La testimonianza di una tirocinante in RSA. Uno, nessuno, centomila, versioni di sé che un tirocinante si trova a indossare, nel tentativo di stare al passo e di mantenere integra la passione verso una professione di cura. Nel tentativo di conciliare quanto appreso durante il corso, e la realtà sul campo delle RSA.
Quanto è importante per le RSA curare la relazione con i propri tirocinanti? Come valorizzare questa preziosa occasione di contatto con i futuri professionisti del settore? Se consideriamo la carenza di personale e il rischio di fuga di chi resiste (per demotivazione, burnout, scarso riconoscimento) si direbbe che il tirocinio sia terreno su cui giocarsi il futuro delle RSA.
Il numero 14 di CURA, uscito a giugno, è incentrato sulla motivazione del personale. E nell’articolo di pochi giorni fa (a proposito di tirocinio e tirocinanti) abbiamo visto come valorizzare l’esperienza del praticante in RSA, coltivando valori e sviluppando senso di appartenenza all’organizzazione.
La mia esperienza di tirocinio
L’autrice racconta come si sente nel corso della sua esperienza. L’immedesimazione in tanti personaggi è la chiave che le consente di esprimere quello che prova quando viene accolta in struttura, e si trova davanti ai gesti dei professionisti più maturi. Non tutto ciò che vede, purtroppo, è Cura.
Il tirocinante BARTALI
«Comincia la salita (che hai un po’ già studiato a tavolino). Cerchi di conoscere la strada, di capire come rispondi tu alla strada. Cambi marcia per cercare quella giusta, ti guardi attorno, a volte vedi la cima, a volte no. Speri di non bucare, di non sbagliare. Anche perché spesso ti trovi sola. Ascolti il tuo fiato.
«La cosa positiva è che devi andare piano, e quindi hai anche tempo per guardarti attorno, per guardare il panorama. Ed è il panorama che spesso ti motiva ad andare avanti, sono i volti che cominci a conoscere e che diventano sempre più familiari. Dopo 15 giorni sei in vetta e scavalli. Ti senti più sicura, hai le idee più chiare. Conosci un po’ di più, hai capito come pedalare. Ma non abbassi la guardia. La velocità della discesa può farti traballare. Non distrarti, al bivio potresti sbagliare strada.»
Il tirocinante GALILEI
«Colui che osserva. Alla fine del primo giorno mi fanno male gli occhi. Osservare è stata la mia salvezza, visto che “Settimo arrangiarsi”, dicevano…
«Accoglienza zero; impatto sterile, grigio e anonimo. Ho capito che dovevo conquistare terreno e non aspettare l’invito. Ho pedinato l’ASA di riferimento e ho fatto andar gli occhi. E subito anche le mani. Mi hanno aiutato tanto le esperienze fatte nella vita, il bagaglio che mi porto dietro.
«Con l’imboccamento mi sono lasciata guidare dal ritmo della persona, ascoltando il feedback che mi dava, in stile psicomotorio. Con la cecità sono entrata in relazione senza problemi, adottando accorgimenti (che nessun’altra operatrice adotta) che rinvigoriscono la qualità della vita. Ho accompagnato il tempo con sorrisi, ascolto, disponibilità; ho cercato il contatto.
«Ci sono stati anche degli attacchi a cui ho dovuto reagire: stai seduta, riposati un po’, vai a casa prima tanto non timbri, per esempio.»
Il tirocinante PLATONE
«È il filosofo, che “fa danzare le idee”. Alcune riflessioni sparse che mi sono appuntata.
«Ho conosciuto le persone in stato vegetativo. La qualità della vita, la dignità della persona, il corpo trasfigurato, un corpo che forse parla ma non si comprende, perché è proprio su una dimensione diversa Una vita appesa e sospesa. Stanze piene di affetto e di amore. La fatica di quel corpo sbilanciato, disarmonico, senza equilibrio. E quegli occhi così spaventati.
Ho deciso, alla fine del primo giorno, che farò le DAT.
«Qui il tema quotidiano è: la CASA. “Devo andare alla mia casa, portami a casa, quando andiamo a casa? Questa non è la mia casa”. È la frase che più mi strazia il cuore. La casa è il nostro centro, è il luogo a cui ritorniamo sempre; è luogo intimo, sicuro; è il nostro luogo. È il desiderio più forte di questi ospiti, che insieme alla casa chiedono sempre della mamma e dei figli.
«Il ricordo. Quanti ricordi di tempi lontani! Entri nelle loro storie ed è commuovente. Hanno voglia di raccontarsi, chiedono solo di stare lì accanto a loro, e qualche coccola. Si sentono molto sole, la solitudine è sempre nell’aria.
«Non hanno freni. Quello che pensano lo dicono, in modo benevolo o in malo modo. Forse perché hanno trattenuto troppo nella loro vita: per non offendere, per fare piacere agli altri. Ora lasciano andare. Sanno o sentono che il loro tempo sta finendo.
«Il nome. Ho cercato di insegnare il mio nome. Il nome fa più famiglia Riconosce l’unicità, rispetta la storia personale e valorizza la persona. È bello perché poi si sforzano di ricordare il mio nome. Alcuni lo associano a una parente.»
Il tirocinante SUPER MARIO
«Magazziniere, manovale. L’inutilità. Ho trascorso momenti in cui trasportavo cose da un luogo all’altro, su e giù, a destra e a sinistra. Inutilità perché la sensazione era che volessero togliermi di mezzo. E quindi un tempo di nervosismo per un tempo sprecato e di poco rispetto. A volte mi sono cercata da sola persone da accudire e di cui prendermi cura.»
Il tirocinante BRONTOLO.
«L’automatismo, la routine, sono pericolose. Azioni meccaniche e ripetitive che si trasformano in indifferenza. Ho dovuto tacere davanti a situazioni orribili; ho avuto la dimostrazione di come le parole e i gesti possono distruggere. E io potevo solo compensare con gentilezza e delicatezza.
«Gli anziani hanno notato subito la differenza. E io mi portavo a casa tanta amarezza. Il fatto di dover tacere è stato andare contro la mia natura: non riesco a resistere davanti a situazioni di ingiustizia, in cui è esercitata prepotenza e violenza (anche solo verbale) nei confronti della persona fragile, indifesa. È stato molto difficile sopportare, di notte non riuscivo a non pensarci. Mi ha fatto stare male.
«La differenza la fa chi ci mette il cuore e un po’ di calore. “Tu sì che hai il cuore buono”, mi dicevano. Ho visto anche operatrici attente, precise, responsabili, delicate. Queste sono diventate il mio modello.
«Il fatto poi di avere tutor diverse quasi ogni giorno è stato complicato: ognuna ha il suo stile che non puoi riproporre quando sei con altre, perché ti dicono che stai sbagliando. Ti tolgono le cose dalle mani, non ti rispondono se fai delle domande, parlano male di te quando tu sei presente. Sono veramente arrabbiata davanti a certi atteggiamenti, non sono arrivata a 50 anni per doverli subire! Questo ha comportato in me un forte stress. È mi ha fatto pensare a quanto sia dura la vita del tirocinante.
«In questi frangenti mi aggrappavo agli insegnamenti, alle parole, agli esempi dei nostri professori al corso. Situazioni in cui vedevo i loro volti mentre spiegavano la teoria già imbevuta però della pratica, mentre ci mettevano in guardia su alcune situazioni e ci indicavano come affrontarle. Questa cosa mi ha dato forza. È la pratica che dà valore alla teoria (di chi ha già vissuto)! “Per navigare non basta sognare. Bisogna sapere” (cit.)* E pensavo anche alle mie amiche e amici del corso. Chissà se stanno vivendo le stesse difficoltà e le stesse gioie.»
Il tirocinante OROLOGIAIO MATTO
«Il tempo, questo grande signore che tutto sa e tutto racchiude. Qui è il tempo della memoria, dell’attesa, della nostalgia; il tempo delle mani (“massaggiami le mani”). È il tempo dell’eternità. “L’eternità non è senza fine. È quando il lontano è vicino. È l’eternità che dà significato alla vita. Eternità è il tempo completo” (cit)*.
«I residenti pensano alla fine, per loro non c’è domani. Spesso invocano la morte. È stato importante quando mi hanno chiesto: “Ci sarai ancora domani?”.
«Fretta e tempo: un connubio sconcertante tra queste mura. Esiste questa strana frenesia nel fare tutto di corsa, senza respirare. Ma dove correranno? È pazzesco, soprattutto perché il tempo c’è e avanza anche! Bisognerebbe considerarlo un alleato, il tempo, e non un avversario da battere.»
Il tirocinante PITAGORA
«Il matematico. Ho notato che gli anziani sono più una somma di persone che un gruppo; si tollerano poco a vicenda. Chi ha comportamenti fastidiosi è allontanato. Desiderano la tranquillità e chi è agitato non è desiderato. Da un certo punto di vista è comprensibile e legittimo. Forse bisognerebbe lavorarci un po’ su, starebbero meglio tutti.
«Anziani che al loro ingresso in struttura vengono messi seduti in mezzo agli altri, senza un minimo di presentazione. Che strano!»
Il tirocinante CASPER
«La sera passeggiavo per i corridoi e mi fermavo alle porte ad ascoltare i deliri di alcune persone, che dal letto parlavano col marito defunto o col figlio. Forse parole mai dette o semplicemente un desiderio di vicinanza. Quanta tenerezza!»
Il tirocinante INSIDE OUT
«Quello emotivo, che ci tiene a creare relazioni che poi sono da gestire. Ho molto rispetto per le persone anziane, perché sono la nostra storia. Una storia che raccontano e che sovente è irrorata da vene di tristezza. Ho fatto tutto quello che potevo per essere vicina a loro.
«Ho capito anche che devo gestire meglio la cattiveria che esce da loro, che nasce dalle loro malattie e condizioni. Devo dire che non sono rimasta indifferente a parolacce, frasi forti e insulti anche verso di me.»
Il tirocinante LEGO
«Il tirocinante è un insieme di tutti questi mattoncini. I mattoncini per loro natura sono resilienti, perché hanno la capacità di resistere agli urti senza spezzarsi. Così anche un tirocinante, che affronta diverse situazioni e ne esce rafforzato.
«Sono stata tutto questo: Bartali, Galilei, Platone, Super Mario, Orologiaio Matto, Pitagora, Casper, Inside out. Un’esperienza positiva, bella, molto coinvolgente, con luci e ombre. La costruzione che ne risulta è unica e originale, perché i mattoncini si possono mettere insieme in tanti modi diversi.
«Qualcosa è mancato. Sono sempre stata affiancata ad ASA; nella struttura è presente solo una persona che ricopre il compito di OSS. Quindi è stato un tirocinio incompleto. In più la struttura ha un’organizzazione di tipo funzionale; non ho mai lavorato in équipe, perché le équipe proprio non sono previste. Questo mi è spiaciuto. Sono molto contenta perché il lavoro mi piace molto, e già ci sogno sopra.»
Fine prima parte
* Citazioni di Rubem Alves (psicanalista, educatore, teologo, scrittore e pastore presbiteriano brasiliano).
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