Nell’intervista a Bernardo Franco(Direttore della Fondazione “Maria Rossi” ONLUS di Fregona, TV) abbiamo parlato del significato dell’innovazione nei servizi per anziani. Dietro la parola “innovazione ” non c’è solo il voler digitalizzare le strutture o il dotarsi di nuovi macchinari, ma il voler insegnare al team come abituarsi a introdurre idee nuove.
Quali sono a tuo avviso le motivazioni della resistenza all’innovazione tecnologica nei servizi per anziani?
Faccio una premessa: la resistenza al cambiamento è un comportamento umano naturale. È un fattore che protegge le persone – almeno apparentemente – e che permette loro di mantenere salde le proprie abitudini senza uscire dalla zona di comfort, senza andare oltre le proprie paure. È un comportamento comprensibile, che però fa perdere molte occasioni, come quella di imparare ad allenarsi per uscire da questa zona di sicurezza.
Il cambiamento, però, esiste intrinsecamente all’interno dei contesti ed è una cosa a cui non possiamo sfuggire. Ad esempio, ognuno di noi la sera non è più lo stesso del mattino, perché fronteggia una serie di cose, si mescola a qualcosa di altro da sé.
Se il contesto è in costante evoluzione, le persone dentro i contesti dovrebbero mantenere sempre la capacità di adattamento per vivere bene. Nonostante ciò, presentano caratteristiche di resistenza molto forti, finché non diventano consapevoli della necessità di abbandonare i propri schemi. La consapevolezza è importante nei processi di crescita, perché permette alla persona, pian piano, di far cadere le barriere di resistenza e di scoprire la bellezza del cambiamento. La consapevolezza aiuta a capire che non è conveniente resistere, alla lunga è stancante e porta a disagio psicologico.
Ecco, riflettendo su queste cose, insieme ai miei collaboratori abbiamo cercato di vedere il cambiamento come un amico e in concomitanza di introdurlo nell’organizzazione come qualcosa di positivamente ineluttabile con cui entrare in confidenza.
Nelle nostre strutture siamo rimasti fermi per molto tempo e quindi quando l’innovazione ha bussato ha trovato un gap da recuperare talmente grande che chiunque si sarebbe spaventato.
Chi ha vissuto gli ultimi 10 anni nelle strutture ha dovuto somministrare piccoli pezzi di cambiamento a operatori che non erano abituati a cambiare.
Io porto un’esperienza che è frutto di uno studio che ho condotto personalmente, ma è soprattutto il frutto del lavoro quotidiano: è stato bello vedere che le persone attorno a me iniziavano, passo dopo passo, ad apprezzare il cambiamento ed è stato gratificante vederli poi più soddisfatti di se stessi, meglio valorizzati.
Rispetto all’innovazione tecnologica nelle strutture, faccio un esempio chiarificatore: sappiamo tutti che il momento dell’igiene è vissuto quasi sempre negativamente dall’anziano. Ecco, esistono tecniche che rendono questa esperienza più umana perché non usano l’acqua e garantiscono ottimi risultati igienici. Però nella mentalità delle persone se non si usa l’acqua non si è davvero condotta un’igiene.
Questo esempio serve a far capire che l’introduzione di questa pratica è comunque innovazione, la quale si può introdurre solo superando una certa ostilità culturale. Poi è un esempio che spiega come parlare di innovazione non significa solo parlare di digitale o di high tech ma vuol dire saper portare un cambiamento su ogni livello.
La pandemia come ha portato le strutture a sentire il bisogno di dotarsi di innovazione tecnologica ?
La pandemia ci ha sconvolto sotto tutti i punti di vista e ci ha messo di fronte a una serie di scelte che probabilmente dovevamo prendere tempo fa. Innanzitutto ci ha fatto fare i conti con delle procedure che noi svolgevamo in maniera superficiale. Per esempio ci ha reso più consapevoli sul rispetto delle norme igieniche, come sono riportate nei piani di salute pubblica.
Dal punto di vista tecnologico, la pandemia ci ha imposto di capire come regolamentare gli accessi in struttura, ad esempio, nella rilevazione dei parametri, nell’igienizzazione all’ingresso.
In generale la pandemia ci ha messo di fronte a rischi che consideravamo accessori e ha fatto il suo nello stimolare la necessità di dotarci di sistemi di innovazione, ma quel che avrebbe dovuto spingere a quest’ultima deriva da motivazioni intrinseche all’organizzazione e precedenti la pandemia.
Come si arriva a introdurre l’innovazione tecnologica nei servizi? Si tratta di decisioni dall’alto, di pertinenza manageriale, o c’è bisogno di una cultura organizzativa pronta ad accoglierla?
La risposta qui non può essere che una: nelle strutture del 2022 non è più possibile calare qualsiasi tipo di scelta, anche strategica, dall’alto. Il cambiamento deve sempre venire dal basso, ammesso che esista ancora un alto e un basso nell’organizzazione.
Oggi le organizzazioni vincenti sono quelle trasversali, dove i ruoli istituzionali danno cittadinanza alle idee, come se venissero dall’amministratore delegato o da qualche altra figura apicale.
Qualunque figura professionale dovrebbe sentirsi dentro una cultura dove si sente preziosa nel proporre innovazione e cambiamento, perché quando l’idea proviene da qualunque membro dell’organizzazione, a quel punto l’innovazione, oltre a essere meglio accettata dal team, è anche più funzionale al cambiamento dei processi produttivi.
La responsabilità di individuare elementi che non funzionano deve essere non solo delle figure gestionali, ma di tutte le figure professionali implicate. Anzi, la responsabilità delle figure gestionali è proprio quella di coinvolgere tutto il personale portandolo anche fuori dalla struttura e rendendolo partecipe di un mondo che si evolve.
Il grosso problema che viviamo è che le strutture rimangono chiuse in se stesse e gli operatori spesso non sanno quello che succede fuori, perché spesso non vivono la cultura dell’approfondimento, dello studio, della documentazione. La responsabilità è quindi quella di buttare giù il ponte levatoio, di aprire le porte delle strutture e di invitare gli operatori a cercare fuori occasioni di miglioramento. Creare una cultura dell’innovazione è secondo me la sfida del prossimo ventennio.
Il personale come recepisce di solito l’introduzione di innovazione? E in che rapporto è necessario mantenersi con l’équipe quando c’è da introdurre un cambiamento?
Per rispondere alla domanda racconto questo fatto: qualche giorno fa ho partecipato a un Consiglio di Amministrazione in cui come struttura abbiamo proposto un incentivo per il personale chiamato “bonus innovazione”. Il mio obiettivo era quello di spingere il personale a fare proposte di innovazione che, al di là poi della realizzabilità di queste, servisse a stimolare i professionisti.
Introdurre un incentivo alle buone idee serve per creare una sana competizione fra i nuclei e per abituare le persone a costruire proposte, a studiare soluzioni e a condividerle. Molto spesso nelle organizzazioni le persone hanno paura a parlare, a rendersi protagoniste, pensando di non essere in grado di formulare idee costruttive o di non avere il ruolo giusto per avanzarle. Ecco, questa proposta che abbiamo avallato per il 2023, aiuterà tutti coloro che fanno parte dell’organizzazione a sentirsi più attori.
Il personale di solito reagisce manifestando violentemente resistenza al cambiamento, finché questo non diventa un esercizio. La cultura si costruisce nell’arco di un periodo medio, che secondo me va dai tre agli otto anni, non in tre mesi. Ci sono persone che si comportano in modo ostile verso il cambiamento, ma nel momento in cui a queste resistenze il management risponde con un approccio che è quello tipico del coaching, allora si vedono reazioni differenti.
Per esempio, se anziché pretendere un cambiamento dall’alto, imponendo modalità e tempistiche, si dicesse all’équipe: “scriviamo insieme il percorso per questo cambiamento. Decidiamo insieme quello che potremmo fare”, le reazioni sarebbero diverse. A quel punto le persone non solo sarebbero disposte ad accogliere il cambiamento, ma diventerebbero promotrici di questo. Sono meccanismi di cultura organizzativa molto delicati, potremmo dire di “micro-chirurgia organizzativa”, che il management un po’ più grossolano non conosce, risultando fallimentare.
Ci puoi raccontare la tua esperienza nella struttura di cui sei direttore? Quali innovazioni hai introdotto e che vantaggi hanno portato?
Mi piace sempre sottolineare il fatto che l’innovazione non è solo digitalizzazione, ma approccio mentale ai problemi, cultura che muta. Quando sono arrivato qui nel 2017, essendo io di formazione infermiere, ho fatto un’analisi dello spazio che poteva occupare il servizio infermieristico e ho fatto alcune valutazioni. Da lì ho pensato che la somministrazione delle terapie potesse diventare meccanizzata.
È ovvio che quando si parla di innovazione non si può prescindere dall’aiuto che la tecnologia apporta nel raggiungere più facilmente un obiettivo. La tecnologia si deve integrare al lavoro delle persone, mediante l’uso delle macchine, creando quello che mi piace definire un “connubio romantico”. Questo rapporto fra macchine e persone deve essere romantico nel senso che deve basarsi sulla fiducia e non sul sospetto.
Quando ho introdotto in struttura l’armadio informatizzato per la somministrazione dei farmaci, questo “privava” gli infermieri di un’attività a cui erano affezionati e che li allontanava da una serie di fonti di stress.
Quando l’infermiere preparava la terapia, infatti, nessuno lo doveva disturbare. Questo era un po’ un suo rifugio per diverse ore al giorno. L’infermiere si sentiva protetto dal mondo della relazione, che è molto complesso da gestire, ma che è anche quello in cui doveva stare.
Poi gli infermieri hanno iniziato a usare la macchina e hanno scoperto che tutto il processo del confezionamento dei farmaci gestito in automatico, lasciava loro la possibilità e il tempo per dedicarsi ad altre cose che credevano di non poter più fare. In questo modo sono stati aiutati a ricostruire la dinamica relazionale che avevano perso e hanno dato vita a un modello organizzativo più funzionale.
Grazie all’armadio è stata esaltata l’intellettualità dell’infermiere, che è diventato case manager. Quindi questo è un esempio di come una macchina può cambiare la vita di un professionista diffondendo benessere. Oltre ai professionisti, la tecnologia è utile per gli utenti finali, basti pensare a quanti errori umani si riescono a evitare nella somministrazione automatizzata dei farmaci.
Io credo che certi servizi a bassa intensità assistenziale magari in futuro non avranno nemmeno più bisogno dell’infermiere e che questa mansione della somministrazione possa essere svolta dagli OSS, in un’ottica di valorizzazione sia della figura degli infermieri, che serviranno ad altri compiti, sia di quella degli operatori sociosanitari.
Secondo Luca Benci, giurista che si è occupato di responsabilità professionale e che ha scritto libri sulla somministrazione dei farmaci, è dal 2001 che nel profilo dell’OSS è previsto che, in certi contesti, questo possa distribuire la terapia. Ecco che l’infermiere può collocarsi su un altro livello e può gestire altri gruppi di professionisti che se si rimanesse in una logica prestazionale non potrebbe gestire.
È così che nasce l’infermiere di comunità, figura su bisogna investire molto. Dobbiamo prepararci al fatto che in futuro ci saranno meno medici di medicina generale e più infermieri di comunità, in una logica integrata e volta a far sentire il cittadino veramente preso in carico.
Per i servizi per anziani, in generale, io auspico questo: un cambiamento importante, sostenuto dalla tecnologia, che porti all’abbattimento delle barriere nelle strutture. Vorrei che le persone uscissero ed entrassero da questi luoghi in modo flessibile.
Uno sguardo distaccato sul settore dei servizi: come li vedi oggi, alla luce di quel che è successo nei due anni di pandemia trascorsi?
Oggi – e lo dico da ottimista – sarebbe già molto recuperare quello che eravamo prima della pandemia. Prima facevamo delle uscite tutti i mesi, organizzavamo una serie di iniziative, momenti di aggregazione col territorio. Ora è da due anni che le strutture portano avanti un’ordinarietà che, quando va bene, prevede che i familiari vedano una volta la settimana i propri cari. Noi eravamo una struttura dove chiunque poteva venire a qualsiasi ora. Ci dobbiamo ricordare che cosa eravamo, perché forse lo abbiamo dimenticato.
Se noi nel 2023 torniamo a essere quello che eravamo prima, questo è già un ottimo punto di partenza. Però l’impegno deve essere quello di realizzare tutto quello che negli anni precedenti pensavamo non andasse bene.
Faccio un esempio, se abbiamo pensato che il personale sia stato mal utilizzato e che le professionalità potevano essere spese in modo diverso, bisogna da subito lavorare per costruire nuove competenze e per migliorare l’organizzazione rispetto al periodo pre-pandemia. Cioè dobbiamo recuperare quello che già prima della pandemia non andava bene, arricchendolo di tutto quello che nella pandemia abbiamo imparato.
Per rispondere alla domanda sull’istantanea sui servizi, secondo me bisognerebbe ragionare a lungo termine. Nella nostra organizzazione abbiamo previsto un piano di cambiamento che va dal 2020 al 2030 perché non possiamo fermarci all’oggi o all’immediato domani se vogliamo apportare innovazione, ma dobbiamo ipotizzare un periodo più lungo.
Noi in questo documento abbiamo scritto che dovrà essere secondario per le persone timbrare il cartellino e che dovremo rompere i confini delle strutture e costruire quartieri o paesi amici degli anziani, effervescenti dal punto di vista professionale, in cui tutti si prestano a fare cose nuove ogni giorno. Questo è, a mio parere, l’unico modo per pensare gli anziani felici.
Per la rivista CURA stiamo lavorando attorno al tema della “Rinascita” dei servizi per anziani, andando alla ricerca di percorsi di miglioramento futuro: qual è la tua idea di “rinascita” e come vedi il futuro dei servizi?
La priorità deve essere il benessere, lo so che può sembrare banale, ma è tutto quello che conta.
In struttura stiamo facendo una serie di cambiamenti, stiamo introducendo una palestra, un bar e vorrei anche costruire una piscina esterna per i nostri anziani. Insomma, mi immagino che il servizio diventi un luogo dove c’è quello che vorremmo noi adesso quando ci immaginiamo da vecchi.
Un luogo dove essere liberi e senza pudicizia. Nel futuro bisogna essere spregiudicati nel costruire benessere vero, questo è il mio slogan, perché ci vuole provocazione e coraggio per costruire il futuro che desideriamo.
Su rivista CURA ci siamo occupati del tema dell’innovazione tecnologia in questo articolo di Roberto Salamina “Innovazione tecnologica nei servizi per anziani: 4 pregiudizi da sfatare“.
Lascia un commento