Esistono popoli più adatti di altri alla cura o esistono sguardi diversi sulla cura che devono imparare a comprendersi?

Anna è una OSS di 41 anni che lavora presso la Fondazione A. E. Cerino Zegna di Occhieppo Inferiore (Biella). Arrivata in Italia 14 anni fa dalla Bielorussia, ci consegna un punto di vista per noi inedito su ciò che può dare soddisfazione nel lavoro di cura.

Osservare le regole” è ciò che la gratifica; la sua storia è ciò che ci permette di comprendere la peculiarità di questo sguardo sulla cura.

In viaggio per una nuova vita

Per calarci meglio nei panni di Anna, è bene cominciare dal viaggio che la portò in Italia nel dicembre 2010.

Un viaggio che inizia con una traversata in treno di 12 ore da Minsk, capitale della Bielorussia, fino a Varsavia, in Polonia, dove avrebbe potuto prendere l’aereo per l’Italia solo il giorno dopo.

“Quando scesi dal treno, non sapevo dove andare e come fare per passare la notte”, mi racconta.

“Per puro caso sentii una donna parlare in Russo, così chiesi aiuto a lei. Si chiamava Maria e mi offrì di passare la notte a casa sua. Avevo paura, ma mi sono fidata. Il giorno dopo fu lei ad accompagnarmi all’aeroporto”.

Anna arriva in aeroporto con un paio di stivali consumati, che si aprono a fatica, e con la suola completamente logora per aver camminato a lungo sulla neve. In cuor suo spera che non le chiedano di toglierli al metaldetector.

Sta andando da sua zia, che vive già in Italia, e che la ospiterà per un primo tempo della sua permanenza.

Intanto, in Bielorussia ha lasciato suo figlio di 9 anni, affidato temporaneamente alle cure della nonna, sua madre.

Anna cerca una nuova vita per lei e per suo figlio, per lasciarsi alle spalle un divorzio e un lavoro in ambito assistenziale gravemente sottopagato:

Prendevo l’equivalente di circa 130 euro al mese”, mi riferisce, “per fare assistenza in una clinica psichiatrica di soli uomini. Un lavoro molto pesante e, alle volte, anche pericoloso”.

L’importanza di osservare le regole nei luoghi di cura

L’esperienza nell’istituto psichiatrico sarà uno degli elementi fondamentali che darà forma al suo approccio assistenziale incentrato sull’ossequio alla regola; approccio che manterrà in gran parte anche nel suo lavoro come OSS in RSA.

“So che di nascosto alcuni colleghi mi hanno soprannominata ‘Matrioska’, per prendere in giro il mio essere un po’ rigida e schematica nel mio lavoro quotidiano in reparto”, mi riferisce, mostrandomi nel frattempo come abbia scavato dentro di sé, nella sua storia e nella sua identità, per dare senso a questo suo specifico modo di porsi.

Prima ancora dell’esperienza in Istituto – “dove dovevamo stare attentissime a tutto, non doveva entrare nessun oggetto potenzialmente pericoloso, nemmeno un chiodo”, mi dice – è infatti la sua cultura famigliare di origine ad aver giocato un ruolo importante:

“Sono la seconda di 6 figli, ma sono la femmina più grande, per cui tutte le faccende di casa toccavano a me, compreso l’accudimento dei miei fratelli.

Inoltre, sono una ragazza cresciuta in campagna, dove c’era tantissimo da fare: avevamo le bestie e i campi, bisognava alzarsi presto e lavorare moltissimo; era possibile farlo solo seguendo le regole.

Mi davano le regole e io le seguivo, funzionava così.

Sono diventata severa, me ne rendo conto, ma se non seguo le regole io non mi sento a posto con la coscienza.

Mio padre, a sua volta, era un uomo molto duro. Ricordo che appena lo sentivo rincasare correvo di sopra, in camera mia, per riordinare velocemente prima che lui venisse a vederla.

Oggi sto cercando di imparare dalle mie colleghe italiane a essere più leggera e a lasciare andare, ma non è facile”.

La cura dei bisogni primari

Dopo aver ascoltato con attenzione il suo racconto, comprendo meglio anche il suo punto di vista su ciò che più le dà soddisfazione nel suo lavoro:

“la soddisfazione più grande per me è riuscire a far mangiare, bere e andare di corpo le persone che normalmente non lo fanno. Sono soddisfatta quando, seguendo le regole, riesco a far sì che le persone possano vedere soddisfatti i propri bisogni primari”.

È per me questa una posizione che “esce dal copione” delle risposte che tipicamente mi sento dare dai professionisti di RSA – specialmente OSS e infermieri – che solitamente riportano nella relazione la soddisfazione più grande nel loro lavoro.

E tuttavia sento genuina empatia e premura nelle sue parole: mi sembra solo un modo più fisico e concreto di avere attenzione per l’altro.

La cura in situazioni di emergenza e il lavoro di gruppo

D’altra parte, Anna mi spiega come dietro il suo bisogno di avere ordine nei corridoi o nel salotto della struttura, si celi anche il suo desiderio di consentire alle persone anziane in carrozzina di muoversi in maggiore sicurezza all’interno di ambienti che sono piccoli, così come di potersi guardare attorno, “per osservare la pioggia o il viso delle altre persone, piuttosto che il muro”.

Vorrei inoltre che si riconoscesse che magari c’è altro in cui posso essere molto brava”, mi spiega, raccontandomi di come, per esempio, si sia rivelata molto abile nel gestire svariate situazioni di emergenza, in particolare durante il periodo pandemico acuto.

“Quando ci sono situazioni in cui una persona è tra la vita e la morte, per esempio, io non vado nel panico. Più volte ho preso in mano io la situazione in casi del genere, supportando i miei colleghi spaventati e dando loro le direttive”.

Il lavoro in équipe dopo tutto dovrebbe proprio essere un incontro tra abilità diverse, ma complementari tra loro, dove più alta è l’umiltà e la capacità di ascolto di ogni professionista coinvolto e maggiore è l’efficacia del lavoro di gruppo nel suo complesso.

Lo sguardo di tutti dovrebbe restare sempre e solo sull’obiettivo  – il bene della persona assistita – e non perdersi in inutili giudizi o in invidie reciproche tra pari.

Anna mi confida invece che proprio l’inserimento nel gruppo di lavoro è stato per lei l’aspetto più difficile:

“Ci sono tante difficoltà nel nostro lavoro di OSS in RSA: manca personale, spesso mancano i materiali; poi c’è l’incontro con i parenti che molte volte non è facile… ma il clima con i colleghi è l’aspetto più importante, che permette di superare ogni ostacolo se è buono e che ti fa invece lavorare con un peso enorme per tutto il turno, se non lo è”.

Guardare dentro alla matrioska

È più facile, lo sappiamo, abbandonarsi a pregiudizi e stereotipi, giudicando negativamente un approccio che è magari solo culturalmente distante da quello a cui siamo abituati.

Quante volte abbiamo sentito dire che “le persone dell’Est sono più dure” o che “sono meno adatte per la cura rispetto alle persone che provengono da altri Paesi, come per esempio dall’America del Sud”?

In termini di cultura della cura, quanto c’è di oggettivo e quanto ha invece solo a che fare con le nostre abitudini, appunto?

Le differenze per altro non mancano nemmeno con la cultura della cura sudamericana, si veda per esempio l’intervista alle OSS Colombiane Olga e Nelly, in cui emerge un punto di vista peculiare, in particolare in termini di accompagnamento alla morte.

È decisamente più difficile ascoltare a fondo e predisporsi ad accogliere la storia di una persona che incarna questa specifica cultura “ex-sovietica” (termine che ha usato la stessa intervistata per definirla).

Quella di Anna è anche la storia di una donna che si è messa in discussione, che ha fatto un percorso dentro di sé per imparare ad adattarsi a un contesto culturale differente.

Da un lato questo le fa onore, ma dall’altro ci suggerisce che dovremmo anche sforzarci di rendere i nostri contesti di cura più accoglienti delle diversità che ogni persona in servizio porta con sé.

Aver cura di chi cura” significa anche questo.

La speranza è che i nostri servizi per anziani non si limitino a essere solo un crocevia di mondi – come il nome di questa rubrica suggerisce – ma diventino vere e proprie fucine di quella multiculturalità che può arricchire e far evolvere il nostro Paese.

La storia di Anna è un invito ad aprirsi e a “imparare ad aprire”, per svelare infine anche l’altra faccia della matrioska: quella che ci insegna che c’è sempre molto di più dentro e oltre al primo involucro esterno che tocchiamo con mano.

About the Author: Giulia Dapero

Giulia Dapero
Direttrice editoriale CURA _ Co-founder Editrice Dapero

Esistono popoli più adatti di altri alla cura o esistono sguardi diversi sulla cura che devono imparare a comprendersi?

Anna è una OSS di 41 anni che lavora presso la Fondazione A. E. Cerino Zegna di Occhieppo Inferiore (Biella). Arrivata in Italia 14 anni fa dalla Bielorussia, ci consegna un punto di vista per noi inedito su ciò che può dare soddisfazione nel lavoro di cura.

Osservare le regole” è ciò che la gratifica; la sua storia è ciò che ci permette di comprendere la peculiarità di questo sguardo sulla cura.

In viaggio per una nuova vita

Per calarci meglio nei panni di Anna, è bene cominciare dal viaggio che la portò in Italia nel dicembre 2010.

Un viaggio che inizia con una traversata in treno di 12 ore da Minsk, capitale della Bielorussia, fino a Varsavia, in Polonia, dove avrebbe potuto prendere l’aereo per l’Italia solo il giorno dopo.

“Quando scesi dal treno, non sapevo dove andare e come fare per passare la notte”, mi racconta.

“Per puro caso sentii una donna parlare in Russo, così chiesi aiuto a lei. Si chiamava Maria e mi offrì di passare la notte a casa sua. Avevo paura, ma mi sono fidata. Il giorno dopo fu lei ad accompagnarmi all’aeroporto”.

Anna arriva in aeroporto con un paio di stivali consumati, che si aprono a fatica, e con la suola completamente logora per aver camminato a lungo sulla neve. In cuor suo spera che non le chiedano di toglierli al metaldetector.

Sta andando da sua zia, che vive già in Italia, e che la ospiterà per un primo tempo della sua permanenza.

Intanto, in Bielorussia ha lasciato suo figlio di 9 anni, affidato temporaneamente alle cure della nonna, sua madre.

Anna cerca una nuova vita per lei e per suo figlio, per lasciarsi alle spalle un divorzio e un lavoro in ambito assistenziale gravemente sottopagato:

Prendevo l’equivalente di circa 130 euro al mese”, mi riferisce, “per fare assistenza in una clinica psichiatrica di soli uomini. Un lavoro molto pesante e, alle volte, anche pericoloso”.

L’importanza di osservare le regole nei luoghi di cura

L’esperienza nell’istituto psichiatrico sarà uno degli elementi fondamentali che darà forma al suo approccio assistenziale incentrato sull’ossequio alla regola; approccio che manterrà in gran parte anche nel suo lavoro come OSS in RSA.

“So che di nascosto alcuni colleghi mi hanno soprannominata ‘Matrioska’, per prendere in giro il mio essere un po’ rigida e schematica nel mio lavoro quotidiano in reparto”, mi riferisce, mostrandomi nel frattempo come abbia scavato dentro di sé, nella sua storia e nella sua identità, per dare senso a questo suo specifico modo di porsi.

Prima ancora dell’esperienza in Istituto – “dove dovevamo stare attentissime a tutto, non doveva entrare nessun oggetto potenzialmente pericoloso, nemmeno un chiodo”, mi dice – è infatti la sua cultura famigliare di origine ad aver giocato un ruolo importante:

“Sono la seconda di 6 figli, ma sono la femmina più grande, per cui tutte le faccende di casa toccavano a me, compreso l’accudimento dei miei fratelli.

Inoltre, sono una ragazza cresciuta in campagna, dove c’era tantissimo da fare: avevamo le bestie e i campi, bisognava alzarsi presto e lavorare moltissimo; era possibile farlo solo seguendo le regole.

Mi davano le regole e io le seguivo, funzionava così.

Sono diventata severa, me ne rendo conto, ma se non seguo le regole io non mi sento a posto con la coscienza.

Mio padre, a sua volta, era un uomo molto duro. Ricordo che appena lo sentivo rincasare correvo di sopra, in camera mia, per riordinare velocemente prima che lui venisse a vederla.

Oggi sto cercando di imparare dalle mie colleghe italiane a essere più leggera e a lasciare andare, ma non è facile”.

La cura dei bisogni primari

Dopo aver ascoltato con attenzione il suo racconto, comprendo meglio anche il suo punto di vista su ciò che più le dà soddisfazione nel suo lavoro:

“la soddisfazione più grande per me è riuscire a far mangiare, bere e andare di corpo le persone che normalmente non lo fanno. Sono soddisfatta quando, seguendo le regole, riesco a far sì che le persone possano vedere soddisfatti i propri bisogni primari”.

È per me questa una posizione che “esce dal copione” delle risposte che tipicamente mi sento dare dai professionisti di RSA – specialmente OSS e infermieri – che solitamente riportano nella relazione la soddisfazione più grande nel loro lavoro.

E tuttavia sento genuina empatia e premura nelle sue parole: mi sembra solo un modo più fisico e concreto di avere attenzione per l’altro.

La cura in situazioni di emergenza e il lavoro di gruppo

D’altra parte, Anna mi spiega come dietro il suo bisogno di avere ordine nei corridoi o nel salotto della struttura, si celi anche il suo desiderio di consentire alle persone anziane in carrozzina di muoversi in maggiore sicurezza all’interno di ambienti che sono piccoli, così come di potersi guardare attorno, “per osservare la pioggia o il viso delle altre persone, piuttosto che il muro”.

Vorrei inoltre che si riconoscesse che magari c’è altro in cui posso essere molto brava”, mi spiega, raccontandomi di come, per esempio, si sia rivelata molto abile nel gestire svariate situazioni di emergenza, in particolare durante il periodo pandemico acuto.

“Quando ci sono situazioni in cui una persona è tra la vita e la morte, per esempio, io non vado nel panico. Più volte ho preso in mano io la situazione in casi del genere, supportando i miei colleghi spaventati e dando loro le direttive”.

Il lavoro in équipe dopo tutto dovrebbe proprio essere un incontro tra abilità diverse, ma complementari tra loro, dove più alta è l’umiltà e la capacità di ascolto di ogni professionista coinvolto e maggiore è l’efficacia del lavoro di gruppo nel suo complesso.

Lo sguardo di tutti dovrebbe restare sempre e solo sull’obiettivo  – il bene della persona assistita – e non perdersi in inutili giudizi o in invidie reciproche tra pari.

Anna mi confida invece che proprio l’inserimento nel gruppo di lavoro è stato per lei l’aspetto più difficile:

“Ci sono tante difficoltà nel nostro lavoro di OSS in RSA: manca personale, spesso mancano i materiali; poi c’è l’incontro con i parenti che molte volte non è facile… ma il clima con i colleghi è l’aspetto più importante, che permette di superare ogni ostacolo se è buono e che ti fa invece lavorare con un peso enorme per tutto il turno, se non lo è”.

Guardare dentro alla matrioska

È più facile, lo sappiamo, abbandonarsi a pregiudizi e stereotipi, giudicando negativamente un approccio che è magari solo culturalmente distante da quello a cui siamo abituati.

Quante volte abbiamo sentito dire che “le persone dell’Est sono più dure” o che “sono meno adatte per la cura rispetto alle persone che provengono da altri Paesi, come per esempio dall’America del Sud”?

In termini di cultura della cura, quanto c’è di oggettivo e quanto ha invece solo a che fare con le nostre abitudini, appunto?

Le differenze per altro non mancano nemmeno con la cultura della cura sudamericana, si veda per esempio l’intervista alle OSS Colombiane Olga e Nelly, in cui emerge un punto di vista peculiare, in particolare in termini di accompagnamento alla morte.

È decisamente più difficile ascoltare a fondo e predisporsi ad accogliere la storia di una persona che incarna questa specifica cultura “ex-sovietica” (termine che ha usato la stessa intervistata per definirla).

Quella di Anna è anche la storia di una donna che si è messa in discussione, che ha fatto un percorso dentro di sé per imparare ad adattarsi a un contesto culturale differente.

Da un lato questo le fa onore, ma dall’altro ci suggerisce che dovremmo anche sforzarci di rendere i nostri contesti di cura più accoglienti delle diversità che ogni persona in servizio porta con sé.

Aver cura di chi cura” significa anche questo.

La speranza è che i nostri servizi per anziani non si limitino a essere solo un crocevia di mondi – come il nome di questa rubrica suggerisce – ma diventino vere e proprie fucine di quella multiculturalità che può arricchire e far evolvere il nostro Paese.

La storia di Anna è un invito ad aprirsi e a “imparare ad aprire”, per svelare infine anche l’altra faccia della matrioska: quella che ci insegna che c’è sempre molto di più dentro e oltre al primo involucro esterno che tocchiamo con mano.

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Giulia Dapero
Direttrice editoriale CURA _ Co-founder Editrice Dapero

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