Le famiglie in RSA non sono ancora entrate del tutto dopo due anni di pandemia: un’assenza che è costata cara a loro, agli anziani e alle strutture. Ma è possibile oggi ripensare la cura della fragilità senza escluderle?
La pandemia nelle strutture è comparsa all’improvviso. Come in tutto il mondo, del resto.
Fino al giorno prima si entrava liberamente, si abbracciava, si sistemava l’armadio di mamma – che gli operatori non sanno come lo vuole lei! – si baciava sulle guance, si bevevano caffè, si pettinavano capelli, si usciva nei giardini a chiacchierare con le teste vicine. Prima del covid le famiglie in RSA passavano le ore senza che nessuno si curasse del tempo che trascorrevano all’interno. Anzi, più andavi a trovare la tua mamma, il tuo papà, tua sorella, tuo marito, più eri un bravo familiare, presente come si deve.
Il giorno dopo chiuso tutto.
Uno stop vissuto all’inizio come un tempo sospeso, forse anche un po’ leggero. Mentre la Lombardia faceva da apripista suo malgrado, nel resto d’Italia si osservava tra l’incredulo, il preoccupato e il reticente, chiedendosi cosa fosse meglio fare. Meglio chiudere le RSA, infondo sono piene di fragili.
Ma quella che si pensava sarebbe stata solo una breve misura precauzionale in poche settimane è diventato un imperativo. Mentre il virus entrava in alcune strutture e spegneva vite come candeline sulla torta, tutte le altre si asserragliavano dietro cartelli che vietavano l’accesso, dietro finestre chiuse e baci mandati con la mano.
Le famiglie sono state le prime solidali alleate in una scelta dolorosa che lasciava straniti tutti, personale compreso. E così le famiglie in RSA non sono più entrate davvero.
Tra l’affannosa ricerca di mascherine introvabili, il caos di normative e indicazioni sui tamponi e l’improvviso silenzio nei saloni la domenica, si accendevano i telefonini degli operatori e saltavano fuori i primi tablet comprati in fretta e furia dalle direzioni. Centinaia di migliaia di anziani familiarizzavano per la prima volta con le videochiamate tra sorrisi e lacrime e saluti un po’ urlati e un po’ impacciati. “Andrà tutto bene” ,“stai tranquilla”, “ci vedremo presto”: ce lo si diceva a vicenda, da un lato e dall’altro dello schermo. E intanto le famiglie in RSA non venivano più.
Il primo lockdown e i primi mesi sono passati così, a difendersi da un nemico invisibile e quasi invincibile, che faceva paura a tutti, rassicurati dal miraggio che la normalità sarebbe presto tornata se tenevamo duro per un po’.
Poi l’estate e la corsa dei contagi che rallenta, la curva che cala e il bisogno di rivedersi dal vivo, di toccarsi, che si fa forte quasi come la fame d’aria. La convinzione che non fare entrare le famiglie in RSA sia la cosa giusta inizia a scricchiolare sotto l’urgenza data dalla sensazione di perdere tempo prezioso che domina la vita di chi, di tempo, ne ha poco davvero. La lontananza dagli affetti inizia ad erodere la salute psicologica di tutti, anziani e familiari.
Un approfondimento a cura di Sara Sabbadin sul del tema delle chiusure in RSA e dei risvolti psicologici di queste pubblicato su rivista CURA online: «Ti sto aspettando». Il tempo nelle RSA ai tempi del Covid e l’isolamento senza fine»
Così si sperimentano le prime riaperture. E le prime differenze.
Da nord a sud ogni struttura un po’ apre e un po’ chiude, in uno scenario di desolante silenzio da parte delle istituzioni, strette d’assedio tra la responsabilità di garantire la protezione da un virus che è tutt’altro che scomparso e la pressione delle famiglie che non reggono più la lontananza, nelle pieghe di una normativa che anziché chiarire si nasconde dietro l’autonomia decisionale delle singole Direzioni, ogni struttura cerca la sua via di mezzo.
Le famiglie in RSA sono ancora un miraggio. Qualcuno organizza visite alle finestre, qualcun altro allestisce pareti in plexiglass, qualcuno permette il contatto e qualcuno no, qualcuno ammette solo mascherine ffp2 e qualcun altro dà ampia licenza poetica: da quella in strass fai-da-te alla triade camice-visiera-guanti.
La bella stagione aiuta, per fortuna. All’aperto i droplet fanno meno paura. Fuori dalle strutture quella del 2020 è un’estate leggera, quasi normale. Dentro decisamente meno, ma comunque un po’ la guardia la si abbassa anche lì.
Avevamo fatto i conti senza l’oste.
Se nella prima ondata avevamo avuto un assaggio, con la seconda tra ottobre e gennaio nelle strutture abbiamo toccato gli abissi più neri. La curva che si impenna, i battenti che si chiudono di nuovo. Ma anche se ci sigilliamo il virus entra ugualmente e abbatte vite come un tornado. È una ferita che sanguina fuori e dentro e che ancora non abbiamo veramente elaborato. Né come società, né come famiglie, né come strutture.
In questo scenario l’avvento del vaccino è una rivoluzione.
E quando viene il loro turno anziani e familiari dimostrano ancora una volta il proprio senso di responsabilità. Dalle prime dosi a gennaio 2021 nel corso dei mesi la copertura vaccinale nelle strutture supera rapidamente e ampiamente il 90% e di dose in dose il vaccino inocula anche fiducia e speranza nel futuro.
Anche molti familiari si vaccinano appena possibile, altri tentennano ma si convincono pur di rivedere dal vivo i propri cari, in pochi contestano l’obbligo di vaccinazione per gli accessi…purché si riapra! Il green pass diventa il nuovo lasciapassare per gli affetti. Base, rinforzato e poi super. Super come il bisogno di famiglia che va oltre ogni cosa.
In tutta Italia il 2021 scivola via mentre osserviamo la reale efficacia del vaccino: il virus muta, varia e continua a circolare, contagia, ma non crea più le ecatombi di prima. La speranza che il vaccino ha seminato al suo arrivo ha dato frutto. E così il mondo vaccinato fuori dalle RSA accelera: si torna al ristorante, allo stadio, si va a teatro, si va in vacanza, Si vive di nuovo.
Solo le RSA restano ferme ai box di partenza.
In un tempo sospeso, cristallizzato, dentro le strutture ci si interroga su cosa sia meglio fare, ci si chiede se sia il caso di riportare le famiglie in RSA.
Apriamo? Infondo, sono tutti vaccinati. Ma il covid c’è ancora, il rischio di contagio resta.
Quindi teniamo chiuso? Ma le famiglie non reggono più e non reggono nemmeno gli anziani.
Cosa facciamo? Cosa è giusto fare?
Sono passati più di due anni dal giorno in cui abbiamo chiuso per la prima volta le porte delle strutture e ormai le famiglie non tollerano più limitazioni. E noi non riusciamo più a trovare parole convincenti per giustificarle. Ma nemmeno le vorremmo trovare, a dire la verità.
Perché che le famiglie possano tornare a frequentare gli spazi di vita dei loro cari è una necessità percepita da tutti, anche dal personale delle strutture.
Che prezzo hanno pagato i nostri residenti in questi due anni! Non solo in termini di vite perdute, ma anche di solitudine e perdita di libertà. Nell’urgenza di dover difendere le loro vite, non abbiamo lasciato loro alcuna scelta. Allontanati dal resto del mondo per essere protetti, hanno pagato cara la loro fragilità. Come farfalle delicate prese tra le mani per proteggerle. Ma le mani sono ancora chiuse e le farfalle rischiano di soffocarci dentro, così strette da non trovare aria.
E che prezzo hanno pagato le famiglie! Inermi da fuori a guardare i cartelli che vietavano l’accesso. Abbiamo chiesto un atto di fiducia cieca. In questi due anni migliaia di familiari hanno consegnato le persone che amavano sulle porte di strutture mai viste, nelle mani di estranei incoraggianti che cercavano di rassicurarli. Hanno accettato di non poter vedere dove avrebbero dormito, con chi avrebbero mangiato, i volti e i nomi di chi li avrebbe accuditi.
Hanno accettato di far visita ai propri genitori, fratelli, sorelle, mogli, mariti, nonni solo su appuntamento, per un tempo stabilito da altri. Credo che davvero chi ha scelto di ricoverare il proprio caro in struttura in questi due anni abbia fatto uno sforzo inimmaginabile, figlio di un bisogno oggettivo che non lasciava altra scelta.
Il covid non è sparito. E le recenti normative che decretano le riaperture giornaliere alle famiglie non hanno risolto il problema di fondo. Né hanno individuato soluzioni concrete ai problemi oggettivi che ci trasciniamo da inizio pandemia.
Proprio ora, mentre scrivo questi pensieri, ricevo un messaggio da una collega: “abbiamo dei casi di positività, chiudiamo tutto e si riparte con gli isolamenti”. Era sconsolata, e la capisco. Perché se siamo stanchi noi che dentro le RSA ci lavoriamo, ma quando finiamo di lavorare usciamo alla vita, immaginate come stanno gli anziani.
È tempo di fermarsi seriamente a pensare a come modificare questo sistema che per proteggere chiude e soffoca. I due anni di pandemia hanno messo in evidenza le fragilità di un impianto di cura della cronicità basato su logiche organizzative e architettoniche obsolete, impreparato a gestire le emergenze, povero di risorse economiche e in continua carenza di personale.
Dimenticati dalle istituzioni, siamo comparsi qui e lì tra un decreto e l’altro, ogni tanto entrati nel raggio dei media quando la conta dei morti si faceva particolarmente alta, salvo poi dimenticarsi nuovamente di noi.
Eppure siamo sempre qui.
Noi chiusi dentro e le famiglie fuori, a suonare un campanello che vorremmo tanto aprire perché ormai fa un rumore assordante. I familiari il dito da quel campanello non lo alzeranno più finché non spalancheremo le porte. E hanno ragione. Le famiglie devono poter essere attori di cura al nostro fianco, abbiamo bisogno di loro come loro ne hanno di noi.
Dobbiamo uscire dalla logica di un’assistenza che consegna i vecchi dalle famiglie alle istituzioni, in un processo dove il caregiver si esaurisce in mesi, spesso anni, di strenua assistenza e poi esce completamente dal processo di cura, trasformandosi in uno spettatore fiducioso ma passivo. Si tratta di un sistema che esisteva prima del covid, e che la pandemia ha ulteriormente complicato.
Ma questa non è una rivoluzione che possiamo fare da soli, ognuno chiuso tra le proprie mura.
Abbiamo bisogno delle istituzioni, della società, di uno sforzo corale e collettivo per ripensare un sistema di cura che protegge includendo e non escludendo. Il motivo non è solo nobile, ma anche pratico, ci riguarda da vicino.
Come era solita dire mia nonna, diventare vecchi capita a tutti prima o poi, a Dio piacendo.
E potremmo aver bisogno dell’RSA, aggiungo io.
E io vorrei che un domani, da vecchia, nessuno mai sia messo nelle condizioni di dare una misura al tempo che potrò trascorrere con i miei cari.
Altri articoli a cura di Sara Sabbadin:
Sara Sabbadin è anche curatrice della pagina Facebook “I miei giorni con te. In viaggio con la demenza“.
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