Il numero 13 di Rivista Cura fa un focus sul tema dei desideri. Quali sono i miglioramenti possibili rispetto alle attività e agli ambienti di cura? Ne abbiamo parlato con vari professionisti. Li abbiamo intervistati perché il primo passo è dare voce a questi desideri. Aprire le porte alla comunità, si legge tra i desiderata della professionista di oggi. E aprire le porte per mostrare come si vive e cosa si desidera in una RSA.
Ringraziamo Simona Maini, animatrice presso una CRA di Vernasca, in provincia di Piacenza che ci ha offerto l’opportunità di parlare del suo lavoro e di quali siano, nella sua esperienza, i desideri in una RSA.
Buongiorno Simona, per iniziare le chiedo di presentarsi ai nostri lettori, di raccontarci il suo ruolo all’interno della struttura per cui lavora e da quanto tempo svolge questo lavoro.
Mi chiamo Simona e lavoro come animatrice in una struttura a Vernasca, un paesino sulle prime colline della provincia di Piacenza, in val d’Arda. Il paese di Vernasca è un posto, a parer mio, un po’ magico dove il passato (rappresentato alla perfezione dai resti della Pieve romanica dedicata a San Colombano) e il presente si sono intrecciati alla perfezione creando un complesso fiabesco. Gli anziani residenti mi hanno raccontato che nei giorni più limpidi dalla Pieve si vedono persino le guglie del duomo di Milano, oltre a una splendida carrellata delle alpi.
A giugno saranno sette anni che lavoro per l’Azienda Speciale Multiservizi del Comune di Vernasca, nella sede della CRA, come animatrice. Non potevo fare scelta migliore di questa! La struttura non è troppo grande e al suo interno ospita 49 persone a regime residenziale, suddivisi tra CRA e Comunità Alloggio. Offre anche la possibilità di ricevere utenza per i ricoveri sollievo e riabilitativi, oltre ad alcuni posti per il centro diurno.
La mia mansione principale è quella di animare gli anziani quotidianamente durante la loro permanenza e questo mi permette di creare dei legami che rimangono indissolubili nel tempo. Ogni giorno imparo qualcosa di nuovo da loro. Svolgere questo mestiere è di una ricchezza emotiva inestimabile.
Ha scelto espressamente di svolgere questo lavoro? Era un suo sogno, un suo desiderio, oppure ci sono state altre cause a portarla dove si trova ora?
Sono arrivata a svolgere questo mestiere in maniera un po’ casuale. La mia formazione scolastica è di tipo storico artistica avendo fatto beni culturali, ma dopo il liceo avevo scelto di frequentare un corso – che all’epoca figurava come un post-diploma – sull’animazione sociale, promosso da un ente regionale di formazione. Per un po’ ho accantonato quell’attestato. Contemporaneamente agli studi e al lavoro frequentavo un gruppo scout del mio paese: vivo a Fidenza, in provincia di Parma, e come servizio mi era stato proposto di trascorrere qualche pomeriggio al centro diurno per “far divertire” gli anziani nell’attesa del pulmino che li riaccompagnasse a casa. Questa esperienza mi ha aperto a un mondo ancora sconosciuto, super interessante e con l’aiuto della coordinatrice e dell’animatore ho cercato di imparare tutto il possibile. L’anno successivo mi è arrivata una proposta di servizio non più al centro diurno ma all’hospice. Qui il mio compito era affiancare la psicologa cercando di “alleggerire” il tempo del degente con attività dedicate alla singola persona. Ammetto che questo tipo di servizio mi ha fatto riflettere tantissimo e mi ha portato a scegliere di trasformare quello che facevo come volontariato in una professione.
Dopo diversi curricula mandati in giro, ed esperienze a breve termine nella provincia di Parma, sono approdata qui a Vernasca, dove ho trovato la mia stabilità.
Che idea si è fatta su quali siano, in realtà, i desideri dei residenti della RSA in cui lavora?
Nella struttura dove lavoro credo ci sia un’attenzione particolare alla nostra utenza, soprattutto nel mantenimento dell’identità della persona. Si cerca di fare di tutto per rispettare e riconoscere i desideri dei nostri residenti. Personalmente mi trovo bene nell’équipe multidisciplinare con cui collaboro. Non sono sempre rose e fiori, e le occasioni di discussioni non mancano. Ma le ritengo fondamentali per spronarci a migliorare. Credo fermamente che il dialogo e il confronto, coinvolgendo anche gli utenti e le rispettive reti familiari, ci aiuti ad avere visioni più sfaccettate, e ci permetta di lavorare al meglio su ogni identità.
A proposito di professionisti, quanto reputa importante che si dia ascolto ai loro (ai vostri) desideri?
Per quanto riguarda il personale OSS, personalmente sarei più tassativa sulle scelte che portano alcune persone a intraprendere questa professione perché non è assolutamente un lavoro semplice. Il rapporto di cura va fatto e va fatto bene, perché non si ha a che fare con degli oggetti (che bisognerebbe trattar bene anche loro) ma con esseri viventi. Che spesso hanno l’aggravante della malattia, e questo, in qualche modo, ne trasforma l’identità.
Quindi ci vuole ancora più pazienza e garbo nel prendersi cura di queste persone. Se ci si rende conto che non si riesce più a sopportare il carico lavorativo bisogna fare umilmente un passo indietro per il bene del curante e di sé stessi. Questa però è una problematica che si potrebbe evitare facendo più “selezione all’ingresso” essendo molto chiari nella formazione iniziale sui punti fondamentali del mestiere, non da ultimo quello remunerativo.
Ci sono difficoltà che possono riscontrarsi, a livello organizzativo, nel rispondere ai desideri dei residenti? Ricorda qualche episodio?
Ricordo, con ancora un po’ di angoscia nel cuore, il primo periodo di Covid, in cui le informazioni che arrivavano erano scarse e volubili ed era tutto un fare e disfare quotidiano. Avevamo, con gran fatica, rivoluzionato tutta la struttura per mantenere le distanze di sicurezza e tutelare più possibile gli ospiti. Tutte le attività erano state momentaneamente sospese, ma le richieste da parte dei nostri anziani di stare insieme e di fare le attività come prima erano all’ordine del giorno. Ci siamo interrogati su cosa fosse meglio per loro perché oltre alla salute fisica vedevamo che gli stati di apatia e di calo dell’umore aumentavano e si rischiava di cadere in un malcontento psicologico generale che andava ad appesantire la sensazione di instabilità e paura. Per cui abbiamo deciso di farci soccorrere dalla tecnologia progettando attività da remoto ripetuta per diversi piccoli gruppi, coinvolgendo gli esterni con cui solitamente collaboravo nei progetti di pet therapy, di letture di racconti e ascolti di musica legati alla lirica.
Infine, cosa desidera di più per il futuro delle RSA?
Un desiderio per il futuro della mia CRA sarebbe quello di una maggiore apertura. Chiederei alla mia coordinatrice, ma anche a tutto il personale lavorante, ai parenti dei nostri residenti e ai cittadini di Vernasca di prendere parte alla vita di struttura, vedere e vivere il luogo e chi lo abita come una ricchezza di memoria storica, costruire insieme nuovi percorsi creativi, artistici, letterari in modo che non rimanga semplicemente un luogo di cura, ma che diventi una residenza culturale fruibile a tutti.
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