In quest’articolo l’assistente sociale Linda Sabbadin apre il proprio cuore di nipote. Lei, che accoglie famiglie per lavoro, si è infatti trovata “catapultata dall’altra parte”, sviluppando così nuove consapevolezze anche attorno al proprio ruolo professionale. Si tratta di una testimonianza preziosa sia per chi sta vivendo questo delicato passaggio, sia per chi accoglie quotidianamente persone in RSA.
La mia nonna in RSA
La mia nonna, annata 1929, è la classica “nonna”.
Se qualcuno necessitasse di una foto per delineare lo stereotipo del termine mi chiederebbe, sicuramente, la sua.
La mia nonna cucinava, tutt’ora si cotona i capelli una volta a settimana, non saltava mai la messa e pregava. Sempre. Anche mentre spadellava ai fornelli. A costo di bruciare tutto, lei pregava.
La mia nonna mi ha cresciuta. Mi ha portato, per anni, a scuola, stringendo forte la manina di quella bambina insicura che non ci voleva andare.
A casa vivevamo in 4: io, i miei genitori, e lei. E spesso, parlando di altri anziani che erano stati inseriti in Casa di Riposo, se ne usciva con quella classica frase stereotipata:
“Non avrete mica il coraggio di mettermi all’Ospizio dopo tutto quello che ho fatto per voi”.
Eppure quel momento, ora, è arrivato. E io, che da anni accolgo, rassicuro, tengo lontani gli stereotipi, mi sono trovata catapultata dall’altra parte, totalmente impreparata, fragile… in colpa.
Da professionista a familiare
La cosa peggiore è che proprio per il mio ruolo – “perché tu in casa di riposo ci lavori”, “Tu sei abituata”, “Tu capisci” – ho dovuto fare la forte per tutti.
Per mia zia in primis. Perché è lei la caregiver; è lei che non ce la fa più: il suo livello di stress, di fatica fisica e mentale, è diventato troppo elevato.
È lei che da 10 anni, prima poco e poi sempre di più, mette in secondo piano la sua vita. Ed è lei che rassicuro il giorno del colloquio con la Struttura, che no… non è quella in cui lavoro io.
L’RSA dove lavoro è troppo distante e, a parte me, nessuno potrebbe andare a trovarla con costanza.
Forse è anche meglio così, perché non è facile scindere la posizione lavorativa da quella di familiare. Non sarei sicuramente lucida nelle decisioni, né mie né dell’équipe.
Eppure, quando ci penso, mi sale un nodo alla gola. Perché mi prendo cura di così tanti anziani e non posso prendermi cura della mia, di nonna?
È paradossale e mi fa stare male. Ma non lo dico. O almeno non a voce alta.
Il giorno del colloquio
Il giorno del colloquio arrivo a casa di mia zia e saluto mia nonna, che non si muove più ma è estremamente lucida. Sa benissimo dove stiamo andando. Le diciamo che andiamo a sentire e che poi torneremo.
La guardo seduta in divano, con quei capelli perfetti, che ci guarda andare via, e mi sento male. Mi sento di tradirla.
Sto tradendo quella promessa che, attorno ad un tavolo durante uno di quei tanti, caotici dopocena di famiglia, dentro di me, ho sempre creduto che avrei mantenuto. Quando in divano tra le bambole pensavo: “Perché mai nonna dovremmo abbandonarti in un vecchio Ospizio?”
Quante volte l’hanno detto i familiari a me, di esser venuti meno a quella promessa.
Cerco di utilizzare, dentro la mia testa, tutte le parole che uso con loro per rassicurarli, ma non funzionano. Mi rendo conto che, forse, anche con loro non attecchiscono, e mi sento in difetto anche pensando al mio ruolo.
Quando entriamo per il colloquio sono un fascio di nervi. Ma so che mia zia lo è ancora di più e faccio finta di nulla.
Parliamo, ci fanno domande, ci spiegano cose che so già: i costi, il funzionamento, la burocrazia. Ma la persona che mi parla è gentile e mi ascolta. Ecco. Non ho bisogno di altro. La retta la leggerò, leggerò anche la “Carta dei servizi”, i piani di lavoro, le attività. Mi informerò di tutto. Ma lì, in quel momento, mi sento fragile. E ho bisogno di una persona gentile.
Capisco, forse per la prima volta, quanto sia importante che io, ai colloqui, lo sia.
Mi chiedo, quando torno a casa, se lo sono abbastanza, se c’è qualcosa che potrei migliorare, se posso aiutare “meglio”. Voglio migliorarmi perché adesso so molto bene cosa si prova.
Si dice che l’empatia sia imparare a camminare dentro le scarpe dell’altro; e stavolta io, con le scarpe di chi vedo ogni giorno, non solo ci ho camminato, ma mi preparo a fare proprio un pezzo di strada. E sento male. Come quando torni dopo una serata e vuoi togliere i tacchi.
Il giorno dell’ingresso
Il giorno dell’ingresso io non ci sono perché sono a lavoro. O forse uso il lavoro come strategia per non esserci. Anche questo rispecchia casistiche che ho già visto. Ho assistito a parenti che hanno mandato amici, a figli che sono rimasti chiusi dentro in macchina e hanno mandato i nipoti, ad altri che mi hanno, onestamente, detto:
“Preferisco non esserci quel giorno”.
E nessuna di queste scelte ha mai avuto il mio giudizio. E, soprattutto ora, mai lo avrà.
Di norma, nell’ultimo anno, andavo a trovarla circa una volta a settimana, ma la settimana scorsa ci sono andata tre volte.
Ricordo bene quando, poco dopo un ingresso, una familiare mi chiese:
“Dottoressa… ma quante volte devo venire?”
“Be, signora, quante volte vuole. Quando la mamma era a casa quante volte andava a trovarla?”
“Due”.
“Allora stia serena e venga due volte. Qui è come se fosse a casa”
Eppure quel pensiero, professionale e ponderato, non vale. Non è valso, probabilmente, per quella familiare, e non vale sicuramente per me.
Il motivo per cui vado così spesso è perché non voglio che si senta abbandonata, che si senta sola. E, più semplicemente, perché mi sento in colpa. Devo lenire quella sensazione e andare è l’unico modo per farlo. Ci sono mille motivi per cui non dovrei sentirmici. Eppure è più forte di me.
Ed è più forte di me credere a qualsiasi cosa mi dica. Perché è lucida, è vero. Ma ha quasi 96 anni. E quando mi dice che non le hanno somministrato la terapia io vorrei subito reclamare ma poi mi fermo. Ci penso. Cerco di razionalizzare. So che le terapie sono scritte, che gli infermieri sono precisi, e soprattutto che lei, pur nella sua lucidità, può confondersi. Eppure non sono obiettiva.
Spesso dico ai familiari che i loro cari, anche se lucidi, possono avere dei momenti di confusione; dovuti semplicemente all’età, alla terapia, ad un momento. Loro fanno fatica a crederci. Ed ora lo so.
Perché i miei anziani possono avere momenti in cui sono confusi, ma la mia nonna no. Lei è la più lucida di tutti. Deve esserlo. Deve esserlo per me. Perché a me, abituata alla sua memoria ferrea e al fatto che, tutt’ora, ricorda tutto di me, sapere che potrebbe non essere più così fa paura. E non lo voglio accettare.
La difficoltà ad ambientarsi
La mia nonna è dentro da quasi un mese e domenica scorsa, mentre ero lì, ha pianto.
Fa fatica ad ambientarsi, o forse ha avuto un momento di sconforto. Le capitava anche a casa.
Non lo so. So solo che, dopo un mese, ho smesso di fare la forte. Mi sono alzata dalla sedia che mi permetteva di essere alla stessa altezza di lei, seduta sulla sua carrozzina, mi sono girata verso la finestra, ho guardato il cielo che era ancora chiaro e ho pianto. Ho pianto tanto. Ho fatto uscire tante lacrime per un sacco di ragioni e di ricordi.
Non so come andrà. Se si abituerà, se si troverà bene. È ancora presto. Come dico sempre ai familiari che seguo:
“Diamoci del tempo. A lei per conoscere noi e a noi per conoscere lei”.
Ma so che, comunque vada, cercherò di migliorarmi. Perché ho capito cosa significa camminare con quei tacchi e quanto, a volte, possano far male.
Poi, finite le lacrime, ho preso un fazzoletto dal suo borsellino colorato che io stessa le ho regalato, le ho asciugate e le ho detto:
“Dai, andiamo giù a prendere un caffè. Vedo tante persone con cui possiamo stringere amicizia”.
Se ti interessa il tema dell’accoglienza delle famiglie in RSA, ti segnaliamo anche quest’articolo dell’autrice Linda Sabbadin:
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In quest’articolo l’assistente sociale Linda Sabbadin apre il proprio cuore di nipote. Lei, che accoglie famiglie per lavoro, si è infatti trovata “catapultata dall’altra parte”, sviluppando così nuove consapevolezze anche attorno al proprio ruolo professionale. Si tratta di una testimonianza preziosa sia per chi sta vivendo questo delicato passaggio, sia per chi accoglie quotidianamente persone in RSA.
La mia nonna in RSA
La mia nonna, annata 1929, è la classica “nonna”.
Se qualcuno necessitasse di una foto per delineare lo stereotipo del termine mi chiederebbe, sicuramente, la sua.
La mia nonna cucinava, tutt’ora si cotona i capelli una volta a settimana, non saltava mai la messa e pregava. Sempre. Anche mentre spadellava ai fornelli. A costo di bruciare tutto, lei pregava.
La mia nonna mi ha cresciuta. Mi ha portato, per anni, a scuola, stringendo forte la manina di quella bambina insicura che non ci voleva andare.
A casa vivevamo in 4: io, i miei genitori, e lei. E spesso, parlando di altri anziani che erano stati inseriti in Casa di Riposo, se ne usciva con quella classica frase stereotipata:
“Non avrete mica il coraggio di mettermi all’Ospizio dopo tutto quello che ho fatto per voi”.
Eppure quel momento, ora, è arrivato. E io, che da anni accolgo, rassicuro, tengo lontani gli stereotipi, mi sono trovata catapultata dall’altra parte, totalmente impreparata, fragile… in colpa.
Da professionista a familiare
La cosa peggiore è che proprio per il mio ruolo – “perché tu in casa di riposo ci lavori”, “Tu sei abituata”, “Tu capisci” – ho dovuto fare la forte per tutti.
Per mia zia in primis. Perché è lei la caregiver; è lei che non ce la fa più: il suo livello di stress, di fatica fisica e mentale, è diventato troppo elevato.
È lei che da 10 anni, prima poco e poi sempre di più, mette in secondo piano la sua vita. Ed è lei che rassicuro il giorno del colloquio con la Struttura, che no… non è quella in cui lavoro io.
L’RSA dove lavoro è troppo distante e, a parte me, nessuno potrebbe andare a trovarla con costanza.
Forse è anche meglio così, perché non è facile scindere la posizione lavorativa da quella di familiare. Non sarei sicuramente lucida nelle decisioni, né mie né dell’équipe.
Eppure, quando ci penso, mi sale un nodo alla gola. Perché mi prendo cura di così tanti anziani e non posso prendermi cura della mia, di nonna?
È paradossale e mi fa stare male. Ma non lo dico. O almeno non a voce alta.
Il giorno del colloquio
Il giorno del colloquio arrivo a casa di mia zia e saluto mia nonna, che non si muove più ma è estremamente lucida. Sa benissimo dove stiamo andando. Le diciamo che andiamo a sentire e che poi torneremo.
La guardo seduta in divano, con quei capelli perfetti, che ci guarda andare via, e mi sento male. Mi sento di tradirla.
Sto tradendo quella promessa che, attorno ad un tavolo durante uno di quei tanti, caotici dopocena di famiglia, dentro di me, ho sempre creduto che avrei mantenuto. Quando in divano tra le bambole pensavo: “Perché mai nonna dovremmo abbandonarti in un vecchio Ospizio?”
Quante volte l’hanno detto i familiari a me, di esser venuti meno a quella promessa.
Cerco di utilizzare, dentro la mia testa, tutte le parole che uso con loro per rassicurarli, ma non funzionano. Mi rendo conto che, forse, anche con loro non attecchiscono, e mi sento in difetto anche pensando al mio ruolo.
Quando entriamo per il colloquio sono un fascio di nervi. Ma so che mia zia lo è ancora di più e faccio finta di nulla.
Parliamo, ci fanno domande, ci spiegano cose che so già: i costi, il funzionamento, la burocrazia. Ma la persona che mi parla è gentile e mi ascolta. Ecco. Non ho bisogno di altro. La retta la leggerò, leggerò anche la “Carta dei servizi”, i piani di lavoro, le attività. Mi informerò di tutto. Ma lì, in quel momento, mi sento fragile. E ho bisogno di una persona gentile.
Capisco, forse per la prima volta, quanto sia importante che io, ai colloqui, lo sia.
Mi chiedo, quando torno a casa, se lo sono abbastanza, se c’è qualcosa che potrei migliorare, se posso aiutare “meglio”. Voglio migliorarmi perché adesso so molto bene cosa si prova.
Si dice che l’empatia sia imparare a camminare dentro le scarpe dell’altro; e stavolta io, con le scarpe di chi vedo ogni giorno, non solo ci ho camminato, ma mi preparo a fare proprio un pezzo di strada. E sento male. Come quando torni dopo una serata e vuoi togliere i tacchi.
Il giorno dell’ingresso
Il giorno dell’ingresso io non ci sono perché sono a lavoro. O forse uso il lavoro come strategia per non esserci. Anche questo rispecchia casistiche che ho già visto. Ho assistito a parenti che hanno mandato amici, a figli che sono rimasti chiusi dentro in macchina e hanno mandato i nipoti, ad altri che mi hanno, onestamente, detto:
“Preferisco non esserci quel giorno”.
E nessuna di queste scelte ha mai avuto il mio giudizio. E, soprattutto ora, mai lo avrà.
Di norma, nell’ultimo anno, andavo a trovarla circa una volta a settimana, ma la settimana scorsa ci sono andata tre volte.
Ricordo bene quando, poco dopo un ingresso, una familiare mi chiese:
“Dottoressa… ma quante volte devo venire?”
“Be, signora, quante volte vuole. Quando la mamma era a casa quante volte andava a trovarla?”
“Due”.
“Allora stia serena e venga due volte. Qui è come se fosse a casa”
Eppure quel pensiero, professionale e ponderato, non vale. Non è valso, probabilmente, per quella familiare, e non vale sicuramente per me.
Il motivo per cui vado così spesso è perché non voglio che si senta abbandonata, che si senta sola. E, più semplicemente, perché mi sento in colpa. Devo lenire quella sensazione e andare è l’unico modo per farlo. Ci sono mille motivi per cui non dovrei sentirmici. Eppure è più forte di me.
Ed è più forte di me credere a qualsiasi cosa mi dica. Perché è lucida, è vero. Ma ha quasi 96 anni. E quando mi dice che non le hanno somministrato la terapia io vorrei subito reclamare ma poi mi fermo. Ci penso. Cerco di razionalizzare. So che le terapie sono scritte, che gli infermieri sono precisi, e soprattutto che lei, pur nella sua lucidità, può confondersi. Eppure non sono obiettiva.
Spesso dico ai familiari che i loro cari, anche se lucidi, possono avere dei momenti di confusione; dovuti semplicemente all’età, alla terapia, ad un momento. Loro fanno fatica a crederci. Ed ora lo so.
Perché i miei anziani possono avere momenti in cui sono confusi, ma la mia nonna no. Lei è la più lucida di tutti. Deve esserlo. Deve esserlo per me. Perché a me, abituata alla sua memoria ferrea e al fatto che, tutt’ora, ricorda tutto di me, sapere che potrebbe non essere più così fa paura. E non lo voglio accettare.
La difficoltà ad ambientarsi
La mia nonna è dentro da quasi un mese e domenica scorsa, mentre ero lì, ha pianto.
Fa fatica ad ambientarsi, o forse ha avuto un momento di sconforto. Le capitava anche a casa.
Non lo so. So solo che, dopo un mese, ho smesso di fare la forte. Mi sono alzata dalla sedia che mi permetteva di essere alla stessa altezza di lei, seduta sulla sua carrozzina, mi sono girata verso la finestra, ho guardato il cielo che era ancora chiaro e ho pianto. Ho pianto tanto. Ho fatto uscire tante lacrime per un sacco di ragioni e di ricordi.
Non so come andrà. Se si abituerà, se si troverà bene. È ancora presto. Come dico sempre ai familiari che seguo:
“Diamoci del tempo. A lei per conoscere noi e a noi per conoscere lei”.
Ma so che, comunque vada, cercherò di migliorarmi. Perché ho capito cosa significa camminare con quei tacchi e quanto, a volte, possano far male.
Poi, finite le lacrime, ho preso un fazzoletto dal suo borsellino colorato che io stessa le ho regalato, le ho asciugate e le ho detto:
“Dai, andiamo giù a prendere un caffè. Vedo tante persone con cui possiamo stringere amicizia”.
Se ti interessa il tema dell’accoglienza delle famiglie in RSA, ti segnaliamo anche quest’articolo dell’autrice Linda Sabbadin: