L’ingresso in RSA è uno stress profondo per tutti i membri coinvolti e uno spartiacque che segna un “prima” e un “dopo”. In quest’articolo, la dott.ssa Sara Sabbadin ci aiuta a riflettere sulle consapevolezze necessarie ai professionisti della Cura affinché si realizzi un’autentica accoglienza delle famiglie, al di là di ogni inutile etichetta o giudizio.
L’ingresso in RSA: uno stress profondo per tutti i membri coinvolti
Accompagnare un familiare in struttura è il punto di arrivo di un percorso che può originare da strade diverse. Può essere stato posticipato il più possibile ed infine accolto come unica soluzione quando le richieste di assistenza superano le risorse disponibili o, al contrario, piuttosto breve, conseguenza inevitabile di eventi traumatici che catapultano all’improvviso la persona e tutta la sua famiglia nell’universo dell’assistenza residenziale.
Può essere una decisione presa di comune accordo con la persona che sarà ricoverata, che magari è stata la prima a proporlo quando le condizioni a domicilio iniziavano a scricchiolare; oppure, come più spesso accade, la decisione può essere stata presa dai familiari, dopo infiniti ripensamenti e tentativi di equilibrismo tra vita privata e bisogni di cura.
Può incontrare il favore di tutti i membri della famiglia o aprire conflitti, anche così profondi da sembrare insanabili. E ancora, il ricovero può essere incoraggiato dai medici e riconosciuto come necessario anche dalla famiglia oppure subito da chi si ricovera tanto quando da chi fa ricoverare.
Quale sia il percorso che porta la famiglia in RSA, intraprendere la strada della struttura è uno stress profondo per tutti i membri coinvolti, che inizia molto prima dell’effettivo ricovero e si protrae a lungo dopo che questo è avvenuto, affievolendosi lentamente nel tempo, a volte mai del tutto e sempre in modi diversi perché diversi sono gli individui, le loro storie e le dinamiche tra loro.
L’ingresso in RSA: uno spartiacque tra prima e dopo
Quale ruolo quindi per noi strutture di fronte a questa complessità? Come possiamo muoverci in questa cristalleria di sentimenti, di paure e fatiche, per non aggiungere danno al danno ma piuttosto per essere di aiuto concreto nel loro percorso di ambientamento?
Erroneamente possiamo essere indotti a pensare che presentare la domanda di ricovero in struttura coincida con l’accettazione di tutto ciò che comporta. Non è così, non per tutti.
È fondamentale che l’équipe sia formata a comprendere che il ricovero è prima di tutto una separazione, uno spartiacque tra il mondo del prima, dove l’individuo era parte fisica ed emotiva di una costellazione di familiari, amici, luoghi e consuetudini e il mondo del dopo, quando tutto questo diventa ricordo e sia lui che la sua famiglia si trovano di fronte l’arduo compito di ricostruire da zero un nuovo modo di pensarsi e funzionare come individui e come famiglia mentre uno di loro è dentro e tutti gli altri fuori.
L’ingresso in struttura è solo l’inizio del percorso di accettazione: è un lento avvicinamento che richiede compromessi e continui tentativi di venirsi incontro in questa convivenza forzata della quale sanno aver bisogno ma che, se avessero potuto, probabilmente non avrebbero scelto.Vedere il ricovero in quest’ottica ci aiuta a dare un senso ai comportamenti delle famiglie nei primi periodi e a costruire confini saldi ma anche morbidi entro cui possano muovere i propri primi passi dentro la struttura, con le risorse che hanno in quel momento.
Fare luce sui confini
“Non hanno accettato il ricovero!” “Non hanno nessuna fiducia in noi!” “Controlla ogni cosa, ogni occasione è buona per criticare…” sono talvolta i commenti a caldo dell’équipe quando si trova a fronteggiare il senso di impotenza e il dolore di quelle famiglie che più di altre inciampano lungo la via dell’ambientamento.
Perché i vissuti delle famiglie ci arrivano addosso, a volte in modo dirompente, e si mescolano con la nostra personale fatica di stare a contatto con emozioni forti, con dinamiche familiari che ci richiamano storie personali, con situazioni che potrebbero essere migliori per tutti se solo potessimo gestirle diversamente, con storie che ci mostrano un futuro che magari ci spaventa (o che stiamo già vivendo nel nostro privato…).
Il tutto mentre tentiamo di arrivare a fine turno con tutta la lista delle mansioni quotidiane spuntata. Stare a contatto con il dolore e la fatica dell’altro attiva le nostre difese e il nostro bisogno di difendere il lavoro che stiamo provando a fare per loro, anche se loro sembrano non vederlo.
È questa un’altra delle competenze fondamentali nel lavoro di cura: riconoscere quando una situazione ci attiva e ci risuona dentro più di altre, quando quel particolare anziano e quella particolare famiglia ci toccano più in profondità.
Saper separare ciò che è nostro da ciò che è dell’altro, riconoscere quando la nostra impotenza e il nostro senso di frustrazione di fronte alle situazioni che ci mettono in difficoltà offuscano il nostro giudizio e distorcono l’interpretazione dei comportamenti delle famiglie.
È una competenza delicatissima, che va coltivata attraverso la formazione continua e, soprattutto, la supervisione, uno strumento preziosissimo di riflessione e protezione interna per le équipe che lavorano in ambienti a così elevata densità e complessità di sentimenti, ma ancora, purtroppo, poco utilizzato dentro le RSA.
Il limite del professionista della Cura
Come professionisti di cura ci confrontiamo continuamente con il senso del limite del nostro lavoro.
Vorremmo alleviare la sofferenza di chi curiamo, accelerare i tempi perché le cose si sistemino in fretta, ridurre al minimo gli spazi di sofferenza per i nostri anziani. E vorremmo che le famiglie capissero i nostri sforzi e i nostri limiti interni, fatti di ritmi di lavoro serrati e risorse risicate.
Eppure non possiamo impedire la sofferenza della separazione, né possiamo stabilire un tempo “massimo” entro cui tutti devono essere efficacemente ambientati e adattati.
Forse, non possiamo nemmeno essere sicuri di cosa sia un buon ambientamento. Di certo non possiamo sperare che tutte le famiglie si ambientino allo stesso modo e come vorremmo noi.
L’istituzionalizzazione per sua natura tende continuamente a tentare di uniformare gli individui: è un meccanismo di sopravvivenza che mettiamo in atto nel tentativo di far combaciare i bisogni di cura di ciascuna persona anziana e i ritmi di lavoro a cui dobbiamo sottostare.
(Abbiamo già parlato, anche se con un taglio diverso, della tendenza a ridurre le persone ricoverate a un’”entità unitaria” in questo articolo, dedicato all’utilizzo improprio del termine “nonne e nonni”)
Se tutti si comportano come ci si deve comportare, è più facile per tutti. Inoltre accogliere una persona in struttura significa di fatto avere il controllo di buona parte dei suoi tempi e dei suoi bisogni e questo talvolta ci porta alla pericolosa convinzione che ora comandiamo noi.
“Se vengono qui, devono rispettare le regole!” “Se non gli va bene, che vadano altrove…”
Ma noi siamo solo il tratto finale di una lunga, lunghissima, storia personale e familiare e non abbiamo il potere di cambiare il modo in cui i membri di quella famiglia affrontano le difficoltà e interagiscono tra loro.
Siamo un servizio a cui bussano perché ne hanno bisogno, ma sappiamo di non poter dare per scontato che il primo giorno il cuore sia pronto al pari delle valigie.
Cosa possiamo fare noi professionisti
Ciò che concretamente possiamo fare (e non è poco!) è creare uno spazio in grado di accoglierli riducendo loro un po’ la fatica della separazione. Possiamo essere uno luogo affidabile, senza zone d’ombra, competente non solo di fronte alla malattia fisica ma anche alla fatica psicologica, in grado di tenere sempre a mente che dobbiamo andare oltre l’etichetta di famiglia maleducata, criticona, controllante…
E vedere con sguardo professionale cosa guida quei comportamenti, da cosa nascono e qual è il nostro pezzettino di responsabilità nella situazione, se qualcosa del nostro agire può contribuire a creare difficoltà; cosa possiamo concretamente fare per essere un supporto professionale e umano anche per loro, oltre che per i nostri residenti, all’interno del nostro sistema di regole e di funzionamento.
Perché avere noi per primi confini e prassi di cura chiare e condivise è condizione imprescindibile per poter aiutare l’altro.
In questa impresa possiamo mettere in campo alleati validi: un metodo di lavoro condiviso e applicato da tutti, regole chiare e ben comunicate, processi interni trasparenti, comunicazione costante ed efficace tra di noi prima e con le famiglie poi. Canali comunicativi semplici da gestire creano luoghi facili da capire e quindi meno minacciosi, meno faticosi, meno da combattere.
Perché l’obiettivo realistico a cui dobbiamo tendere è che non sentano di dover combattere anche noi, oltre all’ingiusto destino che li ha portati fin qui.
La casa è dove si trova il cuore, diceva un famoso filosofo latino. Ma anche il cuore più impavido ha bisogno di tempo per abitare un nuovo spazio, di aiuto per capirlo e dargli un senso, di accompagnamento per sentirlo un luogo sufficientemente sicuro da iniziare ad abbassare la guardia e trovarvi il buono che c’è, per sé e per i propri cari.
Consigli bibliografici per professionisti che accolgono le famiglie
“Il colloquio con l’anziano. Tra psicoterapia e supervisione nelle istituzioni” di Nicolini C., Ambrosiano I., Minervini P e Pilchler A., Ed. Borla, 2008.
“Alzheimer: guida psicologica per il caregiver. Tutto quello che c’è da sapere quando ti prendi cura di una persona con demenza” di Vigna C., Maggioli Editore, 2021
“Cinque minuti per l’accoglienza in RSA. Un metodo basato sull’approccio capacitante” di Vigorelli P., ed. Franco Angeli, 2012
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L’ingresso in RSA è uno stress profondo per tutti i membri coinvolti e uno spartiacque che segna un “prima” e un “dopo”. In quest’articolo, la dott.ssa Sara Sabbadin ci aiuta a riflettere sulle consapevolezze necessarie ai professionisti della Cura affinché si realizzi un’autentica accoglienza delle famiglie, al di là di ogni inutile etichetta o giudizio.
L’ingresso in RSA: uno stress profondo per tutti i membri coinvolti
Accompagnare un familiare in struttura è il punto di arrivo di un percorso che può originare da strade diverse. Può essere stato posticipato il più possibile ed infine accolto come unica soluzione quando le richieste di assistenza superano le risorse disponibili o, al contrario, piuttosto breve, conseguenza inevitabile di eventi traumatici che catapultano all’improvviso la persona e tutta la sua famiglia nell’universo dell’assistenza residenziale.
Può essere una decisione presa di comune accordo con la persona che sarà ricoverata, che magari è stata la prima a proporlo quando le condizioni a domicilio iniziavano a scricchiolare; oppure, come più spesso accade, la decisione può essere stata presa dai familiari, dopo infiniti ripensamenti e tentativi di equilibrismo tra vita privata e bisogni di cura.
Può incontrare il favore di tutti i membri della famiglia o aprire conflitti, anche così profondi da sembrare insanabili. E ancora, il ricovero può essere incoraggiato dai medici e riconosciuto come necessario anche dalla famiglia oppure subito da chi si ricovera tanto quando da chi fa ricoverare.
Quale sia il percorso che porta la famiglia in RSA, intraprendere la strada della struttura è uno stress profondo per tutti i membri coinvolti, che inizia molto prima dell’effettivo ricovero e si protrae a lungo dopo che questo è avvenuto, affievolendosi lentamente nel tempo, a volte mai del tutto e sempre in modi diversi perché diversi sono gli individui, le loro storie e le dinamiche tra loro.
L’ingresso in RSA: uno spartiacque tra prima e dopo
Quale ruolo quindi per noi strutture di fronte a questa complessità? Come possiamo muoverci in questa cristalleria di sentimenti, di paure e fatiche, per non aggiungere danno al danno ma piuttosto per essere di aiuto concreto nel loro percorso di ambientamento?
Erroneamente possiamo essere indotti a pensare che presentare la domanda di ricovero in struttura coincida con l’accettazione di tutto ciò che comporta. Non è così, non per tutti.
È fondamentale che l’équipe sia formata a comprendere che il ricovero è prima di tutto una separazione, uno spartiacque tra il mondo del prima, dove l’individuo era parte fisica ed emotiva di una costellazione di familiari, amici, luoghi e consuetudini e il mondo del dopo, quando tutto questo diventa ricordo e sia lui che la sua famiglia si trovano di fronte l’arduo compito di ricostruire da zero un nuovo modo di pensarsi e funzionare come individui e come famiglia mentre uno di loro è dentro e tutti gli altri fuori.
L’ingresso in struttura è solo l’inizio del percorso di accettazione: è un lento avvicinamento che richiede compromessi e continui tentativi di venirsi incontro in questa convivenza forzata della quale sanno aver bisogno ma che, se avessero potuto, probabilmente non avrebbero scelto.Vedere il ricovero in quest’ottica ci aiuta a dare un senso ai comportamenti delle famiglie nei primi periodi e a costruire confini saldi ma anche morbidi entro cui possano muovere i propri primi passi dentro la struttura, con le risorse che hanno in quel momento.
Fare luce sui confini
“Non hanno accettato il ricovero!” “Non hanno nessuna fiducia in noi!” “Controlla ogni cosa, ogni occasione è buona per criticare…” sono talvolta i commenti a caldo dell’équipe quando si trova a fronteggiare il senso di impotenza e il dolore di quelle famiglie che più di altre inciampano lungo la via dell’ambientamento.
Perché i vissuti delle famiglie ci arrivano addosso, a volte in modo dirompente, e si mescolano con la nostra personale fatica di stare a contatto con emozioni forti, con dinamiche familiari che ci richiamano storie personali, con situazioni che potrebbero essere migliori per tutti se solo potessimo gestirle diversamente, con storie che ci mostrano un futuro che magari ci spaventa (o che stiamo già vivendo nel nostro privato…).
Il tutto mentre tentiamo di arrivare a fine turno con tutta la lista delle mansioni quotidiane spuntata. Stare a contatto con il dolore e la fatica dell’altro attiva le nostre difese e il nostro bisogno di difendere il lavoro che stiamo provando a fare per loro, anche se loro sembrano non vederlo.
È questa un’altra delle competenze fondamentali nel lavoro di cura: riconoscere quando una situazione ci attiva e ci risuona dentro più di altre, quando quel particolare anziano e quella particolare famiglia ci toccano più in profondità.
Saper separare ciò che è nostro da ciò che è dell’altro, riconoscere quando la nostra impotenza e il nostro senso di frustrazione di fronte alle situazioni che ci mettono in difficoltà offuscano il nostro giudizio e distorcono l’interpretazione dei comportamenti delle famiglie.
È una competenza delicatissima, che va coltivata attraverso la formazione continua e, soprattutto, la supervisione, uno strumento preziosissimo di riflessione e protezione interna per le équipe che lavorano in ambienti a così elevata densità e complessità di sentimenti, ma ancora, purtroppo, poco utilizzato dentro le RSA.
Il limite del professionista della Cura
Come professionisti di cura ci confrontiamo continuamente con il senso del limite del nostro lavoro.
Vorremmo alleviare la sofferenza di chi curiamo, accelerare i tempi perché le cose si sistemino in fretta, ridurre al minimo gli spazi di sofferenza per i nostri anziani. E vorremmo che le famiglie capissero i nostri sforzi e i nostri limiti interni, fatti di ritmi di lavoro serrati e risorse risicate.
Eppure non possiamo impedire la sofferenza della separazione, né possiamo stabilire un tempo “massimo” entro cui tutti devono essere efficacemente ambientati e adattati.
Forse, non possiamo nemmeno essere sicuri di cosa sia un buon ambientamento. Di certo non possiamo sperare che tutte le famiglie si ambientino allo stesso modo e come vorremmo noi.
L’istituzionalizzazione per sua natura tende continuamente a tentare di uniformare gli individui: è un meccanismo di sopravvivenza che mettiamo in atto nel tentativo di far combaciare i bisogni di cura di ciascuna persona anziana e i ritmi di lavoro a cui dobbiamo sottostare.
(Abbiamo già parlato, anche se con un taglio diverso, della tendenza a ridurre le persone ricoverate a un’”entità unitaria” in questo articolo, dedicato all’utilizzo improprio del termine “nonne e nonni”)
Se tutti si comportano come ci si deve comportare, è più facile per tutti. Inoltre accogliere una persona in struttura significa di fatto avere il controllo di buona parte dei suoi tempi e dei suoi bisogni e questo talvolta ci porta alla pericolosa convinzione che ora comandiamo noi.
“Se vengono qui, devono rispettare le regole!” “Se non gli va bene, che vadano altrove…”
Ma noi siamo solo il tratto finale di una lunga, lunghissima, storia personale e familiare e non abbiamo il potere di cambiare il modo in cui i membri di quella famiglia affrontano le difficoltà e interagiscono tra loro.
Siamo un servizio a cui bussano perché ne hanno bisogno, ma sappiamo di non poter dare per scontato che il primo giorno il cuore sia pronto al pari delle valigie.
Cosa possiamo fare noi professionisti
Ciò che concretamente possiamo fare (e non è poco!) è creare uno spazio in grado di accoglierli riducendo loro un po’ la fatica della separazione. Possiamo essere uno luogo affidabile, senza zone d’ombra, competente non solo di fronte alla malattia fisica ma anche alla fatica psicologica, in grado di tenere sempre a mente che dobbiamo andare oltre l’etichetta di famiglia maleducata, criticona, controllante…
E vedere con sguardo professionale cosa guida quei comportamenti, da cosa nascono e qual è il nostro pezzettino di responsabilità nella situazione, se qualcosa del nostro agire può contribuire a creare difficoltà; cosa possiamo concretamente fare per essere un supporto professionale e umano anche per loro, oltre che per i nostri residenti, all’interno del nostro sistema di regole e di funzionamento.
Perché avere noi per primi confini e prassi di cura chiare e condivise è condizione imprescindibile per poter aiutare l’altro.
In questa impresa possiamo mettere in campo alleati validi: un metodo di lavoro condiviso e applicato da tutti, regole chiare e ben comunicate, processi interni trasparenti, comunicazione costante ed efficace tra di noi prima e con le famiglie poi. Canali comunicativi semplici da gestire creano luoghi facili da capire e quindi meno minacciosi, meno faticosi, meno da combattere.
Perché l’obiettivo realistico a cui dobbiamo tendere è che non sentano di dover combattere anche noi, oltre all’ingiusto destino che li ha portati fin qui.
La casa è dove si trova il cuore, diceva un famoso filosofo latino. Ma anche il cuore più impavido ha bisogno di tempo per abitare un nuovo spazio, di aiuto per capirlo e dargli un senso, di accompagnamento per sentirlo un luogo sufficientemente sicuro da iniziare ad abbassare la guardia e trovarvi il buono che c’è, per sé e per i propri cari.
Consigli bibliografici per professionisti che accolgono le famiglie
“Il colloquio con l’anziano. Tra psicoterapia e supervisione nelle istituzioni” di Nicolini C., Ambrosiano I., Minervini P e Pilchler A., Ed. Borla, 2008.
“Alzheimer: guida psicologica per il caregiver. Tutto quello che c’è da sapere quando ti prendi cura di una persona con demenza” di Vigna C., Maggioli Editore, 2021
“Cinque minuti per l’accoglienza in RSA. Un metodo basato sull’approccio capacitante” di Vigorelli P., ed. Franco Angeli, 2012