L’importanza di una riflessione etica sul lavoro di cura per una società più equa

di Sandro Spinsanti

La cura: mitologia e narrativa

La più sintetica ed efficace definizione del lavoro di cura la fornisce Saturno, il padre degli dei, nel racconto del mitografo Igino (II sec. d. C.). Chiamato a decidere nella disputa tra Giove, la dea Cura e Gea, la Terra, a chi appartenga l’uomo, sentenzia: indipendentemente da ciò che avverrà dopo la morte, “finché l’uomo vive lo possieda Cura”. Dipendiamo dal lavoro di accudimento della dea. O di chi agisce in sua vece. Sempre; ma soprattutto quando la non autosufficienza predomina, nelle fasi iniziali e finali del ciclo vitale. Insomma, dal pannolino al pannolone siamo figli di Cura.

Se invece cerchiamo un’immagine letteraria, rivolgiamo senz’altro a Tolstòj. Ne La morte di Ivàn Ill’ic ci presenta la cura nelle vesti del servo Gerasim. Con il suo volto “giovane, fresco, buono, semplice, al quale cominciava proprio allora a spuntare la prima barba”, è la risorsa principale del magistrato Ivàn Ill’ic, incamminato verso la fine della vita.

Mentre la famiglia si occupa piuttosto dello storione per i ricevimenti e avvolge il capofamiglia in una coltre di bugie pietose, Gerasim lo assiste nelle incombenze più sgradevoli. Sempre disponibile, si siede davanti al malato per permettergli di tenere sollevate le gambe appoggiandole sulle spalle. Al ritratto fisico del giovane mugic si abbina quello spirituale:

Ivàn Ill’ic sta bene soltanto con Gerasim. Stava bene quando Gerasim, a volte per intere nottate di fila, gli teneva le gambe, e non voleva andare a dormire, diceva: “Non vi preoccupate, Ivàn Ill’ic, farò sempre in tempo a dormire” o quando all’improvviso, passando al tu, soggiungeva: “Se non eri malato, be’, ma così, perché non dovrei farlo?”.

Il solo Gerasim non mentiva, da tutto si vedeva che solo lui capiva quale fosse la questione, e non riteneva opportuno nasconderlo, ma semplicemente provava compassione per il barin [padrone] debole, insecchito. Glielo aveva persino detto apertamente, una volta che Ivàn Ill’ic voleva mandarlo via.

“Tutti moriremo. Perché non darsi un po’ da fare?”, aveva detto, significando in tal modo che egli non si stancava di quella sua fatica proprio perché la sopportava per un uomo morente, e sperava che anche per lui qualcuno, a suo tempo, avrebbe sopportato la stessa fatica.

Che tipo di lavoro è quello di Gerasim? Non è un familiare, eppure è più intimo a Ivàn Ill’ic di qualsiasi persona della sua famiglia. Tanto che possiamo affermare che quando prende forma un lavoro di cura – pensiamo oggi ai badanti, uomini e soprattutto donne, alle quali viene così spesso affidato – la categoria di “stranieri” è completamente inappropriata. Non di rado sono molto più stranieri, nel senso di estranei, i familiari più intimi.

Gerasim è uno stipendiato, o in ogni caso un dipendente che riceve un compenso per il suo lavoro. Eppure a volte eccede in attenzioni: fa più di quanto ci si aspetterebbe da lui per contratto. In termini religiosi, è lui il vero “prossimo” per lo sventurato che la malattia ha buttato a terra, sull’orlo della strada che da Gerusalemme porta a Gerico. Il prolungamento della vita, l’aumento della cronicità e il restringimento delle dimensioni della famiglia hanno reso quel bordo della strada particolarmente affollato.

Un altro tratto di Gerasim ci colpisce: si aspetta che, quando toccherà a lui di aver bisogno di cure, le riceva da qualcun altro. La sua fiducia in una rete di assistenza, che alternativamente secondo il bisogno viene data e ricevuta, costituisce un capitale sociale. È vero che, come afferma Joseph Conrad, “si vive come si sogna: soli”; ma questa consapevolezza convive con aspettative di cooperazione e di reciprocità. La rete di solidarietà si estende ben oltre la famiglia. 

Nelle nostre società il capitale sociale è costituito dal “welfare state”, ovvero dall’impegno della società di fornire le cure nella misura del bisogno. Il nostro capitale sociale si appoggia sulla promessa che, indipendentemente dalle condizioni sociali ed economiche, nessuno sarà lasciato solo, senza la cura che necessita.

Lavoro di cura come merce

Queste considerazioni ci portano a domandarci se il lavoro di Gerasim possa essere semplicemente equiparato a una merce. È vero che, aggiornando Marx, ai nostri giorni tutto si compra e tutto si vende; il corpo stesso è diventato la merce finale. Lo sfruttamento del lavoro, che nel XIX sec. ha messo in moto la protesta sociale del movimento dei lavoratori, ora dovrebbe mettere sotto accusa altre forme di lavoro.

Se da una parte la nostra società continua a sfruttare braccianti e altre categorie sommerse di immigrati, tanto da evocare forme aggiornate di schiavitù, dall’altra utilizza con buona coscienza il lavoro delle persone arruolate nella cura. Sono i lavoratori che il poeta Franco Arminio chiama “gli immigrati in camera da letto”. È la condizione dei privilegiati che possono comprare assistenza e cure: i più ricchi tra di noi; il primo mondo nello scenario internazionale. Con buona coscienza, perché sono i prestatori stessi del lavoro che bussano alla nostra porta, indotti dalle loro condizioni domestiche a venderci il loro lavoro.

Se la prima e l’ultima parola spetta all’economia, il discorso è chiuso. I servizi di cura spettano a chi può pagarseli: che sia l’assistenza per i non autosufficienti, facendo migrare stuoli di badanti, che lasciano nel loro Paese bambini e vecchi, a cavarsela come meglio possono; che sia l’arruolamento nei nostri ospedali di infermieri che sciamano dai Paesi dell’Est, non di rado sguarnendo le loro strutture sanitarie.

Anche i lavori di cura, professioni liberali per eccellenza, possono scrollarsi di dosso la connotazione filantropica e ridefinirsi in termini di mercato. Al più possiamo invocare un contenimento delle espressioni più brutali del mercato favorito dalla globalizzazione, a beneficio di un mercato regolato, che difenda almeno le tutele basilari dei lavoratori.

Dobbiamo riconoscere che il momento si presta a porre i problemi del lavoro di cura in una prospettiva nuova. Passata l’emergenza della pandemia, con le sue disfunzioni e i danni provocati ai più fragili, siamo più recettivi ai ripensamenti. Cominciando col prendere coscienza che dietro l’organizzazione abituale delle cure per i non autosufficienti e i grandi anziani sussistono malesseri e ingiustizie.

Per molti cittadini i resoconti che descrivevano in termini allarmistici ciò che stava avvenendo nelle RSA sono stati l’occasione per domandarsi che cosa si nasconde in realtà dietro quella sigla che molti neppure conoscevano: condizioni ben diverse da quelle evocate dalla tranquillizzante dizione di “casa di riposo” (in particolare quando viene reclamizzata in termini idilliaci…).

Cominciamo a domandarci: non abbiamo niente di meglio da offrire alle persone che hanno bisogno di appoggiarsi alle cure esterne? È possibile immaginare delle residenzialità più leggere e diffuse, delle condizioni in cui l’autonomia residua non sia annullata ma valorizzata? L’isolamento in cui molti ospiti delle RSA sono stati costretti dalla pandemia ad andare incontro alla fine ha portato all’estremo condizioni di disagio che pur esistono in tempi di normalità. Il malessere occultato in molti sistemi di cura considerati normali è venuto allo scoperto.

Dalla scorciatoia delle badanti al potenziamento dei servizi territoriali

Anche la scorciatoia costituita dal ricorso massiccio a badanti, in carenza di servizi di assistenza domiciliare da parte dello stato sociale, centrato sul trattamento delle acuzie e sull’ospedalizzazione, ci induce a ripensamenti. Confrontandoci con altre realtà nazionali, ci rendiamo conto che le alternative esistono. Il potenziamento dei servizi territoriali e domiciliari offre una migliore qualità di cura, oltretutto a prezzi più contenuti per la società.

Il lavoro di cura in Italia è svolto dalle badanti al 50%

Ciò richiede però una programmazione dei servizi socio-sanitari ripensata dando il peso appropriato alla cronicità. I servizi migliori non sono quelli che promettono, illusoriamente, di “riportarci come prima”, bensì quelli che rendono possibile di convivere più a lungo e meglio, grazie ai trattamenti appropriati, con le patologie che continueranno ad affliggerci.

È quella pratica della medicina chiamata “incrementale”. Questo tipo di cura deve essere erogata in modo diverso da quella affidata al medico eroe – quello che si ispira alla strategia bellica di Giulio Cesare: veni, vidi, vici – dal quale ci si aspetta che sconfigga la malattia, riportando il malato sul terreno sicuro della salute. È un prendersi cura che richiede continuità a progressività; affidato in misura molto maggiore alla professionalità degli infermieri, più che a quella dei medici.

Lavoro di cura e possibili danni individuali e sociali

La domanda più fondamentale dell’etica nell’ambito della cura è quella che ci costringe a chiederci se con il nostro comportamento non stiamo infliggendo un danno. È il tradizionale imperativo: Primum non nocere. Siamo consapevoli che nella pratica il danno si può procurare con interventi sia in eccesso che in difetto: non erogando quanto è necessario per contenere l’avanzata della malattia o la perdita dell’autosufficienza; oppure con una ostinazione irragionevole nelle cure (altrimenti detta anche accanimento terapeutico), che non considera minimamente la qualità della sopravvivenza assicurata.

Misurata naturalmente con i valori, le preferenze, le attese personalissime del malato stesso. Questo per quanto riguarda la persona singola che della cura ha bisogno. I principi etici del bene della persona e del rispetto della sua autonomia sono i criteri con cui dobbiamo misurare gli interventi di cura.

Nella categoria del danno inferto non dovremmo limitarci alle persone singole. Pensiamo ai danni che incombono sulle strutture sanitarie dei Paesi dai quali arruoliamo i lavoratori di cura che servono alle nostre necessità. Questa considerazione etica dovrebbe essere sviluppata da epidemiologi e programmatori sociali, e fatta propria dalla politica: non può essere affidata al singolo cittadino che si trova in condizione di necessità di assistenza.

È ovvio che chi sta affogando in una situazione di estrema necessità – persone che hanno perso l’autosufficienza, famiglie sommerse da compiti di cura a cui non riescono a far fronte – si aggrappa alla tavola di salvataggio che trova a portata di mano. Senza domandarsi se l’aiuto che si procura sia giusto o ingiusto. Stiamo parlando di una politica che si tiene lontana dal favorire dei benefici ingiusti, ovvero quelli ottenuti ai danni di qualcuno.

 I trattamenti di cura, pesati con i parametri dell’etica, devono chiedersi se sono veramente benefici e se rispettano le esigenze della giustizia. Cure giuste, oltre che benefiche e rispettose dell’autodeterminazione della persona: sono i tre principi etici con cui un rapporto di cura si deve misurare.

Cure sobrierispettose e giuste, appunto, per riprendere la sintesi della buona medicina del nostro tempo proposta dal movimento di Slow Medicine. L’ammonimento di Kant di non considerare l’essere umano solo come un mezzo non ha perso niente della sua attualità. È un sogno pensare che la politica possa rinunciare a ottenere dei benefici “a casa nostra”, se questi sono pagati al prezzo di danni che altri pagheranno “a casa loro”? 

L’etica a cui facciamo appello comincia col vedere, prima ancora che col fare. Lo sguardo può concentrarsi in basso (guardando al proprio interesse, alla propria famiglia…), o elevarsi oltre i piccoli orizzonti, fino ad abbracciare la comunità umana nella sua interezza. Non è un lusso una sensibilità etica che arrivi a preoccuparsi della diminuzione dei livelli di salute dei Paesi dai quali dreniamo i lavoratori che forniscono la cura che serve a noi.

Chi sopravviverà? La risposta dell’evoluzionismo darwiniano è: i più forti; o i più adatti. Chi crede nel mercato che tutto comprende, anche il lavoro, opterà per la sopravvivenza dei più furbi. Ma se la sopravvivenza è riservata ai più saggi, bisognerà privilegiare chi è capace di gettare dei ponti: perché la salvezza è una sfida globale, da affrontare insieme. Inventando modalità di cura che non si nutrono cinicamente di ingiustizie.

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