatto di relazioni, di stimoli, di scambi, di cultura, di collaborazione.
 
 
La dimensione di luogo, il “dove” diventa centrale se vogliamo ridare valore ai luoghi di cura e se vogliamo operare una loro trasformazione verso il meglio. Agire sui contesti significa quindi produrre soluzioni, situazioni, circostanze che portano alla creazione di nuovi significati. Questo tema dei luoghi è centrale anche per un Welfare che vuole essere sempre più inclusivo.
 
 
Quando parliamo di inclusività, dice Venturi, non possiamo considerare solo il design della prestazione, ma anche e soprattutto il contesto, il “dove” questa prestazione si tiene. Questo vale anche per le strutture per anziani, il cui valore va al di là del loro prestare assistenza.

Quello che mettono in campo le strutture per anziani va infatti molto oltre, basti pensare alla capacità di conversare con una comunità di attori ampia. Proprio per questo i luoghi di cura dovrebbero iniziare a concepirsi sempre di più come luoghi ibridi, cioè come dimensioni che incorporano funzioni diverse da quelle tradizionali e che sono capaci di costruire occasioni di significato, di esperienza.
 
Nei servizi di cura ci sono competenze estese ed è a partire da queste che si potrebbero ridisegnare i loro confini di significato per far sì che si aprano alla comunità circostante, adottando logiche di “conversazionismo”.
 
Le nuove RSA, dice Venturi, nascono con dei processi di “challenge”, di sfida: si inseriscono in una comunità alla quale chiedono come questa possa diventare sua partner. Alla comunità viene chiesto anche il tipo di servizi che desidera e come può contribuire a disegnarli. Quindi si utilizzano meccanismi di “open innovation”, di “innovazione aperta”, per costruire intorno a questi spazi nuove occasioni di conversazioni con la comunità, anche informali.
 


«C’è una dimensione di “luogo” che sta nella cura – che in qualche modo sta proprio nella narrazione con l’utente beneficiario – e c’ è una dimensione di “luogo” che invece sta nella comunità» dice Venturi.


 
Sono due dimensioni che vanno profondamente ridisegnate e che richiedono competenze, approcci, logiche e ruoli nuovi. “Design dei servizi” vuol dire questo: individuare gli attori che disegnano lo spazio per personalizzare le prestazioni.
È un tema di rottura che ha bisogno di avere leve di imprenditorialità e di autonomia rilevanti, perché, continua Venturi, pensare di restare ancorati unicamente a una logica di committenza con la pubblica amministrazione è oramai insufficiente.
 
Se le RSA continuassero a pensarsi come “spazi” e non come “luoghi” fallirebbero nella loro missione, che è quella di garantire alta la qualità del servizio, ma soprattutto fallirebbero nell’inclusione, perché il vero fine della cura non è solo assistere, ma includere chi è coinvolto nei servizi.
 
I servizi, per essere ben fatti, non devono rendere le persone dipendenti, ma devono aumentare la capacità d’azione, l’autonomia. E questa cosa accade solo nei “luoghi” propriamente costruiti.
 


 Gli enti del terzo settore: fra identità e riprogettazione
 

Riguardo alla situazione attuale degli enti del terzo settore, si può dire – continua Venturi – che quello che è successo in epoca pandemica ci ha fatto capire definitivamente alcune cose, per esempio che se vogliamo andare avanti non possiamo farlo da soli.  
 
«C’è un bellissimo paper scritto dai medici dell’ospedale di Bergamo che in cui si parla del tema della cura rilanciando l’esigenza di passare da una logica “Patience Centred Care” a una logica “Community Centred Care”».

Il tema della cura deve essere qualcosa che si condivide con una pluralità di soggetti. Occorre però che in questa pluralità ci sia un coordinamento, una logica sussidiaria, non di mera divisione dei poteri. Ad esempio, è necessario sviluppare la diversità dei servizi su base territoriale. Ma qui è importante chiarire un punto:
 
«Una cosa è la territorializzazione dei servizi, un’altra il decentramento di questi. Faccio un esempio: oggi il PNRR ci dice che dobbiamo costruire le case della salute e gli ospedali di comunità. Rispetto alle infrastrutture sociali di cui abbiamo parlato, cosa sono queste nuove costruzioni? Luoghi in cui trovare servizi pubblici disegnati in collaborazione con la comunità, dove vigono esperienze di volontariato e di cooperazione sociale, oppure sono un mero decentramento, un poliambulatorio che si distacca?» dice Venturi.
 
 
Per fare in modo di avere servizi in dialogo col territorio è necessario, ci suggerisce il direttore di Aiccon, far sì che una pluralità di soggetti cooperino nella gestione condivisa dei servizi, senza soluzioni di continuità. Non ci si può aspettare che questo coordinamento avvenga dall’alto o che sia in mano alle funzioni pubbliche, perché altrimenti affideremmo alla funzione statale il monopolio della cura.
 
 
 
Realizzare tutto questo implica innanzitutto la ri-progettazione dei luoghi di cura al di là della logica della gara. I servizi vanno disegnati modo integrato, vanno co-progettati. Per farlo si deve fare un’operazione di “change management”, perché oggi i modelli organizzativi sono stantii.  Per essere innovatori, peraltro, non basta il digitale o la domotica.

Oltre la co-progettazione diventa fondamentale la parola “governance”.  «Non governo, ma governance». Questo termine indica la costruzione dei modelli Welfare basata su una pluralità di istituzioni diverse che si mettono insieme, che costruiscono dei coordinamenti per la cura, per governare a livello territoriale. «Io la vedo possibile solo così».
 

 
C’è poi un altro tema: quello dell’identità degli enti del terzo settore e della loro difficoltà, a prescindere dalla ragione sociale, nel seguire le logiche del marketing e nel pensarsi come “produttori di servizi”.
 
Venturi riconosce un velo ideologico nella costruzione dell’identità di molti enti e aggiunge: «molti di questi mondi hanno la loro sussistenza all’interno della propria base associativa. E quindi replicano le istanze del mondo che le sostiene. Questo chiaramente non contribuisce all’apertura, all’innovazione, all’imprenditorialità».
 
Lo stesso, continua, lo si può riscontrare anche in molti luoghi pubblici «dove ormai il commitment è solo sulle execution», cioè dove i servizi vengono costruiti solo attenendosi ai codici di accreditamento, quindi senza nessun tipo di relazione o di design o di imprenditorialità.
 
Il vero tema, chiarisce poi Venturi, non è “for-profit” o “no-profit“, perché il valore di un’impresa non sta nel fare profitti, ma nel generare valore aggiunto. Ogni ente deve confrontarsi da un lato con la necessità oggettiva di efficienza, dall’altro con la propria finalità. «Un’istituzione che si occupa di cura a vario livello, che sia profit o not for profit, ha comunque la finalità di massimizzare la sua missione, la cura delle persone. Poi c’è chi compie questa operazione fa con meccanismi redistributivi (lo stato) e c’è lo fa imprenditorialmente».
 
Ovviamente questi enti non dovrebbero adottare logiche differenti se l’obiettivo è il medesimo: la cura. Quindi, ci fa notare Venturi, la parola giusta non è tanto “for-profit” ma “imprenditoriale”, «perché si può avere una cultura imprenditoriale pur non essendo for-profit».
 
Basandosi sulla finalità, diventa evidente come comunicazione, managerialità, qualità del servizio, accountability debbano risultare competenze che dovrebbero appartenere a chiunque eroghi dei servizi.
 

Dalle “Imprese ibride”, al “Dove”, al “Neomutualismo”


 
Oltre alle “Imprese ibride” in cui Venturi e Zandonai parlavano del cambiamento delle istituzioni e al “Dove”, nel quale raccontavano del potere dei luoghi di generare valore, i due autori sono andati avanti chiedendosi: in questa fase di cambiamento, quale paradigma economico e sociale è importante seguire?


Giungono così a recuperare una categoria, quella del “Neomutualismo” per applicarla alla nostra attuale situazione.

«La pandemia, presentandoci un male comune, ci ha fatto prendere coscienza concretamente su cosa sia il bene comune», dice Venturi.



 In questo periodo storico si sono create community, nuove reti, nuovi modelli di imprenditorialità, nuovi servizi: tutto in una logica di interdipendenza, ci dice l’autore. E questo fermento – nato dal basso – si sta “infrastrutturando” in nuove forme di risposta che si traducono in nuove forme di cura, di impresa, di economia, di transizione.
 
«Queste nuove forme noi le abbiamo chiamate “Neomutualismo“, perché di fatto è qualcosa che non sta né in capo alle decisioni della pubblica amministrazione, né in capo agli istinti innovativi o sociali del capitalismo. Ma è qualcosa che nasce dal basso della società. E quindi, il libro, prova a fare una lettura anche molto concreta ed empirica di queste spinte.
Ricompone il quadro della rinascita attuale attraverso il recupero di un pilastro storico che nel 1844 ha dato origine alla cooperativa».
 
I due autori parlano proprio di questo fenomeno come di una spinta dal basso che mette insieme più soggetti a creare soluzioni che hanno la forza di creare economia, lavoro, rigenerazione, ma anche e soprattutto nuovi modelli di Welfare.


«La crisi ha reso evidente a tutti: nessuno si salva da solo. Chi fa business lo sa bene, ma anche chi fa cura dovrebbe imparare a capire che è vero». Questo meccanismo che gli autori hanno descritto ha creato e dato struttura a una serie di opportunità, reti, attività e alleanze, forme di impresa, filiere spesso anche abilitate dal digitale. In questa chiave di lettura è la comunità a essere protagonista.
 
 
Inoltre, aggiunge Venturi, la chiave di lettura del Neomutualismo è una via decisiva anche per la democrazia economica. «Il pendolo va sempre dallo Stato al mercato, come se in mezzo non ci fosse niente. E invece chiunque abbia dei figli e li porti a danza, a calcio, a scuola, scopre che fra lo Stato e il mercato c’è un mondo».
 
 
 
Riguardo al tema delle resistenze sull’applicazione piena di questo modello o alla rinascita dei servizi e delle imprese, Venturi ci dice che «il primo ostacolo è la sindrome da “basse aspettative”, il “misoneismo”, cioè quella logica secondo cui non si rischia perché “abbiamo sempre fatto così”. Questa è la cosa peggiore in assoluto, secondo lui, che invade tutto. Più la sfida dell’innovazione è urgente, radicale, e più questo tema è decisivo.
 


«Io dico sempre che ci sono tre categorie di persone, che codifico in: quelli che conservano, cioè quelli che dicono che bisogna cambiare tutto ma in fondo anelano che non cambi veramente niente; poi ci sono quelli che dicono che deve cambiare tutto ma in fin dei conti sono anche quelli che si adattano, i “resilienti”, il cui approccio adattivo non li fa andare oltre. E poi ci sono invece quelli che si prendono i rischi, che trasformano, che provano a cambiare lo scenario. Quelli che dicono: “prendiamoci il rischio di fare nuovi investimenti”. In questa prospettiva ciò che serve di più è proprio questa capacità di prendersi dei rischi. In questa fase l’avversione al cambiamento è la peggiore delle attitudini che in questo momento rischia di bloccare le istituzioni proprio nel momento in cui si trovano di fronte a transizioni oggettive, sociali, digitali, economiche, ambientali».


 
 Recuperare un rapporto con la comunità


Venturi conclude sottolineando la centralità del tema del Neomutualismo, perché individua nel ridisegnare il rapporto con la comunità la via del cambiamento. Per farlo, però, bisogna leggere la comunità in un modo diverso, non più solo come “utenza”, come “destinataria” dei servizi che qualcuno crea, ma come protagonista di azioni che trasformano, generano.
«Quindi il vero tema è trasformare, rendere la comunità non uno stakeholder, ma un “asset holder“, un portatore di risorse».
 
Le comunità sono luoghi disponibili e densi di attività, ci dice Venturi, a patto che siamo capaci di ridisegnare il rapporto fra queste in maniera più convincente.
 
L’ultimo aspetto ha a che fare con l’impatto sociale. «Il Welfare state si accontentava di rendicontare, mentre le logiche del neomutualismo necessitano di avere degli obiettivi di cambiamento sociale, cioè di impatto, e quindi passare dalla rendicontazione, necessaria ma non più sufficiente, alla valutazione dell’impatto sociale».
 
Per realizzare tutto questo serve applicazione, ma serve anche coraggio.  «“Coraggio” etimologicamente significa metterci il cuore, per cui chi ha coraggio è chi ci crede veramente. Il tema delle motivazioni intrinseche secondo me qui è centrale».
 


Paolo Venturi, direttore di Aiccon Bologna

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