Sempre più spesso le persone entrano in RSA in una fase avanzata, quasi alla fine della vita. Ciò comporta la necessità per le organizzazioni di dotarsi di competenze specifiche in tema di accompagnamento.

In quest’articolo, la narratrice di CURA Elisa Mencacci raccoglie la testimonianza di una parte dell’équipe della Fondazione Santa Augusta, a Conegliano (TV), da lei “accompagnata” nel riflettere sulle dimensioni della qualità del fine vita e sulla costruzione di un protocollo per “vivere l’ultimo pezzo di strada”.

L’articolo è stato pubblicato in forma più estesa nel n. 16 di CURA cartaceo.

Fine vita in RSA: di cosa parliamo

Che cosa vuol dire accompagnare una persona anziana e la sua famiglia alla fine della vita?

Le parole dell'accompagnamento al fine vita in RSA

Queste sono solo alcune delle parole che hanno condiviso i tanti operatori della cura che, a vario titolo, si sono messi in gioco in un percorso formativo ed esperienziale sul tema del fine vita.

Operatori sociosanitari, logopedisti, infermieri, educatori, psicologi, coordinatori, medici: un’équipe completa che si è interrogata sul senso dell’accompagnamento in struttura  e sul bisogno di costruire non solo un’assistenza al fine vita in RSA di qualità ma competenze relazionali, emotive, comunicative, trasversali a tutta l’organizzazione.

Dal confronto con il gruppo di lavoro della Fondazione Santa Augusta sono nate riflessioni che partono dalla consapevolezza che, sempre più spesso, le persone entrano in struttura in una fase avanzata, “già quasi al fine vita”. Molto spesso si può infatti parlare di accompagnamento già dal momento dell’ingresso.

Il Protocollo di accompagnamento diventa dunque quanto mai necessario, per riuscire a muoversi nel modo più efficace e di “senso”.

Ringrazio la direzione e tutto il personale della Fondazione per aver portato avanti il percorso, e un ringraziamento particolare per la generosa disponibilità all’intervista a: Stefano Dugone, Tamara Boni, Fabiola Prataviera, Sabrina Masia, Silvia Paset.

L’esigenza di dotarsi di un protocollo

Per la Fondazione Santa Augusta è stato necessario affrontare il tema del fine vita in termini concreti e operativi:

“L’obiettivo è stato quello di stendere un protocollo che potesse essere rispettoso di quella che è per ognuno l’ultima fase dell’esistenza.

Si è voluto condividere un modello dove ognuno potesse trovare il proprio posto, il proprio ruolo all’interno delle varie fasi di cura, per migliorare l’assistenza alla persona anziana, alla famiglia, ma anche il nostro lavoro di accompagnatori”.

L’esigenza di avere un protocollo è nata infatti anche dal bisogno organizzativo di chiarire i vari ruoli: chi e cosa doveva fare in alcuni passaggi chiave (come la comunicazione del peggioramento o del decesso), costruendo competenze sia del singolo sia dell’équipe:

“Una cosa che spesso diamo per scontato: noi lavoriamo con anziani fragili, con malattie croniche progressive. È ovvio che qui di fine vita ne parliamo tutti i giorni: qui siamo morte”.

Conoscere le volontà della persona

In termini di conoscenze e strumenti, il punto di partenza di tutto il lungo percorso formativo dell’équipe sono state le volontà della persona e la possibilità di una valutazione più accurata della prognosi.

Capire in che fase di malattia e di vita si trovi quella persona diventa fondamentale, anche a livello di progettazione assistenziale personalizzata: alcuni strumenti prognostici e clinici, alcuni indicatori, possono aiutarci a capire dove siamo e dove possiamo andare.

Mentre raccogliere le volontà della persona, i suoi principi, i valori, le idee di dignità, di dolore, le priorità, diventa un modo per costruire non solo la prima fase del protocollo, ma una pianificazione assistenziale e di cura realmente condivisa.

In questa direzione è stato fatto un importante lavoro per dare spazio ai desideri alla fine della vita prima dell’ultimo momento:

“Ci sono stati oggetti, persone, animali che la persona voleva avere vicino, musiche, atmosfere. Insomma, abbiamo dato via libera a quali fossero i desideri della persona e dei famigliari”.

Abbiamo dato alle famiglie il permesso di un accesso libero, quindi senza nessun problema di orari di sosta, accanto alla persona anziana morente.

Cerchiamo di rendere la stanza confortevole, ma partendo da quello che le persone anziane desiderano ed esprimono.

Un aspetto che ci ha colpito tantissimo, già a partire dalla formazione, è stato il discorso delle DAT, del diritto a esprimere le proprie volontà non solo sui trattamenti sanitari ma su tutte le scelte più importanti di vita.

È emerso come siano volontà che ognuno dovrebbe avere il diritto di esprimere e soprattutto come sia necessario, prima di scriverle, un percorso di informazione che possa coinvolgere anche i famigliari.

Perché tante volte la confusione viene fuori anche proprio dalla non conoscenza delle volontà della persona. È doloroso avere a che fare con l’incertezza. Conoscere questa possibilità è stato veramente illuminante, alcune operatrici sono andate a sottoscrivere loro stesse le proprie disposizioni!”

Diventa dunque fondamentale la raccolta sistematica delle volontà, attraverso domande che vanno a esplorare le cose importanti per una persona nell’ultima fase di vita:

Che cosa è importante per te?

Quali sono le tue convinzioni e la tua idea di vita dignitosa?

Queste sono le domande che per l’équipe di Santa Augusta garantiscono la qualità del morire: il rispetto di quelli che sono i valori e le dimensioni significative per quella persona, soprattutto alla fine della propria esistenza.

L’idea è proprio quella di cercare di partire il prima possibile con la raccolta delle volontà e dei desideri, proprio perché questo è fondamentale per non arrivare all’ultimo periodo a chiedersi che cosa è importante per l’anziano, che cosa avrebbe voluto.

Anticipare è fondamentale e, ove non è possibile raccogliere le volontà direttamente dalla persona, si può farlo con i famigliari, in uno spazio comunicativo e relazionale che diventa prezioso momento di cura.

Indicatori di qualità nel fine vita in RSA

Alla luce del percorso fatto, secondo l’équipe di Fondazione Santa Augusta gli indicatori di qualità nel fine vita in RSA sono diversi; tra questi: riuscire a mettere in pratica i desideri dell’anziano e della famiglia, controllare e gestire il dolore, permettere all’anziano un percorso dignitoso senza forme di agitazione o tormenti esistenziali.

Vi sono inoltre indicatori relazionali e ambientali, tra cui: il coinvolgimento da parte di tutte le figure dell’équipe, la presenza del parente, la scelta del luogo (che sia la stanza singola o meno), la riservatezza e la serenità nell’ultima parte di vita, la possibilità di scegliere realmente come organizzare “l’ultimo spazio”.

Rispetto al periodo strettamente finale, inoltre, si sottolinea la possibilità di non morire in solitudine, e la cura della preparazione, sia prima che dopo con la salma.

La cura del corpo morente e della salma diviene indicatore di qualità e dignità: conoscere davvero la persona e scegliere con cura i vestiti e gli oggetti, mettendo dentro alla bara qualcosa che ricordi il loro vissuto.

La comunicazione con le famiglie

Ma ancora sono indicatori rilevanti anche il numero di ricoveri alla fine della vita e il numero di PAI di fine vita condivisi con i familiari.

“Abbiamo imparato a ragionare nei termini di pianificazione condivisa delle cure: aumentare e documentare i momenti di condivisione con l’anziano, il famigliare, l’équipe, rispetto alla raccolta ed espressione di scelte di cura.

Questo ci apre all’importanza di una comunicazione coi famigliari precoce, chiara e onesta.

Abbiamo capito che i momenti di conversazione sul tema della morte e del morire non possono essere relegati all’ultima settimana di vita, ma bisogna cominciare a parlarne molto prima”.

E questo vuol dire discuterne per tempo, con tranquillità, coi famigliari ma ancor prima con la persona anziana, dando informazioni e ragionando assieme sui dubbi, le paure, le preoccupazioni.

La comunicazione ai famigliari è un indicatore imprescindibile, che implica un percorso di vita e verso la morte, talvolta difficile da far comprendere e accettare, soprattutto all’inizio.

Dopo la morte: la cura prosegue

Un indicatore di qualità importante è diventato per loro anche la cura del tempo successivo alla morte, in particolar modo rispetto ai rituali di saluto e di congedo:

“Rileviamo le epigrafi, la telefonata, la mail o il biglietto di condoglianze, personalizzate, che diventano modalità per salutare la persona anziana e anche il famigliare”.

Così come è fondamentala anche l’attenzione alla presa in carico e al coinvolgimento degli altri anziani, di coloro che rimangono:

“Accompagnare gli anziani al funerale, fare un gruppo con chi rimane per elaborare e salutare la persona deceduta, creare modalità di saluto e supporto.

Tra le modalità di supporto, un indicatore potrebbe essere il numero dei colloqui post mortem e di sostegno psicologico al lutto ai famigliari, soprattutto in quelle situazioni di elevata difficoltà.

La riflessione più rilevante che abbiamo costruito è stata diretta a spostare l’attenzione dalla morte al morire.

Il fine vita in RSA può essere visto davvero come qualcosa di più ampio della morte, che coinvolga più persone, non solo l’anziano o il singolo famigliare, ma tutto il sistema che accompagna e chi rimane.

Ci piace l’idea di una comunità che accompagna prima, durante, e anche dopo”.

Le criticità che rimangono

Morire in comunità è certamente qualcosa di relazionale, con implicazioni emotive forti, in tutti coloro che poi restano (anziani, famigliari, ma anche il personale) e l’équipe conferma che uno degli elementi critici rimane proprio l’importanza di prendersi cura di chi rimane.

“Sarebbe utile coltivare la memoria di chi muore, attraverso rituali, magari con oggetti e celebrazioni nel tempo. Aiuterebbe gli anziani stessi, potrebbe essere un modo per tenerli nella memoria, senza lasciarli andare del tutto”.

Così come altre situazioni critiche si presentano nei casi di persone anziane morenti in completa solitudine, con mancanza di reti sociali e famigliari significative:

“Accogliamo spesso situazioni famigliari disgregate, talvolta conflittuali, e sempre più spesso arrivano con amministratori di sostegno che si trovano a decidere per loro.

L’impatto non solo delle scelte, ma anche di sapere che qualcuno che non mi conosce realmente deciderà per me, o che vi sono conflitti nel percorso di scelta, si ripercuote chiaramente sulla persona”.

Un altro aspetto critico sicuramente ha a che vedere con il fatto che spesso ci si affeziona alle persone che si accompagnano. Questo aspetto accomuna generalmente tutti i curanti, indipendentemente dal ruolo.

L’operatore che si affeziona di più deve poi gestire il vissuto di lutto, prima e dopo la morte, e quindi lo strumento che aiuta di più è la condivisione. Avere degli spazi di elaborazione, nei momenti in cui ci si sente particolarmente legati, a livello emotivo, a quell’anziano, diventa fondamentale.

“A volte capita che l’operatore creda di dover mantenere le distanze. Crediamo invece che sia meglio chiamarla giusta vicinanza.

Non dobbiamo essere distanti o freddi, ma essere vicini nel grado in cui riusciamo a vivere l’assistenza pienamente, proteggendo sempre noi stessi, con la nostra sensibilità e umanità”.

In dialogo con la comunità

La realizzazione di un protocollo per la gestione del fine vita è un percorso complesso che richiede tempo, risorse, e una formazione a tappeto, per tutti gli operatori, sulle dimensioni cliniche e assistenziali ma soprattutto umane, spirituali, emotive del morire.

Non si può immaginare un accompagnamento che non sia di équipe, dell’organizzazione tutta, senza ridurlo a numeri o procedure da seguire.

Ed è necessario continuare a lavorare per facilitare la comunicazione interdisciplinare, affinché tutti siano messi nelle condizioni di comprendere quando si parla di fine vita, di accompagnamento e di cure palliative.

E proprio parlando di comunicazione, tra i desideri che rimangono all’équipe di Fondazione Santa Augusta per il futuro, c’è anche quello di migliorare il dialogo con la comunità in tema di fine vita:

“In fondo siamo tutti cittadini, sia qua che fuori, tutti abbiamo a che fare con la morte, e dovremmo parlarne assieme.

Accompagnare bene vuol dire fare del bene, volere la migliore vita possibile per quella persona, nel rispetto della sua storia, sino alla fine.

Quella volta che riesci ad accompagnare veramente la persona e i famigliari è una sensazione impagabile: abbiamo avuto famigliari che sono tornati anche dopo un mese per ringraziare. Si sono sentiti a loro agio, anche nella fine, anche se non a casa propria. E questa è una conquista”.

About the Author: Elisa Mencacci

Avatar photo
Psicologa clinica, tanatologa e autrice di numerose pubblicazioni sul fine vita. Fa parte del team dei narratorə di CURA.

Grazie di cuore

 

Se questo articolo ti è stato utile puoi fare una piccola donazione per sostenere il lavoro di CURA

rivista CURA settembre23

Con 1 euro puoi aiutarci a cambiare la narrazione stereotipata sulla vecchiaia e sul mondo delle RSA.

Sempre più spesso le persone entrano in RSA in una fase avanzata, quasi alla fine della vita. Ciò comporta la necessità per le organizzazioni di dotarsi di competenze specifiche in tema di accompagnamento.

In quest’articolo, la narratrice di CURA Elisa Mencacci raccoglie la testimonianza di una parte dell’équipe della Fondazione Santa Augusta, a Conegliano (TV), da lei “accompagnata” nel riflettere sulle dimensioni della qualità del fine vita e sulla costruzione di un protocollo per “vivere l’ultimo pezzo di strada”.

L’articolo è stato pubblicato in forma più estesa nel n. 16 di CURA cartaceo.

Fine vita in RSA: di cosa parliamo

Che cosa vuol dire accompagnare una persona anziana e la sua famiglia alla fine della vita?

Le parole dell'accompagnamento al fine vita in RSA

Queste sono solo alcune delle parole che hanno condiviso i tanti operatori della cura che, a vario titolo, si sono messi in gioco in un percorso formativo ed esperienziale sul tema del fine vita.

Operatori sociosanitari, logopedisti, infermieri, educatori, psicologi, coordinatori, medici: un’équipe completa che si è interrogata sul senso dell’accompagnamento in struttura  e sul bisogno di costruire non solo un’assistenza al fine vita in RSA di qualità ma competenze relazionali, emotive, comunicative, trasversali a tutta l’organizzazione.

Dal confronto con il gruppo di lavoro della Fondazione Santa Augusta sono nate riflessioni che partono dalla consapevolezza che, sempre più spesso, le persone entrano in struttura in una fase avanzata, “già quasi al fine vita”. Molto spesso si può infatti parlare di accompagnamento già dal momento dell’ingresso.

Il Protocollo di accompagnamento diventa dunque quanto mai necessario, per riuscire a muoversi nel modo più efficace e di “senso”.

Ringrazio la direzione e tutto il personale della Fondazione per aver portato avanti il percorso, e un ringraziamento particolare per la generosa disponibilità all’intervista a: Stefano Dugone, Tamara Boni, Fabiola Prataviera, Sabrina Masia, Silvia Paset.

L’esigenza di dotarsi di un protocollo

Per la Fondazione Santa Augusta è stato necessario affrontare il tema del fine vita in termini concreti e operativi:

“L’obiettivo è stato quello di stendere un protocollo che potesse essere rispettoso di quella che è per ognuno l’ultima fase dell’esistenza.

Si è voluto condividere un modello dove ognuno potesse trovare il proprio posto, il proprio ruolo all’interno delle varie fasi di cura, per migliorare l’assistenza alla persona anziana, alla famiglia, ma anche il nostro lavoro di accompagnatori”.

L’esigenza di avere un protocollo è nata infatti anche dal bisogno organizzativo di chiarire i vari ruoli: chi e cosa doveva fare in alcuni passaggi chiave (come la comunicazione del peggioramento o del decesso), costruendo competenze sia del singolo sia dell’équipe:

“Una cosa che spesso diamo per scontato: noi lavoriamo con anziani fragili, con malattie croniche progressive. È ovvio che qui di fine vita ne parliamo tutti i giorni: qui siamo morte”.

Conoscere le volontà della persona

In termini di conoscenze e strumenti, il punto di partenza di tutto il lungo percorso formativo dell’équipe sono state le volontà della persona e la possibilità di una valutazione più accurata della prognosi.

Capire in che fase di malattia e di vita si trovi quella persona diventa fondamentale, anche a livello di progettazione assistenziale personalizzata: alcuni strumenti prognostici e clinici, alcuni indicatori, possono aiutarci a capire dove siamo e dove possiamo andare.

Mentre raccogliere le volontà della persona, i suoi principi, i valori, le idee di dignità, di dolore, le priorità, diventa un modo per costruire non solo la prima fase del protocollo, ma una pianificazione assistenziale e di cura realmente condivisa.

In questa direzione è stato fatto un importante lavoro per dare spazio ai desideri alla fine della vita prima dell’ultimo momento:

“Ci sono stati oggetti, persone, animali che la persona voleva avere vicino, musiche, atmosfere. Insomma, abbiamo dato via libera a quali fossero i desideri della persona e dei famigliari”.

Abbiamo dato alle famiglie il permesso di un accesso libero, quindi senza nessun problema di orari di sosta, accanto alla persona anziana morente.

Cerchiamo di rendere la stanza confortevole, ma partendo da quello che le persone anziane desiderano ed esprimono.

Un aspetto che ci ha colpito tantissimo, già a partire dalla formazione, è stato il discorso delle DAT, del diritto a esprimere le proprie volontà non solo sui trattamenti sanitari ma su tutte le scelte più importanti di vita.

È emerso come siano volontà che ognuno dovrebbe avere il diritto di esprimere e soprattutto come sia necessario, prima di scriverle, un percorso di informazione che possa coinvolgere anche i famigliari.

Perché tante volte la confusione viene fuori anche proprio dalla non conoscenza delle volontà della persona. È doloroso avere a che fare con l’incertezza. Conoscere questa possibilità è stato veramente illuminante, alcune operatrici sono andate a sottoscrivere loro stesse le proprie disposizioni!”

Diventa dunque fondamentale la raccolta sistematica delle volontà, attraverso domande che vanno a esplorare le cose importanti per una persona nell’ultima fase di vita:

Che cosa è importante per te?

Quali sono le tue convinzioni e la tua idea di vita dignitosa?

Queste sono le domande che per l’équipe di Santa Augusta garantiscono la qualità del morire: il rispetto di quelli che sono i valori e le dimensioni significative per quella persona, soprattutto alla fine della propria esistenza.

L’idea è proprio quella di cercare di partire il prima possibile con la raccolta delle volontà e dei desideri, proprio perché questo è fondamentale per non arrivare all’ultimo periodo a chiedersi che cosa è importante per l’anziano, che cosa avrebbe voluto.

Anticipare è fondamentale e, ove non è possibile raccogliere le volontà direttamente dalla persona, si può farlo con i famigliari, in uno spazio comunicativo e relazionale che diventa prezioso momento di cura.

Indicatori di qualità nel fine vita in RSA

Alla luce del percorso fatto, secondo l’équipe di Fondazione Santa Augusta gli indicatori di qualità nel fine vita in RSA sono diversi; tra questi: riuscire a mettere in pratica i desideri dell’anziano e della famiglia, controllare e gestire il dolore, permettere all’anziano un percorso dignitoso senza forme di agitazione o tormenti esistenziali.

Vi sono inoltre indicatori relazionali e ambientali, tra cui: il coinvolgimento da parte di tutte le figure dell’équipe, la presenza del parente, la scelta del luogo (che sia la stanza singola o meno), la riservatezza e la serenità nell’ultima parte di vita, la possibilità di scegliere realmente come organizzare “l’ultimo spazio”.

Rispetto al periodo strettamente finale, inoltre, si sottolinea la possibilità di non morire in solitudine, e la cura della preparazione, sia prima che dopo con la salma.

La cura del corpo morente e della salma diviene indicatore di qualità e dignità: conoscere davvero la persona e scegliere con cura i vestiti e gli oggetti, mettendo dentro alla bara qualcosa che ricordi il loro vissuto.

La comunicazione con le famiglie

Ma ancora sono indicatori rilevanti anche il numero di ricoveri alla fine della vita e il numero di PAI di fine vita condivisi con i familiari.

“Abbiamo imparato a ragionare nei termini di pianificazione condivisa delle cure: aumentare e documentare i momenti di condivisione con l’anziano, il famigliare, l’équipe, rispetto alla raccolta ed espressione di scelte di cura.

Questo ci apre all’importanza di una comunicazione coi famigliari precoce, chiara e onesta.

Abbiamo capito che i momenti di conversazione sul tema della morte e del morire non possono essere relegati all’ultima settimana di vita, ma bisogna cominciare a parlarne molto prima”.

E questo vuol dire discuterne per tempo, con tranquillità, coi famigliari ma ancor prima con la persona anziana, dando informazioni e ragionando assieme sui dubbi, le paure, le preoccupazioni.

La comunicazione ai famigliari è un indicatore imprescindibile, che implica un percorso di vita e verso la morte, talvolta difficile da far comprendere e accettare, soprattutto all’inizio.

Dopo la morte: la cura prosegue

Un indicatore di qualità importante è diventato per loro anche la cura del tempo successivo alla morte, in particolar modo rispetto ai rituali di saluto e di congedo:

“Rileviamo le epigrafi, la telefonata, la mail o il biglietto di condoglianze, personalizzate, che diventano modalità per salutare la persona anziana e anche il famigliare”.

Così come è fondamentala anche l’attenzione alla presa in carico e al coinvolgimento degli altri anziani, di coloro che rimangono:

“Accompagnare gli anziani al funerale, fare un gruppo con chi rimane per elaborare e salutare la persona deceduta, creare modalità di saluto e supporto.

Tra le modalità di supporto, un indicatore potrebbe essere il numero dei colloqui post mortem e di sostegno psicologico al lutto ai famigliari, soprattutto in quelle situazioni di elevata difficoltà.

La riflessione più rilevante che abbiamo costruito è stata diretta a spostare l’attenzione dalla morte al morire.

Il fine vita in RSA può essere visto davvero come qualcosa di più ampio della morte, che coinvolga più persone, non solo l’anziano o il singolo famigliare, ma tutto il sistema che accompagna e chi rimane.

Ci piace l’idea di una comunità che accompagna prima, durante, e anche dopo”.

Le criticità che rimangono

Morire in comunità è certamente qualcosa di relazionale, con implicazioni emotive forti, in tutti coloro che poi restano (anziani, famigliari, ma anche il personale) e l’équipe conferma che uno degli elementi critici rimane proprio l’importanza di prendersi cura di chi rimane.

“Sarebbe utile coltivare la memoria di chi muore, attraverso rituali, magari con oggetti e celebrazioni nel tempo. Aiuterebbe gli anziani stessi, potrebbe essere un modo per tenerli nella memoria, senza lasciarli andare del tutto”.

Così come altre situazioni critiche si presentano nei casi di persone anziane morenti in completa solitudine, con mancanza di reti sociali e famigliari significative:

“Accogliamo spesso situazioni famigliari disgregate, talvolta conflittuali, e sempre più spesso arrivano con amministratori di sostegno che si trovano a decidere per loro.

L’impatto non solo delle scelte, ma anche di sapere che qualcuno che non mi conosce realmente deciderà per me, o che vi sono conflitti nel percorso di scelta, si ripercuote chiaramente sulla persona”.

Un altro aspetto critico sicuramente ha a che vedere con il fatto che spesso ci si affeziona alle persone che si accompagnano. Questo aspetto accomuna generalmente tutti i curanti, indipendentemente dal ruolo.

L’operatore che si affeziona di più deve poi gestire il vissuto di lutto, prima e dopo la morte, e quindi lo strumento che aiuta di più è la condivisione. Avere degli spazi di elaborazione, nei momenti in cui ci si sente particolarmente legati, a livello emotivo, a quell’anziano, diventa fondamentale.

“A volte capita che l’operatore creda di dover mantenere le distanze. Crediamo invece che sia meglio chiamarla giusta vicinanza.

Non dobbiamo essere distanti o freddi, ma essere vicini nel grado in cui riusciamo a vivere l’assistenza pienamente, proteggendo sempre noi stessi, con la nostra sensibilità e umanità”.

In dialogo con la comunità

La realizzazione di un protocollo per la gestione del fine vita è un percorso complesso che richiede tempo, risorse, e una formazione a tappeto, per tutti gli operatori, sulle dimensioni cliniche e assistenziali ma soprattutto umane, spirituali, emotive del morire.

Non si può immaginare un accompagnamento che non sia di équipe, dell’organizzazione tutta, senza ridurlo a numeri o procedure da seguire.

Ed è necessario continuare a lavorare per facilitare la comunicazione interdisciplinare, affinché tutti siano messi nelle condizioni di comprendere quando si parla di fine vita, di accompagnamento e di cure palliative.

E proprio parlando di comunicazione, tra i desideri che rimangono all’équipe di Fondazione Santa Augusta per il futuro, c’è anche quello di migliorare il dialogo con la comunità in tema di fine vita:

“In fondo siamo tutti cittadini, sia qua che fuori, tutti abbiamo a che fare con la morte, e dovremmo parlarne assieme.

Accompagnare bene vuol dire fare del bene, volere la migliore vita possibile per quella persona, nel rispetto della sua storia, sino alla fine.

Quella volta che riesci ad accompagnare veramente la persona e i famigliari è una sensazione impagabile: abbiamo avuto famigliari che sono tornati anche dopo un mese per ringraziare. Si sono sentiti a loro agio, anche nella fine, anche se non a casa propria. E questa è una conquista”.

About the Author: Elisa Mencacci

Avatar photo
Psicologa clinica, tanatologa e autrice di numerose pubblicazioni sul fine vita. Fa parte del team dei narratorə di CURA.

Grazie di cuore

 

Se questo articolo ti è stato utile puoi fare una piccola donazione per sostenere il lavoro di CURA

rivista CURA settembre23

Con 1 euro puoi aiutarci a cambiare la narrazione stereotipata sulla vecchiaia e sul mondo delle RSA.

Leave A Comment