Cura della non autosufficienza: uno sguardo alla cura della persona anziana in Puglia. Intervista a Nicola Castro, direttore Generale della Fondazione Giovanni XXIII di Bitonto (BA), nonché Presidente regionale dell’ANSIDIPP , l’Associazione dei Manager del Sociale e del Socio Sanitario. A cura di Franco Iurlaro
Franco Iurlaro, giornalista e consulente per il settore sociosanitario. |
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Nicola Castro è Direttore Generale della Fondazione Giovanni XXIII di Bitonto (BA). |
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Cura della non autosufficienza: il convegno a Bari
Era il febbraio 2019, quando a Bari, in una sala gremita per il convegno La nuova disciplina della Regione Puglia sull’assistenza sociosanitaria residenziale e semi residenziale delle persone non autosufficienti e diversamente abili: adempimenti e opportunità per i servizi sociosanitari, oltre 200 manager del sociale e del sociosanitario si sono riuniti per confrontarsi sulla riorganizzazione delle strutture sociosanitarie introdotta dalla Regione Puglia, avviata con il coinvolgimento di ANSIDIPP in sinergia con UNEBA, ASSOAP e AGESPI. Tra gli argomenti: cura della non autosufficienza, disabilità, assistenza ed emancipazione.
Presente al convegno, tra i prestigiosi relatori, l’assessore regionale alle Politiche sociali Salvatore Ruggeri che ha ringraziato ANSIDIPP «per averci aiutati a portare a termine la stesura di questo regolamento che finalmente dà delle linee guida per cercare di definire i fabbisogni per gli accreditamenti e la contrattualizzazione delle persone non autosufficienti o dei centri diurni».
Riferiva in quel contesto il presidente di ANSIDIPP Puglia, Nicola Castro: «La nostra associazione con le altre associazioni riunite in FAC, la Federazione delle associazioni di categoria, ha seguito l’intero percorso che ha portato alla riorganizzazione regionale, intervenendo anche in audizione presso la Commissione regionale Sanità. In particolare, per le RSA e i Centri diurni sono stati individuati i nuovi fabbisogni, dettata la nuova disciplina per l’autorizzazione alla realizzazione ed esercizio, fissati i requisiti minimi strutturali, tecnologici e organizzativi per l’autorizzazione, determinati gli ulteriori requisiti per l’accreditamento e i criteri di eleggibilità degli utenti. Ora la sfida che le strutture devono cogliere è adeguarsi ai nuovi requisiti per poter ottenere la riconversione in RSA, cogliendo questa occasione di miglioramento dei servizi e di aumento della platea posti letto. La nostra associazione sarà al loro fianco in questa transizione».
Cura della non autosufficienza: la situazione nella regione Puglia
Sono passati alcuni anni, c’è stato il tempo di reazione e lotta al Covid, qual è la situazione attuale?
Si tratta di una riforma [la legge regionale sull’Invecchiamento Attivo, LR 16/2019, ndr] che ancora non ha visto la luce, anche a causa degli avvenimenti pandemici del 2020. Sostanzialmente questa legge di riforma metteva anche un po’ di ordine in una disciplina che oggettivamente presentava qualche forma di atipicità rispetto agli altri contesti regionali, perché pure avevamo una forma ibrida che era la RSS, a due s. Quando ci incontravamo per motivi associativi con gli altri colleghi delle altre regioni sentivi parlare di RSA o di Casa di Riposo, ovvero di struttura residenziale per autosufficienti o per non autosufficienti.
In Puglia invece, durante il Governo Vendola, si era pensato di introdurre questa forma mista sociosanitaria che oggettivamente per la Regione è stata un fatto positivo, perché ha consentito a tante strutture di potersi riqualificare e aprirsi al mondo della non autosufficienza che prima era solo appannaggio delle RSA (sanitarie).
Di queste strutture, pubbliche o appaltate dal pubblico in Puglia ce n’erano soltanto undici credo ed erano tutte del gruppo Angelucci a cui erano state affidate, a suo tempo, da una gara fatta dall’allora Presidente della Regione Raffaele Fitto, l’attuale Ministro delle politiche europee.
Come erano regolamentate le RSS?
Queste residenze socio sanitarie non erano assoggettate a un parere di compatibilità, ed erano completamente svincolate da un percorso di programmazione. Per cui, certo, sono state importanti per dare una risposta tempestiva ai bisogni degli anziani non autosufficienti.
Era possibile aprire facilmente una RSS, anche il privato che voleva, lo poteva fare tranquillamente: bastava rispettare i requisiti del regolamento regionale n. 4/2007. Alcune di queste poi venivano classificate e contrattualizzate sulla base di budget disponibili delle Aziende Sanitarie Locali. In questa situazione, non proprio lineare, si sono realizzate molte strutture residenziali, proprio perché erano completamente avulse da una programmazione sanitaria relativamente al all’offerta di posti letto di RSA.
Conseguentemente quali sono stati gli obiettivi del percorso, condiviso, di riforma?
Anzitutto cercare di mettere ordine, anche facendo transitare queste RSS riqualificandole in RSA, definendo dapprima il fabbisogno, un’operazione fatta per la prima volta in Puglia. Le residenze in esercizio si vanno ad autorizzare sulla base di requisiti stabiliti in maniera organica nei nuovi regolamenti del 2019 e si procede con l’accreditamento per quelle che intendono accreditarsi per poter poi avere una contrattualizzazione con il servizio sanitario nazionale, attraverso le ASL. Ciò nella condizione, però, che siano in possesso di requisiti “aggiuntivi” in ordine ai sistemi di gestione all’interno delle strutture.
Il fabbisogno calcolato è coerente con la situazione regionale della non autosufficienza?
Chiaramente il fabbisogno definito è ancora a mio parere estremamente insufficiente rispetto a quelle che sono le esigenze che emergono dal territorio. Basti vedere le liste di attesa che noi abbiamo sulle nostre strutture. Liste che si creano soprattutto per le strutture convenzionate con il sistema sanitario, mentre invece quelle private queste liste d’attesa non le hanno, perché evidentemente non trovi tanta gente disponibile o nelle condizioni di poter sostenere oneri oggettivamente rilevanti. Comunque è già stato importante aver fissato un dato di fabbisogno che auspichiamo poi – e sta già avvenendo per la verità – crescerà progressivamente sulla base di quelle che sono le scelte di programmazione regionale, tenendo però conto che la Regione Puglia esce ora da una situazione di dissesto. Quindi abbiamo – come si dice dalle nostre parti – la “condizionale”, nel senso che dobbiamo stare attenti in quanto tutte le nostre spese vengono preventivamente guardate in controluce alla dal Ministero, dal MEF. Però oggettivamente c’è stato un cambio di passo e i posti stanno progressivamente aumentando.
Qual è stato il vostro percorso regionale in questi anni?
Il problema è che noi ci siamo avviati nel 2019 confidando che alla fine dell’anno tante strutture sarebbero state autorizzate e accreditate in base alla nuova disciplina. Poi è scoppiato il pandemonio del Covid, si è fermato tutto, si è rallentato. È evidente che l’organo tecnico preposto non poteva andare in giro a fare verifiche per le autorizzazioni. Avevamo ben altro a cui pensare. Secondo il nuovo regolamento le strutture – quelle che già avevano avuto l’autorizzazione definitiva al funzionamento – per una norma transitoria potevano mantenere i precedenti requisiti dal punto di vista strutturale, che comunque erano di tutto rispetto, perché non troppo datati nel tempo, risalenti al 2007 e sostanzialmente molto vicini a quelli del 2019. Mentre invece avevamo bisogno di adeguare gli organici – quindi c’è stato un aumento oggettivamente significativo degli organici – e soprattutto di rivedere i sistemi di gestione, al fine di porli in linea con quelli che sono i criteri sui sistemi di accreditamento.
Però con il Covid sono nate nuove problematiche, non previste, che sono – per quanto riguarda gli organici – relative al problema che alcune figure professionali non sono più sostanzialmente disponibili sul mercato. Durante la pandemia c’è stata una grande fuga verso gli ospedali, i quali hanno fatto dei piani di reclutamento straordinari di personale, per esempio degli infermieri. E chiaramente anche molti che lavoravano nel nostro settore hanno preferito andare a lavorare presso il Servizio sanitario nazionale. È evidente che ci sia un’ambizione a lavorare di più nel pubblico, per tutta una serie di considerazioni anche di carattere economico che però potrebbero essere tranquillamente superate. I dipartimenti di prevenzione stanno attualmente girando per effettuare le necessarie visite di autorizzazione e accreditamento, sia pure con grandi difficoltà e tempi che stanno diventando biblici, pur dando atto che da questo percorso, ormai quadriennale, dobbiamo togliere certamente due anni di Covid. Contabilizzando il tutto c’è ancora una percentuale molto bassa di processi chiusi, penso circa il 40%.
Un lavoro che risulta impegnativo e notevole.
Devono verificare tutte le strutture esistenti per portarle ad accreditamento, e le carenze che vengono segnalate sono soprattutto in ordine agli standard di personale. Sono carenze che oggettivamente le strutture non sono in grado di poter di poter colmare perché gli infermieri non ci sono e nasce il problema dei medici. Nel nuovo Regolamento è prevista la figura del direttore sanitario, che non deve superare i 70 anni di età e che non deve avere forme di incompatibilità; per cui quei pochissimi pensionati medici “giovani” che stanno in giro ce li stiamo rubando reciprocamente tra strutture.
Chiaramente siccome anche quello è “mercato”, i prezzi stanno lievitando, per cui anche le somme che sono previste nel piano tariffario – perché è stato anche fatto questo – non risultano più in linea. Basti pensare che anche per un infermiere tutti quanti siamo ormai costretti a pagare superminimi importanti, a cui aggiungere altri tipi di bonus e di benefit pur di tenerli legati alle nostre istituzioni.
Mentre, per quanto riguarda i livelli assistenziali richiesti dalla riforma?
Un’altra novità della riforma è stata anche quella di aver introdotto diversi livelli di intensità di assistenza, dove prima c’era un’unica definizione di assistenza per la persona anziana non autosufficiente, cioè di di cura della non autosufficienza. Tra l’altro ora sono previste le RSA di mantenimento e poi l’assistenza cosiddetta estensiva, mentre il primo livello intensivo è una questione che riguarda i reparti ospedalieri.
Nel distinguere i livelli del c.d. mantenimento normale dal mantenimento demenze e l’estensiva normale dalle estensive demenze, si riprende il tema già anticipato della corretta tariffazione, a suo tempo costruita inserendo come costo del personale quanto previsto dalle retribuzioni contrattuali della cooperazione sociale – o dell’UNEBA o dell’ANASTE – oggi non più attuali per via delle necessarie integrazioni salariali. Quando io, come altri, ci sediamo al tavolo regionale per discutere le tariffe, direi che può essere banale lamentarsi che gli infermieri vanno via verso il sistema ospedaliero.
Per carità, è un diritto costituzionalmente garantito che ognuno si scelga il contratto di riferimento che vuole. Ma nessuno ci impedisce però di imporre a tutti i gestori, per parità di trattamento e posizionamento sul mercato, una retribuzione che non sia inferiore a quella che viene praticata dal Servizio sanitario nazionale, pur applicando i contratti della propria categoria. E inoltre è necessario assicurare che il personale sia totalmente alle dipendenze delle residenze, e che le stesse non abbiano forme di esternalizzazione di servizi che non siano legate ai servizi quali la cucina, la lavanderia, le pulizie.
Tutto il resto del personale socio sanitario, compresi i medici, deve essere dipendente perché sei tu che ti stai accreditando e sei tu che devi garantire i requisiti di accreditamento. Puoi anche chiedere espressamente che i gestori debbano assicurare la retribuzione all’OSS o all’infermiere a non meno di 1€ di quello che viene pagato il collega in ospedale. In questo modo noi eviteremmo questa emorragia di personale dalle RSA, una migrazione che è avvenuta e continua ad avvenire periodicamente. Basta che esca un avviso pubblico, un concorso e tu vedi proprio svuotarsi le strutture, mettendo il sistema in crisi. Se invece un infermiere sa che può venire a lavorare, per esempio, alla Fondazione Giovanni XXIII, sapendo di poter contare sul contratto collettivo nazionale di lavoro più la garanzia di un’integrazione retributiva che lo rende paritario al suo collega ospedaliero che magari si deve spostare di 40 chilometri per andare a lavorare all’ospedale, invece lavorare sotto casa nella nostra struttura. Come già successo, credo che a queste condizioni l’infermiere scelga di venire da noi. Io credo che con un’adeguata politica retributiva, una buona parte di OSS, infermieri o di altre professionalità riusciremmo a trattenerle nelle nostre residenze socio sanitarie. Si stanno dunque creando delle situazioni davvero difficili perché si vuole arrivare agli accreditamenti, prodromici all’assegnazione dei nuovi posti letto. Se non c’è l’accreditamento definitivo non si può avere distribuzione di nuovi posti in convenzione e quindi le attuali liste d’attesa rimarranno tali anzi peggioreranno. Il principale problema è lo standard di dotazione di personale, e per alcune strutture sta diventando un ostacolo per arrivare all’accreditamento stesso. (Leggi anche: Fuga del personale dalle RSA: cause e soluzioni praticabili).
Come si può considerare, oggi, la normativa regionale approvata nel 2019?
Per la verità la Regione ha fatto un provvedimento molto importante. Lo ha motivato, anche dal punto di vista della legittimità, legando le attribuzioni di posti letto allo storico, cioè praticamente il 60% dei posti in maniera provvisoria rispetto le dotazioni delle residenze in fase di riconversione, in relazione a quel 100% che spetterebbe in base alla distribuzione dei posti in base ai distretti socio sanitari. Per cui, se faccio l’esempio del mio Ente, sulla base di quello che è il fabbisogno distrettuale di appartenenza ci spettavano 100 posti letto; provvisoriamente ce ne hanno attribuiti 60 (applicando a questi la nuova tariffa contributiva) e gli altri 40 ce li daranno a completamento del procedimento di accreditamento. Questa è stata oggettivamente una boccata di ossigeno: se ci sono venuti incontro, lo hanno potuto fare motivandolo adeguatamente innanzi alle autorità di controllo superiori.
Il problema è stato che nel frattempo molte strutture si erano adeguate al nuovo standard di personale, aumentandolo in maniera significativa: per esempio il rapporto ospite infermieri è aumentato del 50. Purtroppo, a causa del Covid e per le motivazioni che ci siamo detti, il procedimento regionale di accreditamento non è stato completato, ma tutti gli oneri, compresi quelli formativi sono stati sostenuti e si stanno sostenendo da parte delle strutture. Quindi adesso si spera che entro la fine dell’anno si possa dire conclusa questa fase così da poter guardare al futuro con più ottimismo. Altresì sperare che progressivamente questa disponibilità di posti coperti dal contributo di spese di rilievo sanitario aumenti, perché oggettivamente – indipendentemente da tutte le questioni di cui abbiamo parlato, unitamente al tema del necessario sviluppo dell’assistenza domiciliare – se in Puglia (più di un milione di ultrasessantacinquenni) abbiamo 8000 posti letto di RSA e li andiamo a mettere in relazione ai 36.000 posti del Veneto (circa 1.150.000 di ultrasessantacinquenni), qualcosa già non funziona.
Ora si può parlare di inappropriatezza, si può parlare di possibilità di attivare servizi alternativi al ricovero, tutto quello che vogliamo, ma per due regioni che hanno sostanzialmente la stessa popolazione – e non credo indici di vecchiaia dissimili o comunque distanti anni luce – qualcuno poi ci dovrebbe spiegare perché da una parte troviamo 36.000 e dall’altra parte 8000 posti letto. E del resto io posso dire che stamattina avrò 60 persone in lista d’attesa ed è una struttura di 100 posti: questa gente rimane a lungo senza assistenza.
Come sono i rapporti delle associazioni di categoria con l’assessorato regionale salute, sport e buona vita?
Anche con l’attuale Assessore (Rocco Palese), per dire banalmente, siamo riusciti a fare un gruppo WhatsApp, dove l’Assessore ci anticipa anche i provvedimenti che sono da attivare in Giunta: c’è cioè un’interlocuzione, un tavolo se non formalmente permanente ma sostanzialmente sì, un luogo dove ci sediamo. Le cose che ci dobbiamo dire le monitoriamo e quindi, tutto sommato, devo dire che c’è stato un cambio di passo; questo Assessore sta portando avanti il problema dell’esplosione della non autosufficienza, mentre per troppo tempo altri non hanno assolutamente capito che ci stava arrivando addosso uno tsunami.
Grazie alle opportunità d’incontro, nell’ultima riunione ho potuto evidenziare all’Assessore che noi passiamo metà della nostra giornata ad accogliere le persone e a non poter loro dare una risposta. Si era persa l’attenzione sull’assistenza domiciliare e in Commissione un consigliere regionale glielo ha ricordato. In questo modo auspichiamo un nuovo capitolo sulla stessa assistenza domiciliare e sulle cure intermedie, dove le residenze siano chiamate a svolgere un ruolo.
Penso che le attuali residenze, per le competenze acquisite nel tempo e gli obiettivi sulla qualità e la centralità della persona, siano oggi le uniche organizzazioni che abbiano risorse e strumenti per gestire nuovi centri multi servizi, dalla domiciliarità alla residenzialità.
Esatto, e quindi ci aspettiamo che esca (dovrebbe uscire a breve) il regolamento di accreditamento per le cure intermedie, che potrebbero definire una corsia preferenziale per la loro gestione da parte delle strutture qualificate. In commissione, alcuni giorni fa, un Consigliere regionale ci ha detto che se stiamo già facendo un procedimento di accreditamento dal punto di vista residenziale – ottenendo così il “patentino particolare” di chi può lavorare con il servizio sanitario nazionale – non si capisce perché non ci possa essere assegnata immediatamente l’assistenza domiciliare.
Se così fosse potremmo dare una risposta a tutte quelle persone che quotidianamente vengono a chiederci servizi: l’anno scorso, per esempio, con la Fondazione ho inaugurato un centro di ascolto e di orientamento al centro della città, dove avevamo un immobile, un trilocale centralissimo. Però, se la gente viene e sottopone la propria esigenza e noi non siamo in grado di dare una risposta – come accade per l’assistenza domiciliare – diventa frustrante. Al momento potresti anche offrire il servizio, ma il problema diventa chi lo paga. Bisogna trovare in fretta una soluzione.
Chi si occupa di welfare deve capire come sono fatte oggi le famiglie: disgregate con i figli che lavorano fuori, o con i figli che non nascono proprio e con gli anziani che grazie a Dio vivono a lungo. Una continua processione di persone ogni mattina si recano dall’assistente sociale del Comune, ma non riescono ad avere risposta alle loro esigenze. Provano quindi con il giro delle parrocchie per arrivare al direttore della struttura per anziani, pensando che possa risolvere il loro problema.
Io, in ormai 43 anni di esperienza professionale, non mi ero mai trovato nella situazione di dover ricevere cinque, sei persone al giorno che chiedono il ricovero in RSA. Non so cosa sia successo, ma una cosa la posso dire: che queste richieste di assistenza sono enormi e che una pressione enorme sul sistema significa che chi doveva programmare per tempo non lo ha fatto. E adesso è arrivata l’ondata di piena.
Per tornare sul tema del personale, degli infermieri in particolare, ricordo che nel 2000 il Trentino, attraverso una convenzione internazionale con la Colombia, ha visto arrivare un buon gruppo di infermiere neolaureate che si sono distribuite su territorio e servizi. Gran parte di loro si sono ulteriormente formate, hanno trovato famiglia e oggi sono anche diventate manager del sistema. C’è qualcosa in prospettiva anche da voi?
Abbiamo avuto un colloquio preliminare con una multinazionale che si occupa di ricerca, selezione, formazione e collocazione di risorse umane. Si stanno organizzando per proporre un percorso programmato per medici e infermieri da Cuba, che però deve poter prevedere un accordo tra Governi.
Nel nostro piccolo noi possiamo solo specializzare degli OSS al fine di integrare il lavoro infermieristico anche togliendo un’unità per turno. Però oggettivamente la situazione deve essere affrontata diversamente, a partire dal necessario approfondimento nella Conferenza Stato-Regioni.
E, all’interno della realtà della tua Fondazione, oltre al centro di ascolto, sei riuscito a introdurre altri progetti innovativi?
Sì, ci lavoriamo. Proprio stamattina c’è stata una conferenza stampa in Comune dove abbiamo annunciato che inizieremo una collaborazione con altre realtà del territorio per cercare di attivare una rete sfruttando le opportunità che ci danno gli strumenti della coprogettazione e della cogestione.
Si parte dall’adesione a un bando pubblico, con finanziamenti europei, per cercare di metterci insieme per vedere di poter dare qualche servizio ulteriore al territorio, di natura formativa e consulenziale. In particolare noi abbiamo oggettivamente delle figure professionali e delle strutture che, nell’ambito della non autosufficienza, potremmo utilizzare anche a favore della popolazione anziana disabile.
Poi c’è una cooperativa sociale che si occupa di disabili e ha anche un centro di domotica sociale, e la Fondazione Santi Medici con ulteriori altri servizi socio sanitari. Nella conferenza stampa abbiamo anche presentato il progetto sperimentale che ci hanno affidato. Sostanzialmente come Fondazione Giovanni XXIII gestiamo tre sportelli di ascolto nell’ambito territoriale, attraverso i quali raccogliamo una domanda di interventi assistenziali che evidentemente non giunge attraverso canali ufficiali e che probabilmente è una domanda non strutturata.
Una domanda che magari non trova nemmeno una risposta classica attraverso il Punto Unico di Accesso, che vorremmo invece poter accogliere grazie alla rete che abbiamo costituito. Per esempio la mia Fondazione ha disponibile il centro diurno Alzheimer da cinquecento metri quadri, con il suo giardino, le sue palestre, il personale. Però chiude alle cinque del pomeriggio. Potremmo quindi metterlo a disposizione anche per attività di riabilitazione di ragazzi, di bambini che hanno problematiche particolari. Farlo assieme potrebbe vedere noi mettere la struttura e magari collegare anche le professionalità delle tre realtà, dallo psicologo al terapista occupazionale, all’educatore, al fisiatra per alleviare questa pressione di intervento sociale e sociosanitario che arriva sul pubblico e che non trova risposte immediate, anche perché oggettivamente il pubblico non è flessibile negli interventi.
Lo stesso, prima di darti una risposta, soprattutto se quella risposta non è “incasellata” in un prontuario diventa difficile: chi la deve dare vuole preventivamente sapere come, quanto, quando, quanto deve durare, qual è il capitolo di spesa, perché è così che è organizzata la pubblica amministrazione. L’Assessore del welfare del Comune di Bitonto sta provando a costruire un Progetto benessere di comunità: se riusciamo ad attivarlo in maniera sperimentale e va bene, poi lo inseriremo anche nel dialogo sociale di zona. Altresì come Fondazione ci siamo proposti di fare attività di supporto ai servizi, o anche consulenziale per le famiglie che tengono a casa malati di Alzheimer, ma anche valutazioni della patologia (che già facciamo per i nostri ospiti), oltre a quelle dello stato nutrizionale degli anziani, le tabelle dietetiche, valutazioni neurologiche oppure attività occupazionali coinvolgendo il territorio e anche altre associazioni del territorio.
Vorremmo anche agire da facilitatori perché siamo convinti che il territorio ha delle risorse inesplorate e inutilizzate, anche di natura volontaria, perché se si sceglie di metterle in circolo bisogna anche prendersi l’onere professionale di organizzarle. E se ci mettiamo insieme probabilmente mettiamo insieme strutture e professioni, e anche passioni. Potremmo essere anche attrattivi anche nei confronti di altre associazioni di volontariato, ma anche di singoli cittadini che possono vedere in questa rete un’opportunità di impegno civile.
Potremmo chiudere dicendoci che il futuro è proprio essere in rete con progettualità nella e per la comunità locale?
Penso che con queste progettualità l’Assessore stia operando in maniera lungimirante. Noi ci siamo messi in gioco e lui sta cercando di farci lavorare insieme, partendo banalmente dal metterci intorno a un tavolo e rivedendoci, nell’ambito dei servizi e della cura della non autosufficienza, non più come dei concorrenti. Insieme possiamo invece provare delle nuove opportunità, pur essendo oggettivamente soggetti diversi. Dobbiamo aprirci al territorio mettendo a disposizione le nostre professionalità, le nostre strutture, le nostre risorse e questo non potrà che essere positivo per la comunità.
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Cura della non autosufficienza: uno sguardo alla cura della persona anziana in Puglia. Intervista a Nicola Castro, direttore Generale della Fondazione Giovanni XXIII di Bitonto (BA), nonché Presidente regionale dell’ANSIDIPP , l’Associazione dei Manager del Sociale e del Socio Sanitario. A cura di Franco Iurlaro
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Nicola Castro è Direttore Generale della Fondazione Giovanni XXIII di Bitonto (BA). |
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Era il febbraio 2019, quando a Bari, in una sala gremita per il convegno La nuova disciplina della Regione Puglia sull’assistenza sociosanitaria residenziale e semi residenziale delle persone non autosufficienti e diversamente abili: adempimenti e opportunità per i servizi sociosanitari, oltre 200 manager del sociale e del sociosanitario si sono riuniti per confrontarsi sulla riorganizzazione delle strutture sociosanitarie introdotta dalla Regione Puglia, avviata con il coinvolgimento di ANSIDIPP in sinergia con UNEBA, ASSOAP e AGESPI. Tra gli argomenti: cura della non autosufficienza, disabilità, assistenza ed emancipazione.
Presente al convegno, tra i prestigiosi relatori, l’assessore regionale alle Politiche sociali Salvatore Ruggeri che ha ringraziato ANSIDIPP «per averci aiutati a portare a termine la stesura di questo regolamento che finalmente dà delle linee guida per cercare di definire i fabbisogni per gli accreditamenti e la contrattualizzazione delle persone non autosufficienti o dei centri diurni».
Riferiva in quel contesto il presidente di ANSIDIPP Puglia, Nicola Castro: «La nostra associazione con le altre associazioni riunite in FAC, la Federazione delle associazioni di categoria, ha seguito l’intero percorso che ha portato alla riorganizzazione regionale, intervenendo anche in audizione presso la Commissione regionale Sanità. In particolare, per le RSA e i Centri diurni sono stati individuati i nuovi fabbisogni, dettata la nuova disciplina per l’autorizzazione alla realizzazione ed esercizio, fissati i requisiti minimi strutturali, tecnologici e organizzativi per l’autorizzazione, determinati gli ulteriori requisiti per l’accreditamento e i criteri di eleggibilità degli utenti. Ora la sfida che le strutture devono cogliere è adeguarsi ai nuovi requisiti per poter ottenere la riconversione in RSA, cogliendo questa occasione di miglioramento dei servizi e di aumento della platea posti letto. La nostra associazione sarà al loro fianco in questa transizione».
Cura della non autosufficienza: la situazione nella regione Puglia
Sono passati alcuni anni, c’è stato il tempo di reazione e lotta al Covid, qual è la situazione attuale?
Si tratta di una riforma [la legge regionale sull’Invecchiamento Attivo, LR 16/2019, ndr] che ancora non ha visto la luce, anche a causa degli avvenimenti pandemici del 2020. Sostanzialmente questa legge di riforma metteva anche un po’ di ordine in una disciplina che oggettivamente presentava qualche forma di atipicità rispetto agli altri contesti regionali, perché pure avevamo una forma ibrida che era la RSS, a due s. Quando ci incontravamo per motivi associativi con gli altri colleghi delle altre regioni sentivi parlare di RSA o di Casa di Riposo, ovvero di struttura residenziale per autosufficienti o per non autosufficienti.
In Puglia invece, durante il Governo Vendola, si era pensato di introdurre questa forma mista sociosanitaria che oggettivamente per la Regione è stata un fatto positivo, perché ha consentito a tante strutture di potersi riqualificare e aprirsi al mondo della non autosufficienza che prima era solo appannaggio delle RSA (sanitarie).
Di queste strutture, pubbliche o appaltate dal pubblico in Puglia ce n’erano soltanto undici credo ed erano tutte del gruppo Angelucci a cui erano state affidate, a suo tempo, da una gara fatta dall’allora Presidente della Regione Raffaele Fitto, l’attuale Ministro delle politiche europee.
Come erano regolamentate le RSS?
Queste residenze socio sanitarie non erano assoggettate a un parere di compatibilità, ed erano completamente svincolate da un percorso di programmazione. Per cui, certo, sono state importanti per dare una risposta tempestiva ai bisogni degli anziani non autosufficienti.
Era possibile aprire facilmente una RSS, anche il privato che voleva, lo poteva fare tranquillamente: bastava rispettare i requisiti del regolamento regionale n. 4/2007. Alcune di queste poi venivano classificate e contrattualizzate sulla base di budget disponibili delle Aziende Sanitarie Locali. In questa situazione, non proprio lineare, si sono realizzate molte strutture residenziali, proprio perché erano completamente avulse da una programmazione sanitaria relativamente al all’offerta di posti letto di RSA.
Conseguentemente quali sono stati gli obiettivi del percorso, condiviso, di riforma?
Anzitutto cercare di mettere ordine, anche facendo transitare queste RSS riqualificandole in RSA, definendo dapprima il fabbisogno, un’operazione fatta per la prima volta in Puglia. Le residenze in esercizio si vanno ad autorizzare sulla base di requisiti stabiliti in maniera organica nei nuovi regolamenti del 2019 e si procede con l’accreditamento per quelle che intendono accreditarsi per poter poi avere una contrattualizzazione con il servizio sanitario nazionale, attraverso le ASL. Ciò nella condizione, però, che siano in possesso di requisiti “aggiuntivi” in ordine ai sistemi di gestione all’interno delle strutture.
Il fabbisogno calcolato è coerente con la situazione regionale della non autosufficienza?
Chiaramente il fabbisogno definito è ancora a mio parere estremamente insufficiente rispetto a quelle che sono le esigenze che emergono dal territorio. Basti vedere le liste di attesa che noi abbiamo sulle nostre strutture. Liste che si creano soprattutto per le strutture convenzionate con il sistema sanitario, mentre invece quelle private queste liste d’attesa non le hanno, perché evidentemente non trovi tanta gente disponibile o nelle condizioni di poter sostenere oneri oggettivamente rilevanti. Comunque è già stato importante aver fissato un dato di fabbisogno che auspichiamo poi – e sta già avvenendo per la verità – crescerà progressivamente sulla base di quelle che sono le scelte di programmazione regionale, tenendo però conto che la Regione Puglia esce ora da una situazione di dissesto. Quindi abbiamo – come si dice dalle nostre parti – la “condizionale”, nel senso che dobbiamo stare attenti in quanto tutte le nostre spese vengono preventivamente guardate in controluce alla dal Ministero, dal MEF. Però oggettivamente c’è stato un cambio di passo e i posti stanno progressivamente aumentando.
Qual è stato il vostro percorso regionale in questi anni?
Il problema è che noi ci siamo avviati nel 2019 confidando che alla fine dell’anno tante strutture sarebbero state autorizzate e accreditate in base alla nuova disciplina. Poi è scoppiato il pandemonio del Covid, si è fermato tutto, si è rallentato. È evidente che l’organo tecnico preposto non poteva andare in giro a fare verifiche per le autorizzazioni. Avevamo ben altro a cui pensare. Secondo il nuovo regolamento le strutture – quelle che già avevano avuto l’autorizzazione definitiva al funzionamento – per una norma transitoria potevano mantenere i precedenti requisiti dal punto di vista strutturale, che comunque erano di tutto rispetto, perché non troppo datati nel tempo, risalenti al 2007 e sostanzialmente molto vicini a quelli del 2019. Mentre invece avevamo bisogno di adeguare gli organici – quindi c’è stato un aumento oggettivamente significativo degli organici – e soprattutto di rivedere i sistemi di gestione, al fine di porli in linea con quelli che sono i criteri sui sistemi di accreditamento.
Però con il Covid sono nate nuove problematiche, non previste, che sono – per quanto riguarda gli organici – relative al problema che alcune figure professionali non sono più sostanzialmente disponibili sul mercato. Durante la pandemia c’è stata una grande fuga verso gli ospedali, i quali hanno fatto dei piani di reclutamento straordinari di personale, per esempio degli infermieri. E chiaramente anche molti che lavoravano nel nostro settore hanno preferito andare a lavorare presso il Servizio sanitario nazionale. È evidente che ci sia un’ambizione a lavorare di più nel pubblico, per tutta una serie di considerazioni anche di carattere economico che però potrebbero essere tranquillamente superate. I dipartimenti di prevenzione stanno attualmente girando per effettuare le necessarie visite di autorizzazione e accreditamento, sia pure con grandi difficoltà e tempi che stanno diventando biblici, pur dando atto che da questo percorso, ormai quadriennale, dobbiamo togliere certamente due anni di Covid. Contabilizzando il tutto c’è ancora una percentuale molto bassa di processi chiusi, penso circa il 40%.
Un lavoro che risulta impegnativo e notevole.
Devono verificare tutte le strutture esistenti per portarle ad accreditamento, e le carenze che vengono segnalate sono soprattutto in ordine agli standard di personale. Sono carenze che oggettivamente le strutture non sono in grado di poter di poter colmare perché gli infermieri non ci sono e nasce il problema dei medici. Nel nuovo Regolamento è prevista la figura del direttore sanitario, che non deve superare i 70 anni di età e che non deve avere forme di incompatibilità; per cui quei pochissimi pensionati medici “giovani” che stanno in giro ce li stiamo rubando reciprocamente tra strutture.
Chiaramente siccome anche quello è “mercato”, i prezzi stanno lievitando, per cui anche le somme che sono previste nel piano tariffario – perché è stato anche fatto questo – non risultano più in linea. Basti pensare che anche per un infermiere tutti quanti siamo ormai costretti a pagare superminimi importanti, a cui aggiungere altri tipi di bonus e di benefit pur di tenerli legati alle nostre istituzioni.
Mentre, per quanto riguarda i livelli assistenziali richiesti dalla riforma?
Un’altra novità della riforma è stata anche quella di aver introdotto diversi livelli di intensità di assistenza, dove prima c’era un’unica definizione di assistenza per la persona anziana non autosufficiente, cioè di di cura della non autosufficienza. Tra l’altro ora sono previste le RSA di mantenimento e poi l’assistenza cosiddetta estensiva, mentre il primo livello intensivo è una questione che riguarda i reparti ospedalieri.
Nel distinguere i livelli del c.d. mantenimento normale dal mantenimento demenze e l’estensiva normale dalle estensive demenze, si riprende il tema già anticipato della corretta tariffazione, a suo tempo costruita inserendo come costo del personale quanto previsto dalle retribuzioni contrattuali della cooperazione sociale – o dell’UNEBA o dell’ANASTE – oggi non più attuali per via delle necessarie integrazioni salariali. Quando io, come altri, ci sediamo al tavolo regionale per discutere le tariffe, direi che può essere banale lamentarsi che gli infermieri vanno via verso il sistema ospedaliero.
Per carità, è un diritto costituzionalmente garantito che ognuno si scelga il contratto di riferimento che vuole. Ma nessuno ci impedisce però di imporre a tutti i gestori, per parità di trattamento e posizionamento sul mercato, una retribuzione che non sia inferiore a quella che viene praticata dal Servizio sanitario nazionale, pur applicando i contratti della propria categoria. E inoltre è necessario assicurare che il personale sia totalmente alle dipendenze delle residenze, e che le stesse non abbiano forme di esternalizzazione di servizi che non siano legate ai servizi quali la cucina, la lavanderia, le pulizie.
Tutto il resto del personale socio sanitario, compresi i medici, deve essere dipendente perché sei tu che ti stai accreditando e sei tu che devi garantire i requisiti di accreditamento. Puoi anche chiedere espressamente che i gestori debbano assicurare la retribuzione all’OSS o all’infermiere a non meno di 1€ di quello che viene pagato il collega in ospedale. In questo modo noi eviteremmo questa emorragia di personale dalle RSA, una migrazione che è avvenuta e continua ad avvenire periodicamente. Basta che esca un avviso pubblico, un concorso e tu vedi proprio svuotarsi le strutture, mettendo il sistema in crisi. Se invece un infermiere sa che può venire a lavorare, per esempio, alla Fondazione Giovanni XXIII, sapendo di poter contare sul contratto collettivo nazionale di lavoro più la garanzia di un’integrazione retributiva che lo rende paritario al suo collega ospedaliero che magari si deve spostare di 40 chilometri per andare a lavorare all’ospedale, invece lavorare sotto casa nella nostra struttura. Come già successo, credo che a queste condizioni l’infermiere scelga di venire da noi. Io credo che con un’adeguata politica retributiva, una buona parte di OSS, infermieri o di altre professionalità riusciremmo a trattenerle nelle nostre residenze socio sanitarie. Si stanno dunque creando delle situazioni davvero difficili perché si vuole arrivare agli accreditamenti, prodromici all’assegnazione dei nuovi posti letto. Se non c’è l’accreditamento definitivo non si può avere distribuzione di nuovi posti in convenzione e quindi le attuali liste d’attesa rimarranno tali anzi peggioreranno. Il principale problema è lo standard di dotazione di personale, e per alcune strutture sta diventando un ostacolo per arrivare all’accreditamento stesso. (Leggi anche: Fuga del personale dalle RSA: cause e soluzioni praticabili).
Come si può considerare, oggi, la normativa regionale approvata nel 2019?
Per la verità la Regione ha fatto un provvedimento molto importante. Lo ha motivato, anche dal punto di vista della legittimità, legando le attribuzioni di posti letto allo storico, cioè praticamente il 60% dei posti in maniera provvisoria rispetto le dotazioni delle residenze in fase di riconversione, in relazione a quel 100% che spetterebbe in base alla distribuzione dei posti in base ai distretti socio sanitari. Per cui, se faccio l’esempio del mio Ente, sulla base di quello che è il fabbisogno distrettuale di appartenenza ci spettavano 100 posti letto; provvisoriamente ce ne hanno attribuiti 60 (applicando a questi la nuova tariffa contributiva) e gli altri 40 ce li daranno a completamento del procedimento di accreditamento. Questa è stata oggettivamente una boccata di ossigeno: se ci sono venuti incontro, lo hanno potuto fare motivandolo adeguatamente innanzi alle autorità di controllo superiori.
Il problema è stato che nel frattempo molte strutture si erano adeguate al nuovo standard di personale, aumentandolo in maniera significativa: per esempio il rapporto ospite infermieri è aumentato del 50. Purtroppo, a causa del Covid e per le motivazioni che ci siamo detti, il procedimento regionale di accreditamento non è stato completato, ma tutti gli oneri, compresi quelli formativi sono stati sostenuti e si stanno sostenendo da parte delle strutture. Quindi adesso si spera che entro la fine dell’anno si possa dire conclusa questa fase così da poter guardare al futuro con più ottimismo. Altresì sperare che progressivamente questa disponibilità di posti coperti dal contributo di spese di rilievo sanitario aumenti, perché oggettivamente – indipendentemente da tutte le questioni di cui abbiamo parlato, unitamente al tema del necessario sviluppo dell’assistenza domiciliare – se in Puglia (più di un milione di ultrasessantacinquenni) abbiamo 8000 posti letto di RSA e li andiamo a mettere in relazione ai 36.000 posti del Veneto (circa 1.150.000 di ultrasessantacinquenni), qualcosa già non funziona.
Ora si può parlare di inappropriatezza, si può parlare di possibilità di attivare servizi alternativi al ricovero, tutto quello che vogliamo, ma per due regioni che hanno sostanzialmente la stessa popolazione – e non credo indici di vecchiaia dissimili o comunque distanti anni luce – qualcuno poi ci dovrebbe spiegare perché da una parte troviamo 36.000 e dall’altra parte 8000 posti letto. E del resto io posso dire che stamattina avrò 60 persone in lista d’attesa ed è una struttura di 100 posti: questa gente rimane a lungo senza assistenza.
Come sono i rapporti delle associazioni di categoria con l’assessorato regionale salute, sport e buona vita?
Anche con l’attuale Assessore (Rocco Palese), per dire banalmente, siamo riusciti a fare un gruppo WhatsApp, dove l’Assessore ci anticipa anche i provvedimenti che sono da attivare in Giunta: c’è cioè un’interlocuzione, un tavolo se non formalmente permanente ma sostanzialmente sì, un luogo dove ci sediamo. Le cose che ci dobbiamo dire le monitoriamo e quindi, tutto sommato, devo dire che c’è stato un cambio di passo; questo Assessore sta portando avanti il problema dell’esplosione della non autosufficienza, mentre per troppo tempo altri non hanno assolutamente capito che ci stava arrivando addosso uno tsunami.
Grazie alle opportunità d’incontro, nell’ultima riunione ho potuto evidenziare all’Assessore che noi passiamo metà della nostra giornata ad accogliere le persone e a non poter loro dare una risposta. Si era persa l’attenzione sull’assistenza domiciliare e in Commissione un consigliere regionale glielo ha ricordato. In questo modo auspichiamo un nuovo capitolo sulla stessa assistenza domiciliare e sulle cure intermedie, dove le residenze siano chiamate a svolgere un ruolo.
Penso che le attuali residenze, per le competenze acquisite nel tempo e gli obiettivi sulla qualità e la centralità della persona, siano oggi le uniche organizzazioni che abbiano risorse e strumenti per gestire nuovi centri multi servizi, dalla domiciliarità alla residenzialità.
Esatto, e quindi ci aspettiamo che esca (dovrebbe uscire a breve) il regolamento di accreditamento per le cure intermedie, che potrebbero definire una corsia preferenziale per la loro gestione da parte delle strutture qualificate. In commissione, alcuni giorni fa, un Consigliere regionale ci ha detto che se stiamo già facendo un procedimento di accreditamento dal punto di vista residenziale – ottenendo così il “patentino particolare” di chi può lavorare con il servizio sanitario nazionale – non si capisce perché non ci possa essere assegnata immediatamente l’assistenza domiciliare.
Se così fosse potremmo dare una risposta a tutte quelle persone che quotidianamente vengono a chiederci servizi: l’anno scorso, per esempio, con la Fondazione ho inaugurato un centro di ascolto e di orientamento al centro della città, dove avevamo un immobile, un trilocale centralissimo. Però, se la gente viene e sottopone la propria esigenza e noi non siamo in grado di dare una risposta – come accade per l’assistenza domiciliare – diventa frustrante. Al momento potresti anche offrire il servizio, ma il problema diventa chi lo paga. Bisogna trovare in fretta una soluzione.
Chi si occupa di welfare deve capire come sono fatte oggi le famiglie: disgregate con i figli che lavorano fuori, o con i figli che non nascono proprio e con gli anziani che grazie a Dio vivono a lungo. Una continua processione di persone ogni mattina si recano dall’assistente sociale del Comune, ma non riescono ad avere risposta alle loro esigenze. Provano quindi con il giro delle parrocchie per arrivare al direttore della struttura per anziani, pensando che possa risolvere il loro problema.
Io, in ormai 43 anni di esperienza professionale, non mi ero mai trovato nella situazione di dover ricevere cinque, sei persone al giorno che chiedono il ricovero in RSA. Non so cosa sia successo, ma una cosa la posso dire: che queste richieste di assistenza sono enormi e che una pressione enorme sul sistema significa che chi doveva programmare per tempo non lo ha fatto. E adesso è arrivata l’ondata di piena.
Per tornare sul tema del personale, degli infermieri in particolare, ricordo che nel 2000 il Trentino, attraverso una convenzione internazionale con la Colombia, ha visto arrivare un buon gruppo di infermiere neolaureate che si sono distribuite su territorio e servizi. Gran parte di loro si sono ulteriormente formate, hanno trovato famiglia e oggi sono anche diventate manager del sistema. C’è qualcosa in prospettiva anche da voi?
Abbiamo avuto un colloquio preliminare con una multinazionale che si occupa di ricerca, selezione, formazione e collocazione di risorse umane. Si stanno organizzando per proporre un percorso programmato per medici e infermieri da Cuba, che però deve poter prevedere un accordo tra Governi.
Nel nostro piccolo noi possiamo solo specializzare degli OSS al fine di integrare il lavoro infermieristico anche togliendo un’unità per turno. Però oggettivamente la situazione deve essere affrontata diversamente, a partire dal necessario approfondimento nella Conferenza Stato-Regioni.
E, all’interno della realtà della tua Fondazione, oltre al centro di ascolto, sei riuscito a introdurre altri progetti innovativi?
Sì, ci lavoriamo. Proprio stamattina c’è stata una conferenza stampa in Comune dove abbiamo annunciato che inizieremo una collaborazione con altre realtà del territorio per cercare di attivare una rete sfruttando le opportunità che ci danno gli strumenti della coprogettazione e della cogestione.
Si parte dall’adesione a un bando pubblico, con finanziamenti europei, per cercare di metterci insieme per vedere di poter dare qualche servizio ulteriore al territorio, di natura formativa e consulenziale. In particolare noi abbiamo oggettivamente delle figure professionali e delle strutture che, nell’ambito della non autosufficienza, potremmo utilizzare anche a favore della popolazione anziana disabile.
Poi c’è una cooperativa sociale che si occupa di disabili e ha anche un centro di domotica sociale, e la Fondazione Santi Medici con ulteriori altri servizi socio sanitari. Nella conferenza stampa abbiamo anche presentato il progetto sperimentale che ci hanno affidato. Sostanzialmente come Fondazione Giovanni XXIII gestiamo tre sportelli di ascolto nell’ambito territoriale, attraverso i quali raccogliamo una domanda di interventi assistenziali che evidentemente non giunge attraverso canali ufficiali e che probabilmente è una domanda non strutturata.
Una domanda che magari non trova nemmeno una risposta classica attraverso il Punto Unico di Accesso, che vorremmo invece poter accogliere grazie alla rete che abbiamo costituito. Per esempio la mia Fondazione ha disponibile il centro diurno Alzheimer da cinquecento metri quadri, con il suo giardino, le sue palestre, il personale. Però chiude alle cinque del pomeriggio. Potremmo quindi metterlo a disposizione anche per attività di riabilitazione di ragazzi, di bambini che hanno problematiche particolari. Farlo assieme potrebbe vedere noi mettere la struttura e magari collegare anche le professionalità delle tre realtà, dallo psicologo al terapista occupazionale, all’educatore, al fisiatra per alleviare questa pressione di intervento sociale e sociosanitario che arriva sul pubblico e che non trova risposte immediate, anche perché oggettivamente il pubblico non è flessibile negli interventi.
Lo stesso, prima di darti una risposta, soprattutto se quella risposta non è “incasellata” in un prontuario diventa difficile: chi la deve dare vuole preventivamente sapere come, quanto, quando, quanto deve durare, qual è il capitolo di spesa, perché è così che è organizzata la pubblica amministrazione. L’Assessore del welfare del Comune di Bitonto sta provando a costruire un Progetto benessere di comunità: se riusciamo ad attivarlo in maniera sperimentale e va bene, poi lo inseriremo anche nel dialogo sociale di zona. Altresì come Fondazione ci siamo proposti di fare attività di supporto ai servizi, o anche consulenziale per le famiglie che tengono a casa malati di Alzheimer, ma anche valutazioni della patologia (che già facciamo per i nostri ospiti), oltre a quelle dello stato nutrizionale degli anziani, le tabelle dietetiche, valutazioni neurologiche oppure attività occupazionali coinvolgendo il territorio e anche altre associazioni del territorio.
Vorremmo anche agire da facilitatori perché siamo convinti che il territorio ha delle risorse inesplorate e inutilizzate, anche di natura volontaria, perché se si sceglie di metterle in circolo bisogna anche prendersi l’onere professionale di organizzarle. E se ci mettiamo insieme probabilmente mettiamo insieme strutture e professioni, e anche passioni. Potremmo essere anche attrattivi anche nei confronti di altre associazioni di volontariato, ma anche di singoli cittadini che possono vedere in questa rete un’opportunità di impegno civile.
Potremmo chiudere dicendoci che il futuro è proprio essere in rete con progettualità nella e per la comunità locale?
Penso che con queste progettualità l’Assessore stia operando in maniera lungimirante. Noi ci siamo messi in gioco e lui sta cercando di farci lavorare insieme, partendo banalmente dal metterci intorno a un tavolo e rivedendoci, nell’ambito dei servizi e della cura della non autosufficienza, non più come dei concorrenti. Insieme possiamo invece provare delle nuove opportunità, pur essendo oggettivamente soggetti diversi. Dobbiamo aprirci al territorio mettendo a disposizione le nostre professionalità, le nostre strutture, le nostre risorse e questo non potrà che essere positivo per la comunità.
Approfondimenti
Disabilità e non autosufficienza, Regione Puglia
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Bollettino Ufficiale della Regione Puglia, n. 43 del 9-5-2023
Bollettino Ufficiale della Regione Puglia, n. 141 del 15-11-2021
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