Le RSA devono diventare centro servizi all’interno di un sistema sociosanitario che si prenda cura dell’anziano e della sua famiglia e che comprenda anche soluzioni come co-housing o assistenza domiciliare. È quanto emerge dal gruppo di studio organizzato il 19 novembre da Editrice Dapero.  

Le RSA non possono rimanere isole a sé stanti, devono diventare nodi cruciali all’interno di una filiera dei servizi che risponda ai diversi bisogni di anziani fragili o non autosufficienti e delle loro famiglie. È questo il messaggio più importante emerso dal gruppo di studio organizzato da Editrice Dapero giovedì 19 novembre. Hanno partecipato direttori e responsabili di diverse realtà che hanno raccontato le proprie esperienze e cercato una base comune dalla quale ripartire per cambiare il sistema sociosanitario e, soprattutto, per fare in modo che il mondo politico presti attenzione alle loro istanze. I partecipanti erano: Giorgio Pavan, direttore ISRAA della città di Treviso, Salvatore Rao, presidente de La Bottega del Possibile, Franco Iurlaro, direttore IPAB “Luigi Mariutto” di Mirano (Venezia), Carmine di Palma, responsabile tecnico del settore anziani della cooperativa “Giuseppe di Vittorio” di Firenze. Ha moderato l’incontro Renato Dapero, direttore editoriale della rivista CURA. 

RSA o assistenza domiciliare?

«Il problema vero non è la contrapposizione tra l’assistenza domiciliare e l’RSA – chiarisce subito Giorgio Pavan, – o la tendenza a voler valorizzare la prima rispetto alla seconda. Quello su cui si deve puntare l’attenzione in primis è sulla mancanza di più di 200mila posti letto per tutte quelle persone anziane che ne avrebbero bisogno e non hanno alternative, non hanno famiglie che le possano assistere». Secondo l’ISTAT la capacità di ricezione delle strutture sociosanitarie presenti sul territorio italiano per gli ospiti over 65 è di circa 254mila individui. Ma, come puntualizzava già nel 2018 Giuseppe Saronni, segretario della Fnp (Federazione nazionale pensionati) Cisl Lombardia per le provincie di Lecco e Monza Brianza, in un’intervista a Lecconotizie.com, la richiesta che si registra è praticamente doppia: 496mila in tutto. 

D’altro canto, anche sul fronte dell’ADI (Assistenza domiciliare integrata) le cifre non sono confortanti: sempre Fnp denuncia la presenza di 300mila utenti che ne avrebbero bisogno e non la ricevono. «Ogni persona ha diritto di vivere e di essere curata e assistita nel luogo che sente come casa – interviene Salvatore Rao – Ci tengo a precisare che per la Bottega del Possibile “casa” non è per forza il domicilio, ma ciò che l’anziano avverte come tale. È chiaro che abbiamo ancora molto da lavorare affinché le persone vengano accolte in luoghi dove si possano sentire “abitanti” e non “ospiti”. Purtroppo, però, il nostro servizio sanitario discrimina chi vuole ancora essere assistito nella propria abitazione. Vige infatti un sistema che pone questo sostegno in maniera diversa, a seconda che la persona sia inserita in una struttura, o rimanga al suo domicilio. In quest’ultimo contesto il Sistema sanitario nazionale non interviene e non sostiene quel prendersi cura. È un punto sul quale dobbiamo intervenire per richiamare la Sanità alle sue responsabilità». 

Quale ambito privilegiare dunque? RSA o assistenza domiciliare? «La questione è mal posta – risponde Carmine di Palma. – Le RSA fanno parte di un processo e non possono essere chiuse, perché la non autosufficienza che accogliamo non la si può eliminare. Una soluzione è invece costruire servizi sul territorio che evitino di far crescere il bisogno di assistenza da parte delle RSA, le quali a un certo punto potrebbero non riuscire più a rispondere. Pensare, cioè, a una filiera dei servizi che permetta alla popolazione più fragile di non trasformarsi tutti in anziani non autosufficienti, con il rischio che le strutture sociosanitarie implodano». 

Cos’è la filiera dei servizi

Per filiera dei servizi si intende una rete territoriale che offra diversi percorsi di assistenza e cura per la gestione della cronicità, della neurodegeneratività e della disabilità nell’anziano, oltre che un supporto e un punto di riferimento per le famiglie che se ne occupano. La non autosufficienza attraversa infatti diverse fasi, caratterizzate da bisogni e necessità specifiche, che variano anche in base alla persona stessa. Uno scenario complesso al quale si può far fronte costruendo un sistema flessibile, dove gli interventi erogati da enti pubblici e privati formino un unico insieme, includendo anche quelli che i caregivers mettono in atto. In questo modo si ottengono un accompagnamento e un supporto più mirato, con la valorizzazione e l’integrazione delle diverse competenze, riuscendo anche a convogliare meglio le risorse economiche disponibili. 

«Siamo impegnati da tempo a immaginare le RSA come luoghi aperti e non terminali, ovvero non come l’ultima risposta possibile messa in campo dal sistema sanitario – commenta Rao. – Sono piuttosto un presidio sociosanitario della comunità e al servizio della comunità, non solo delle persone accolte al suo interno. Una prospettiva che le pone chiaramente all’interno di una nuova filiera dei servizi, che non si riduca solo all’intervento a domicilio o alla struttura residenziale, ma che possa offrire anche delle risposte intermedie a questi due poli opposti»

.Nel dicembre 2019, dunque addirittura prima che la pandemia da Covid-19 facesse emergere tutti i problemi di cui si discute oggi, una ricerca di Euricse (European Research Institute on Cooperative and Social Enterprises) sottolineava come: «Nella fase di riflessione sui servizi da integrare e da generare, e nell’idea di creare una vera e propria filiera di interventi, si deve in primo luogo agire sulla piena comprensione della domanda: si deve cioè declinare cosa determina nello specifico sia l’elevata eterogeneità dei bisogni della popolazione anziana, sia la variabile di questi bisogni. Il processo di invecchiamento si caratterizza infatti per continui cambiamenti che fanno vivere, nella maggior parte dei casi, la dimensione del limite in modo progressivo o talvolta brusco, con momento di passaggio quindi eterogeneamente lunghi e prevedibili da una vita indipendente a una assistita. Da qui la comprensione che una filiera di servizio efficiente ed efficace dovrebbe offrire un’ampia gamma di possibili interventi, così come un’elevata flessibilità nella loro erogazione». 

Il ruolo delle RSA

Nell’ottica della costruzione di una rete dove le RSA rappresentino dei nodi cruciali, anche le strutture dovranno accettare di trasformarsi. Il direttore dell’ISRAA di Treviso suggerisce che diventino delle “parrocchie laiche del sociosanitario”: «Se vogliamo realizzare questo sistema e dare la possibilità alle persone di muoversi all’interno della filiera in base alle loro necessità, i territori devono arricchirsi e le RSA diventare più moderne soprattutto dal punto di vista culturale – chiarisce. – Sono servizi strutturati h24 e 365 giorni all’anno che possono quindi diventare dei punti di riferimento.  A me piacerebbe che nel territorio di Treviso e dintorni si guardasse all’ISRAA nello stesso modo in cui 50 anni fa guardava al parroco quando si aveva un problema: ho una necessità legata all’invecchiamento, mi rivolgo a una struttura per capire cosa posso fare. L’RSA diventa quindi un centro servizi che non vive solo grazie alle rette che riceve, ma attraverso il sistema che si crea, composto anche da assistenza domiciliare, co-housing e progettazioni sulla ricostruzione della comunità». 

Giorgio Pavan fa riferimento a un esperimento in corso proprio nella sua provincia, partito con l’adozione del SAD (Servizio assistenza domiciliare) che l’ISRAA gestisce per conto di 6 comuni. «Con l’innovazione della rete Alzheimer seguiamo a domicilio 600 famiglie con persone affette da demenza – aggiunge, – e abbiamo costruito 26 appartamenti già abitati sui 44 presenti nei 7 co-housing di Treviso. Abbiamo 335 domande di accesso per 45 posti». E un’ultima integrazione, per la quale proprio l’emergenza sanitaria ha dato spunto, sarà l’assistenza da remoto grazie all’innovazione tecnologica. Un’aggiunta che potrebbe anche rendere più fluida e semplice la gestione dell’intera rete.  «La cronicità non fa solo rima con sanità, ma si declina anche in termini di assistenza, cioè il nostro ambito».

Carmine di Palma entra ancora più nello specifico rispetto al ruolo delle RSA, che vede in un’ottica più dinamica: «Dovremmo pensare alle strutture residenziali come una parte integrata nella rete sociosanitaria, ma in una prospettiva circolare, dove non siano per forza il luogo finale in cui vengono accolti gli anziani. Possono infatti rappresentare anche una realtà che interviene e ospita in un momento di acuzie. E, perché no, una volta superato, la persona può tornare al proprio domicilio. Questo meccanismo creerebbe due elementi di virtuosità: prima di tutto, la progettualità passerebbe da “morente” ad attiva a breve termine e, in secondo luogo, l’RSA sarebbe inserita nell’ambito di una progettazione territoriale e non posta ai margini».

LivEAS: cosa sono e perché ce n’è bisogno

I LivEAS sono i Livelli Essenziali di Assistenza Sociale di cui si parla per la prima volta nella legge 328 del 2000, il cui intento era quello di garantire diritti sociali e civili uguali e uniformi su tutto il territorio nazionale. Proprio come i Lea stabiliscono le prestazioni e i servizi sanitari che ogni cittadino può ottenere dal Sistema sanitario nazionale, i LivEAS fanno altrettanto per quanto riguarda l’aspetto sociale. Ma come fa notare la professoressa Annalisa Gualdani sul sito Aggiornamentisociali.it: «A distanza di anni dall’approvazione della riforma costituzionale del 2001, lo Stato non ha provveduto alla determinazione legislativa dei livelli essenziali delle prestazioni a tutela dei diritti civili e sociali. Il problema è tutt’altro che teorico: la mancata definizione del suo contenuto impedisce ai titolari di un diritto di pretendere l’erogazione delle prestazioni necessarie a garantirne il godimento». E aggiunge: «Nel corso degli anni le Regioni hanno tentato di rimediare a tale inadempienza, individuandone autonomamente alcuni, contribuendo però allo stesso tempo a svuotare l’intento egualitario del testo costituzionale».

Di fronte alla possibilità di dar vita a una rete territoriale che venga riprodotta in modo simile in tutte le aree del Paese, Salvatore Rao de La Bottega del Possibile richiama l’attenzione proprio sull’urgenza di varare questi livelli: «Oggi ci sono le risorse per poterlo fare e noi dobbiamo farci dei portavoce. È chiaro che occorra rifinanziare e adeguare il fondo per il Servizio sanitario nazionale, ma le risorse economiche devono essere orientate anche per dare maggiore sostegno al sociale. Per questo motivo, dobbiamo alzare la voce».

La proposta è quella di «desanitanizzare il tema della salute», per introdurre un paradigma nel quale sia compresa anche la componente sociale e nel quale non si concepisca più la salute come un fatto prevalentemente individuale, ma diventi una questione collettiva. «Si porti avanti l’idea di salute comunitaria, rimettendo al centro dell’intervento proprio la comunità e dando responsabilità agli amministratori locali, come i sindaci», aggiunge Rao. 

«I LivEAS c’erano, ma non sono mai stati realizzati – ribadisce Franco Iurlaro, direttore dell’IPAB “Luigi Mariutto” di Mirano, nella città metropolitana di Venezia. – Allora, portiamoli a compimento! Una rivoluzione passa anche attraverso la realizzazione e il funzionamento dell’idea che era stata immaginata. Valorizziamo quindi tutte le buone esperienze culturali che sono sparse sul nostro territorio, per scuotere le coscienze di chi non ci ha pensato. Facciamole conoscere in tutta Italia, da Nord a Sud, per recuperare il valore della persona non solo anziana, ma anche fragile e disabile». Iurlaro sottolinea in particolare l’urgenza di una rivoluzione delle coscienze: «Nel 1978 è stata emanata la Legge Basaglia, sulla base di un’esperienza iniziata 10 anni prima. In tutto sono serviti 30 anni per completare la riforma psichiatrica, ovvero per chiudere i manicomi e aprire centri di salute mentale. Questo è il momento di un altro grande cambiamento, non violento: una rivoluzione delle coscienze che parta anche dalla disobbedienza civile, dove necessario. Piccole e grandi disobbedienze, come quelle di Franco Basaglia all’epoca, possono dare un input per aiutare a uscire da questo tunnel. Oggi dovrebbe essere più semplice e veloce, ma bisogna prima di tutto che qualcuno se ne occupi». 

Sanitario e sociale

«Non si può pensare che l’unico elemento che possa essere messo al centro della cura sia la salute fisica – fa notare Carmine di Palma. – Ormai tutte le ricerche scientifiche dimostrano che la dimensione relazionale è fondamentale nella cura, perché senza di essa, gli anziani soffrono, pur con tutte le terapie che gli possiamo somministrare». Questa presa di coscienza dimostra come l’equilibrio tra l’aspetto sanitario e quello sociale sia delicato, soprattutto in una RSA dove si gestisce la cronicità, la quotidianità della malattia. 

Lo dimostra proprio quello che lo stesso di Palma racconta rispetto alla sua esperienza in Toscana, dove una delibera regionale ha stabilito che le strutture residenziali debbano essere divise tra total covid e covid-free. Di conseguenza, se si verifica un piccolo focolaio all’interno di una RSA, questa verrà presa in carico dall’ASL territoriale per quanto riguarda l’intero comparto sanitario.  «Ci siamo accorti che la dimensione sociale-relazionale, così, spariva. È rimasta solo per quanto riguarda il mantenimento dei rapporti con i famigliari. Il sanitario va dunque mediato e non deve surclassare il sociale, che per noi è elemento fondamentale della cura».

«Secondo me non dobbiamo fare l’errore di contrapporre questi due ambiti – sottolinea Salvatore Rao, – perché abbiamo bisogno di unire questi due comparti e non certo di separarli: per pendersi cura della persona sono necessari entrambi. La pandemia ha posto il tema di come rendere possibile l’assistenza in luoghi che garantiscano la sicurezza e questo mette in discussione l’intero sistema e non solo una parte, ovvero le RSA. Dobbiamo allora immaginare una riorganizzazione generale. Siamo dentro a un cantiere dei servizi che verranno e che ancora non sono, dove dobbiamo portare il nostro contributo». 

Il ruolo della politica

Ma come si porta questo contributo? Giorgio Pavan parla di tre livelli sui quali bisogna agire: politico-istituzionale, dirigenziale-organizzativo e operativo. Ed è soprattutto il primo che si è cercato di affrontare durante questo gruppo di studio, in quanto appare come lo scoglio più difficile da superare: la politica, in poche parole, non mostra interesse nei confronti delle RSA che percepisce come l’ultimo anello di una catena. Strutture nelle quali gli anziani trascorrono semplicemente l’ultima parte della loro vita. «Il problema è mostrare questa visione a chi non ce l’ha e trovare quindi gli strumenti giusti per poter immaginare assieme un orizzonte possibile. E poi serve un planning economico concreto e reale, non idee che non stanno in piedi».

E un tavolo al quale presentare le proprie istanze e ottenere delle risposte c’è, è quello della Conferenza Stato-Regioni. «Si era già riunita per definire un unico inquadramento per l’OSS – ricorda Iurlaro, – Può quindi essere un luogo in cui si adottano delle linee guida nazionali, salvaguardando allo stesso tempo anche l’autonomia delle regioni». È necessario, come si diceva all’inizio, far sentire la propria voce, senza timore di “fare politica”: «Noi tecnici da anni facciamo anche politica – aggiunge, – perché avanziamo proposte, diamo suggerimenti, consigliamo. Ciascuno di noi, però, deve assumersi la responsabilità e interagire con i politici a lui più vicini, per avviare un cambiamento». 

«È più facile integrarsi con la base – conferma Pavan – perché è più a contatto con le persone e ha meno da perdere, soprattutto in termini di consenso. Io credo che ci sia soprattutto la necessità di riscoprire il bene comune e fare lobby: se vogliamo davvero ottenere dei cambiamenti, dobbiamo unirci». 

E proprio sulla necessità di formare un movimento che abbia peso politico e culturale si chiude l’incontro: «Credo che la comunità della cura, quella operosa – conclude Salvarore Rao, – possa affermarsi e contrapporsi a quella rancorosa solo se gli operatori sapranno mettersi alla testa di un movimento. Proprio in un momento come questo, in cui siamo tutti grati verso gli operatori sanitari, ma c’è poco riconoscimento verso le figure che lavorano nel sociale. Solo noi possiamo assumere questo ruolo, non può essere demandato a nessun altro». 

Riferimenti sitografici

  1. Presidi residenziali socio-assistenziali e socio-sanitari: Posti letto per tipo di utenza e funzione di protezione sociale. ISTAT. 2018
  2. Integrazione nella filiera dei servizi agli anziani. Euricse.eu. 2019
  3. Liveas (Livelli essenziali di assistenza sociale). Aggiornamenti sociali. 2011

 

About the Author: Editrice Dapero

Casa Editrice Indipendente per una cultura condivisa nel settore dell’assistenza agli anziani.

Le RSA devono diventare centro servizi all’interno di un sistema sociosanitario che si prenda cura dell’anziano e della sua famiglia e che comprenda anche soluzioni come co-housing o assistenza domiciliare. È quanto emerge dal gruppo di studio organizzato il 19 novembre da Editrice Dapero.  

Le RSA non possono rimanere isole a sé stanti, devono diventare nodi cruciali all’interno di una filiera dei servizi che risponda ai diversi bisogni di anziani fragili o non autosufficienti e delle loro famiglie. È questo il messaggio più importante emerso dal gruppo di studio organizzato da Editrice Dapero giovedì 19 novembre. Hanno partecipato direttori e responsabili di diverse realtà che hanno raccontato le proprie esperienze e cercato una base comune dalla quale ripartire per cambiare il sistema sociosanitario e, soprattutto, per fare in modo che il mondo politico presti attenzione alle loro istanze. I partecipanti erano: Giorgio Pavan, direttore ISRAA della città di Treviso, Salvatore Rao, presidente de La Bottega del Possibile, Franco Iurlaro, direttore IPAB “Luigi Mariutto” di Mirano (Venezia), Carmine di Palma, responsabile tecnico del settore anziani della cooperativa “Giuseppe di Vittorio” di Firenze. Ha moderato l’incontro Renato Dapero, direttore editoriale della rivista CURA. 

RSA o assistenza domiciliare?

«Il problema vero non è la contrapposizione tra l’assistenza domiciliare e l’RSA – chiarisce subito Giorgio Pavan, – o la tendenza a voler valorizzare la prima rispetto alla seconda. Quello su cui si deve puntare l’attenzione in primis è sulla mancanza di più di 200mila posti letto per tutte quelle persone anziane che ne avrebbero bisogno e non hanno alternative, non hanno famiglie che le possano assistere». Secondo l’ISTAT la capacità di ricezione delle strutture sociosanitarie presenti sul territorio italiano per gli ospiti over 65 è di circa 254mila individui. Ma, come puntualizzava già nel 2018 Giuseppe Saronni, segretario della Fnp (Federazione nazionale pensionati) Cisl Lombardia per le provincie di Lecco e Monza Brianza, in un’intervista a Lecconotizie.com, la richiesta che si registra è praticamente doppia: 496mila in tutto. 

D’altro canto, anche sul fronte dell’ADI (Assistenza domiciliare integrata) le cifre non sono confortanti: sempre Fnp denuncia la presenza di 300mila utenti che ne avrebbero bisogno e non la ricevono. «Ogni persona ha diritto di vivere e di essere curata e assistita nel luogo che sente come casa – interviene Salvatore Rao – Ci tengo a precisare che per la Bottega del Possibile “casa” non è per forza il domicilio, ma ciò che l’anziano avverte come tale. È chiaro che abbiamo ancora molto da lavorare affinché le persone vengano accolte in luoghi dove si possano sentire “abitanti” e non “ospiti”. Purtroppo, però, il nostro servizio sanitario discrimina chi vuole ancora essere assistito nella propria abitazione. Vige infatti un sistema che pone questo sostegno in maniera diversa, a seconda che la persona sia inserita in una struttura, o rimanga al suo domicilio. In quest’ultimo contesto il Sistema sanitario nazionale non interviene e non sostiene quel prendersi cura. È un punto sul quale dobbiamo intervenire per richiamare la Sanità alle sue responsabilità». 

Quale ambito privilegiare dunque? RSA o assistenza domiciliare? «La questione è mal posta – risponde Carmine di Palma. – Le RSA fanno parte di un processo e non possono essere chiuse, perché la non autosufficienza che accogliamo non la si può eliminare. Una soluzione è invece costruire servizi sul territorio che evitino di far crescere il bisogno di assistenza da parte delle RSA, le quali a un certo punto potrebbero non riuscire più a rispondere. Pensare, cioè, a una filiera dei servizi che permetta alla popolazione più fragile di non trasformarsi tutti in anziani non autosufficienti, con il rischio che le strutture sociosanitarie implodano». 

Cos’è la filiera dei servizi

Per filiera dei servizi si intende una rete territoriale che offra diversi percorsi di assistenza e cura per la gestione della cronicità, della neurodegeneratività e della disabilità nell’anziano, oltre che un supporto e un punto di riferimento per le famiglie che se ne occupano. La non autosufficienza attraversa infatti diverse fasi, caratterizzate da bisogni e necessità specifiche, che variano anche in base alla persona stessa. Uno scenario complesso al quale si può far fronte costruendo un sistema flessibile, dove gli interventi erogati da enti pubblici e privati formino un unico insieme, includendo anche quelli che i caregivers mettono in atto. In questo modo si ottengono un accompagnamento e un supporto più mirato, con la valorizzazione e l’integrazione delle diverse competenze, riuscendo anche a convogliare meglio le risorse economiche disponibili. 

«Siamo impegnati da tempo a immaginare le RSA come luoghi aperti e non terminali, ovvero non come l’ultima risposta possibile messa in campo dal sistema sanitario – commenta Rao. – Sono piuttosto un presidio sociosanitario della comunità e al servizio della comunità, non solo delle persone accolte al suo interno. Una prospettiva che le pone chiaramente all’interno di una nuova filiera dei servizi, che non si riduca solo all’intervento a domicilio o alla struttura residenziale, ma che possa offrire anche delle risposte intermedie a questi due poli opposti»

.Nel dicembre 2019, dunque addirittura prima che la pandemia da Covid-19 facesse emergere tutti i problemi di cui si discute oggi, una ricerca di Euricse (European Research Institute on Cooperative and Social Enterprises) sottolineava come: «Nella fase di riflessione sui servizi da integrare e da generare, e nell’idea di creare una vera e propria filiera di interventi, si deve in primo luogo agire sulla piena comprensione della domanda: si deve cioè declinare cosa determina nello specifico sia l’elevata eterogeneità dei bisogni della popolazione anziana, sia la variabile di questi bisogni. Il processo di invecchiamento si caratterizza infatti per continui cambiamenti che fanno vivere, nella maggior parte dei casi, la dimensione del limite in modo progressivo o talvolta brusco, con momento di passaggio quindi eterogeneamente lunghi e prevedibili da una vita indipendente a una assistita. Da qui la comprensione che una filiera di servizio efficiente ed efficace dovrebbe offrire un’ampia gamma di possibili interventi, così come un’elevata flessibilità nella loro erogazione». 

Il ruolo delle RSA

Nell’ottica della costruzione di una rete dove le RSA rappresentino dei nodi cruciali, anche le strutture dovranno accettare di trasformarsi. Il direttore dell’ISRAA di Treviso suggerisce che diventino delle “parrocchie laiche del sociosanitario”: «Se vogliamo realizzare questo sistema e dare la possibilità alle persone di muoversi all’interno della filiera in base alle loro necessità, i territori devono arricchirsi e le RSA diventare più moderne soprattutto dal punto di vista culturale – chiarisce. – Sono servizi strutturati h24 e 365 giorni all’anno che possono quindi diventare dei punti di riferimento.  A me piacerebbe che nel territorio di Treviso e dintorni si guardasse all’ISRAA nello stesso modo in cui 50 anni fa guardava al parroco quando si aveva un problema: ho una necessità legata all’invecchiamento, mi rivolgo a una struttura per capire cosa posso fare. L’RSA diventa quindi un centro servizi che non vive solo grazie alle rette che riceve, ma attraverso il sistema che si crea, composto anche da assistenza domiciliare, co-housing e progettazioni sulla ricostruzione della comunità». 

Giorgio Pavan fa riferimento a un esperimento in corso proprio nella sua provincia, partito con l’adozione del SAD (Servizio assistenza domiciliare) che l’ISRAA gestisce per conto di 6 comuni. «Con l’innovazione della rete Alzheimer seguiamo a domicilio 600 famiglie con persone affette da demenza – aggiunge, – e abbiamo costruito 26 appartamenti già abitati sui 44 presenti nei 7 co-housing di Treviso. Abbiamo 335 domande di accesso per 45 posti». E un’ultima integrazione, per la quale proprio l’emergenza sanitaria ha dato spunto, sarà l’assistenza da remoto grazie all’innovazione tecnologica. Un’aggiunta che potrebbe anche rendere più fluida e semplice la gestione dell’intera rete.  «La cronicità non fa solo rima con sanità, ma si declina anche in termini di assistenza, cioè il nostro ambito».

Carmine di Palma entra ancora più nello specifico rispetto al ruolo delle RSA, che vede in un’ottica più dinamica: «Dovremmo pensare alle strutture residenziali come una parte integrata nella rete sociosanitaria, ma in una prospettiva circolare, dove non siano per forza il luogo finale in cui vengono accolti gli anziani. Possono infatti rappresentare anche una realtà che interviene e ospita in un momento di acuzie. E, perché no, una volta superato, la persona può tornare al proprio domicilio. Questo meccanismo creerebbe due elementi di virtuosità: prima di tutto, la progettualità passerebbe da “morente” ad attiva a breve termine e, in secondo luogo, l’RSA sarebbe inserita nell’ambito di una progettazione territoriale e non posta ai margini».

LivEAS: cosa sono e perché ce n’è bisogno

I LivEAS sono i Livelli Essenziali di Assistenza Sociale di cui si parla per la prima volta nella legge 328 del 2000, il cui intento era quello di garantire diritti sociali e civili uguali e uniformi su tutto il territorio nazionale. Proprio come i Lea stabiliscono le prestazioni e i servizi sanitari che ogni cittadino può ottenere dal Sistema sanitario nazionale, i LivEAS fanno altrettanto per quanto riguarda l’aspetto sociale. Ma come fa notare la professoressa Annalisa Gualdani sul sito Aggiornamentisociali.it: «A distanza di anni dall’approvazione della riforma costituzionale del 2001, lo Stato non ha provveduto alla determinazione legislativa dei livelli essenziali delle prestazioni a tutela dei diritti civili e sociali. Il problema è tutt’altro che teorico: la mancata definizione del suo contenuto impedisce ai titolari di un diritto di pretendere l’erogazione delle prestazioni necessarie a garantirne il godimento». E aggiunge: «Nel corso degli anni le Regioni hanno tentato di rimediare a tale inadempienza, individuandone autonomamente alcuni, contribuendo però allo stesso tempo a svuotare l’intento egualitario del testo costituzionale».

Di fronte alla possibilità di dar vita a una rete territoriale che venga riprodotta in modo simile in tutte le aree del Paese, Salvatore Rao de La Bottega del Possibile richiama l’attenzione proprio sull’urgenza di varare questi livelli: «Oggi ci sono le risorse per poterlo fare e noi dobbiamo farci dei portavoce. È chiaro che occorra rifinanziare e adeguare il fondo per il Servizio sanitario nazionale, ma le risorse economiche devono essere orientate anche per dare maggiore sostegno al sociale. Per questo motivo, dobbiamo alzare la voce».

La proposta è quella di «desanitanizzare il tema della salute», per introdurre un paradigma nel quale sia compresa anche la componente sociale e nel quale non si concepisca più la salute come un fatto prevalentemente individuale, ma diventi una questione collettiva. «Si porti avanti l’idea di salute comunitaria, rimettendo al centro dell’intervento proprio la comunità e dando responsabilità agli amministratori locali, come i sindaci», aggiunge Rao. 

«I LivEAS c’erano, ma non sono mai stati realizzati – ribadisce Franco Iurlaro, direttore dell’IPAB “Luigi Mariutto” di Mirano, nella città metropolitana di Venezia. – Allora, portiamoli a compimento! Una rivoluzione passa anche attraverso la realizzazione e il funzionamento dell’idea che era stata immaginata. Valorizziamo quindi tutte le buone esperienze culturali che sono sparse sul nostro territorio, per scuotere le coscienze di chi non ci ha pensato. Facciamole conoscere in tutta Italia, da Nord a Sud, per recuperare il valore della persona non solo anziana, ma anche fragile e disabile». Iurlaro sottolinea in particolare l’urgenza di una rivoluzione delle coscienze: «Nel 1978 è stata emanata la Legge Basaglia, sulla base di un’esperienza iniziata 10 anni prima. In tutto sono serviti 30 anni per completare la riforma psichiatrica, ovvero per chiudere i manicomi e aprire centri di salute mentale. Questo è il momento di un altro grande cambiamento, non violento: una rivoluzione delle coscienze che parta anche dalla disobbedienza civile, dove necessario. Piccole e grandi disobbedienze, come quelle di Franco Basaglia all’epoca, possono dare un input per aiutare a uscire da questo tunnel. Oggi dovrebbe essere più semplice e veloce, ma bisogna prima di tutto che qualcuno se ne occupi». 

Sanitario e sociale

«Non si può pensare che l’unico elemento che possa essere messo al centro della cura sia la salute fisica – fa notare Carmine di Palma. – Ormai tutte le ricerche scientifiche dimostrano che la dimensione relazionale è fondamentale nella cura, perché senza di essa, gli anziani soffrono, pur con tutte le terapie che gli possiamo somministrare». Questa presa di coscienza dimostra come l’equilibrio tra l’aspetto sanitario e quello sociale sia delicato, soprattutto in una RSA dove si gestisce la cronicità, la quotidianità della malattia. 

Lo dimostra proprio quello che lo stesso di Palma racconta rispetto alla sua esperienza in Toscana, dove una delibera regionale ha stabilito che le strutture residenziali debbano essere divise tra total covid e covid-free. Di conseguenza, se si verifica un piccolo focolaio all’interno di una RSA, questa verrà presa in carico dall’ASL territoriale per quanto riguarda l’intero comparto sanitario.  «Ci siamo accorti che la dimensione sociale-relazionale, così, spariva. È rimasta solo per quanto riguarda il mantenimento dei rapporti con i famigliari. Il sanitario va dunque mediato e non deve surclassare il sociale, che per noi è elemento fondamentale della cura».

«Secondo me non dobbiamo fare l’errore di contrapporre questi due ambiti – sottolinea Salvatore Rao, – perché abbiamo bisogno di unire questi due comparti e non certo di separarli: per pendersi cura della persona sono necessari entrambi. La pandemia ha posto il tema di come rendere possibile l’assistenza in luoghi che garantiscano la sicurezza e questo mette in discussione l’intero sistema e non solo una parte, ovvero le RSA. Dobbiamo allora immaginare una riorganizzazione generale. Siamo dentro a un cantiere dei servizi che verranno e che ancora non sono, dove dobbiamo portare il nostro contributo». 

Il ruolo della politica

Ma come si porta questo contributo? Giorgio Pavan parla di tre livelli sui quali bisogna agire: politico-istituzionale, dirigenziale-organizzativo e operativo. Ed è soprattutto il primo che si è cercato di affrontare durante questo gruppo di studio, in quanto appare come lo scoglio più difficile da superare: la politica, in poche parole, non mostra interesse nei confronti delle RSA che percepisce come l’ultimo anello di una catena. Strutture nelle quali gli anziani trascorrono semplicemente l’ultima parte della loro vita. «Il problema è mostrare questa visione a chi non ce l’ha e trovare quindi gli strumenti giusti per poter immaginare assieme un orizzonte possibile. E poi serve un planning economico concreto e reale, non idee che non stanno in piedi».

E un tavolo al quale presentare le proprie istanze e ottenere delle risposte c’è, è quello della Conferenza Stato-Regioni. «Si era già riunita per definire un unico inquadramento per l’OSS – ricorda Iurlaro, – Può quindi essere un luogo in cui si adottano delle linee guida nazionali, salvaguardando allo stesso tempo anche l’autonomia delle regioni». È necessario, come si diceva all’inizio, far sentire la propria voce, senza timore di “fare politica”: «Noi tecnici da anni facciamo anche politica – aggiunge, – perché avanziamo proposte, diamo suggerimenti, consigliamo. Ciascuno di noi, però, deve assumersi la responsabilità e interagire con i politici a lui più vicini, per avviare un cambiamento». 

«È più facile integrarsi con la base – conferma Pavan – perché è più a contatto con le persone e ha meno da perdere, soprattutto in termini di consenso. Io credo che ci sia soprattutto la necessità di riscoprire il bene comune e fare lobby: se vogliamo davvero ottenere dei cambiamenti, dobbiamo unirci». 

E proprio sulla necessità di formare un movimento che abbia peso politico e culturale si chiude l’incontro: «Credo che la comunità della cura, quella operosa – conclude Salvarore Rao, – possa affermarsi e contrapporsi a quella rancorosa solo se gli operatori sapranno mettersi alla testa di un movimento. Proprio in un momento come questo, in cui siamo tutti grati verso gli operatori sanitari, ma c’è poco riconoscimento verso le figure che lavorano nel sociale. Solo noi possiamo assumere questo ruolo, non può essere demandato a nessun altro». 

Riferimenti sitografici

  1. Presidi residenziali socio-assistenziali e socio-sanitari: Posti letto per tipo di utenza e funzione di protezione sociale. ISTAT. 2018
  2. Integrazione nella filiera dei servizi agli anziani. Euricse.eu. 2019
  3. Liveas (Livelli essenziali di assistenza sociale). Aggiornamenti sociali. 2011

 

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