Alice Principe racconta come la figura del logopedista in RSA sia essenziale per la quotidianità con l’anziano e come sia un punto di riferimento importante per l’équipe di cura. Se solo ci fosse l’adeguato riconoscimento contrattuale per questa figura…
In questo articolo parla Alice Principe, logopedista di Padova che ha voluto dirci la sua circa la professione che svolge a contatto con gli anziani in struttura.
Continua così su rivista CURA online l’indagine sulle professioni sociosanitarie iniziata con il numero 10 della rivista CURA cartacea uscita lo scorso giugno. Un numero dedicato a cogliere gli stigmi sulle professioni e a valorizzarne l’operato in collaborazione con l’équipe.
Io mi sono laureata nel 2009 a Padova e ho iniziato quasi subito ad occuparmi di anziani. Il percorso che ho scelto non era all’epoca molto battuto fra i miei colleghi universitari, mentre oggi c’è una proposta più mirata dal punto di vista della formazione, che invoglia di più a intraprendere questo percorso dopo l’Università.
C’è da dire però che nell’immaginario comune la parola “logopedista” viene ancora associata all’età evolutiva come prima cosa. Negli ultimi anni si sta diffondendo un po’ di più la cultura del logopedista che lavora con l’adulto. Vedo anche molti più giovani che si appassionano a questo ambito e la cosa mi fa molto piacere.
Già dai miei studi ero comunque affascinata dal mondo degli anziani. Forse per me è più una missione che una professione. Io lavoro part time su due strutture, una particolarmente grande, 395 posti letto, l’altra di 120. Mi occupo anche del nucleo chiuso, quindi dove ci sono persone un po’ più gravi dal punto di vista dei disturbi comportamentali.
Il lavoro del logopedista: non solo linguaggio
Il logopedista lavora in tutte le fasi del disturbo neuro-cognitivo – questo è il modo corretto di definirlo, come da indicazioni del DSM – fin da quelle iniziali. La prima cosa che faccio è proprio la valutazione dei disturbi cognitivi e comunicativi delle persone. Mi occupo del linguaggio, della riabilitazione, che può essere una terapia individuale o anche di gruppo.
Il lavoro in casa di riposo si svolge in sinergia con l’équipe. Nelle riunioni io presento la mia valutazione nella quale specifico il livello di comunicazione e l’uso del linguaggio e poi anche la parte relativa all’alimentazione da consigliare in casi, ad esempio, di disfagia.
L’intervento del logopedista nelle RSA per disturbi di deglutizione è una cosa importante, noi facciamo valutazioni e poi proponiamo un percorso di riabilitazione. Quindi non ci occupiamo solo di linguaggio.
Propongo, in questi casi, anche adattamenti alla dieta in sinergia con gli altri colleghi d’équipe. La mia costante collaborazione con gli altri professionisti mi fa sentire integrata, mai fuori dal gruppo. Poi secondo me il lavoro di équipe è più semplice in una struttura per anziani, perché qui abbiamo una visuale a 360° della persona.
La persona vive in struttura e noi professionisti siamo costantemente in contatto gli uni con gli altri: facciamo dei progetti insieme, anche diversi briefing e ci occupiamo della persona a livello individuale.
Poi io credo che non si possa lavorare a compartimenti stagni, specialmente noi che abbiamo a che fare con il linguaggio, che un’abilità che investe la sfera cognitiva per intero e diverse abilità della persona. Non si può avere un’idea della cura come una linea nella quale puoi spezzare le parti e assegnarle al singolo specialista. Chiaramente ognuno di noi si concentra sulla sua parte, però sulla base di una visione di cura globale e sulla base di strette collaborazioni a tutto tondo.
Le strutture per anziani sono luoghi di vita
Le strutture per anziani sono un mondo complesso da gestire e noi conosciamo bene le persone di cui ci prendiamo cura. Loro vivono lì, perché quella è loro casa. In questi posti si vive. Io vedo la vita ogni giorno e vedo anche la morte, con il rispetto che merita.
Combatterò sempre, però, l’idea che vede la casa di riposo come un luogo in cui si viene a morire.
Una persona può morire anche a casa, anzi, spesso muore in casa. Ma di certo non abbiamo della casa un’idea di morte. Nel momento in cui una persona entra in struttura ha già in mente questa idea che morirà.
Il motivo è probabilmente che non viene valorizzata la parte relativa alla vita. Qui in struttura si vive e si vive anche forse più che a casa, perché sono delle attività, ci sono tante altre persone, non c’è isolamento. Qui fai parte di una comunità, con tutti i pro e i contro, perché ci si deve adeguare a certe regole del vivere insieme.
La morte, purtroppo, culturalmente è ancora un tabù. In struttura invece ne parliamo tanto, lavoriamo molto sul fine vita in équipe e trattiamo l’argomento col rispetto necessario. Per ogni persona facciamo valutazioni collettive e trascorriamo molto tempo a contatto con i familiari. C’è anche un comitato etico che ci segue.
Abbiamo ancora troppe resistenze culturali che ci portano ad evitare anche un certo lessico sul fine vita. Poi, l’aver vissuto una pandemia certamente non ci ha aiutato a sdoganare una certa visione dei servizi.
“Sapere, saper fare e saper essere”
In quel periodo tutto è stato stravolto e ci siamo dovuti reinventare in ogni aspetto. Ad oggi non posso dire che sia tutto passato. Attraversare quella fase è stata dura, lo è ancora per certi versi. Ma la cosa bella è che tutti ci siamo dati da fare anche quando non c‘era personale, abbiamo dimostrato di essere una squadra.
Quel periodo per noi ha significato molto, forse perché, in aggiunta alla nostra professionalità, qui ci sentiamo come una famiglia allargata. Perché alla fine prendersi cura delle persone vuol dire anche sentirsi coinvolti in tutti gli aspetti.
“Sapere, saper fare e saper essere”: se manca una di queste cose non può esserci cura a 360° a paer mio.
Quel “saper essere” è forse la parte più difficile. Sicuramente a livello di formazione universitaria si è spinti a svilupparla, ma è lavorando, facendo esperienza che questa parte accresce. Credo che nessun corso universitario, per quanto abilitante, possa dare quella dimensione che l’esperienza e lo stare sul campo possono darti.
Il rapporto empatico è la cosa più importante di tutte. Con gli anziani vivo esperienze straordinarie che da studentessa non potevo immaginare. Non mi aspettavo neanche di appassionarmi così a questo ambito. Per me il valore sta proprio nei rapporti umani e quello che mi porto a casa ogni giorno è impagabile.
Io poi sono una persona curiosa di natura, mi piace studiare le persone che vedo qui: parto dalla diagnosi e smembro tutto finché non riesco ad arrivare, come in un enigma, alla soluzione, alla chiave per comunicare con la persona.
Entrare in contatto con un anziano che non comunica più verbalmente e riuscire a sviluppare una relazione anche con lui è dura, ma è possibile. Il fatto di conoscere la persona che hai davanti è determinante per la riuscita. Noi conosciamo molto bene le persone che abbiamo qui, parliamo con i familiari e abbiamo un quadro completo per poter agire anche a livello professionale.
Poi, come in tutti i lavori, l’organizzazione è importante, così come la capacità di problem-solving, o quella di fronteggiare urgenze e incombenze. Ma soprattutto è la gestione del tempo la parte più complessa.
Con questo lavoro si sviluppano tante capacità trasversali che nessun percorso universitario può insegnare, come lavorare in gruppo, l’avere flessibilità, sviluppare una visione d’insieme, avere creatività.
La capacità di essere creativi in quest’ambito è determinante per poter lavorare bene. Io ho fatto diversi progetti, ho avuto modo di provare nuovi percorsi, di proporre attività sul territorio. Ad esempio a Venezia, nella Riviera del Brenta, ho incontrato tante persone che lavoravano nelle industrie che facevano calzature. Così ho fatto una progetto specifico per stimolare il linguaggio, dove l’argomento centrale era quello delle scarpe e siamo anche andati a Villa Foscarini Rossi, dove c’è il museo della calzatura.
Poi con l’educatrice, che è anche operatrice di Pet Therapy, abbiamo organizzato attività assistite con animali e abbiamo anche adottato un cane in struttura. Abbiamo visto in quel caso che i cani stimolavano il linguaggio anche delle persone molto gravi.
Le varie attività sono chiaramente il frutto di creatività ma sono anche momenti di sperimentazione, perché portano spesso a esiti imprevisti. Dunque, è un lavoro veramente molto movimentato. Essere creativi è un po’ una capacità trasversale stimolata dalla collaborazione con gli altri.
Adesso la sensazione è che si stia riconoscendo il logopedista come parte integrante dell’équipe. Almeno, qui in Veneto è così. So di altre esperienze di colleghe che venivano inserite in struttura per risolvere un problema specifico. Avere un incarico a spot rischia però di non farci fare bene il nostro lavoro, perché ci manca la visione di insieme. Poi come logopedista sei sempre costretto a interfacciarti con altre discipline.
Una professione da conoscere e “riconoscere”
Nonostante a livello culturale si stiano facendo passi avanti, la stessa cosa non posso dirla a livello istituzionale, perché l’unico vero non riconoscimento della professione del logopedista credo sia quello economico e di inquadramento contrattuale.
Non veniamo pagati come chi lavora in ospedale. Poi viviamo la difficoltà del tempo: io lavoro tantissime ore per poter riuscire a fare quello che devo e fortunatamente sono mossa da una grande passione per questo lavoro. Dovrebbe però esserci più proporzione fra il carico di lavoro che ci viene affidato e il personale in struttura. E questo vale anche per gli altri colleghi.
A mio avviso dovrebbe esserci anche maggiore consapevolezza circa il lavoro che svolgiamo, per far sì che ci venga affidato il tempo adeguato per eseguire le nostre attività e che ci venga fatta un’adeguata proposta contrattuale ed economica, in grado di valorizzare quello che facciamo.
Il logopedista affronta tematiche molto importanti, come il fine vita, l’ aiutare una persona a comunicare ancora. Per tutto questo ci vuole il giusto tempo. Io passo molte ore con i familiari, parlando con loro, e questo è parte del mio lavoro.
Proprio a proposito dei familiari, mi sono accorta di un loro cambiamento e di una loro maggiore presa di coscienza nella fase di ingresso in RSA successivamente alla partecipazione nei Caffè Alzheimer, i quali sono determinanti nel percorso della persona in RSA.
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