Cosa sta accadendo, di nuovo, nelle RSA? Che futuro dell’assistenza agli anziani dobbiamo immaginare, se non vogliamo perdere la lezione del COVID-19? Abbiamo intervistato alcuni professionisti del settore per conoscere la loro esperienza e la loro visione.
La pandemia di COVID-19 ha comportato problemi inenarrabili nelle RSA. Un fenomeno globale e drammatico, con infiniti strascichi negativi. Solleva un certo interesse, a tal proposito, l’articolo pubblicato quest’estate su Internazionale (Fonte: The economist), dal titolo perentorio: Le case di cura per anziani vanno cambiate , le cui righe iniziali sembrano non lasciare dubbi:
«Nel mondo ricco quasi la metà di tutti i decessi da covid-19 si sono verificati nelle case di riposo e nelle case di cura, anche se al loro interno ci vive meno dell’1 per cento della popolazione […]. Il problema non è solo l’età degli ospiti, che li rende particolarmente vulnerabili, ma anche il modo in cui è organizzata la loro vita, che ha consentito al virus di diffondersi. Paesi con meno case di riposo hanno registrato meno decessi da covid-19 a parità di altre condizioni».
E se d’altra parte guardiamo a cosa dicono i dati del nostro Paese, scopriamo che l’Istituto Superiore di Sanità stima che il 40% delle morti avvenute agli anziani residenti in struttura tra febbraio e marzo è dovuto al COVID-19.
Di fronte a tale scenario, e al riaprirsi di un’emergenza sanitaria che torna a mettere in difficoltà le nostre strutture, come redazione di una rivista specialistica di settore, che parla agli addetti ai lavori e che al contempo da essi stessi raccoglie contenuti e informazioni, ci siamo sentiti in dovere di andare oltre i numeri, i dati e le generalizzazioni mediatiche, per approfondire il tema intervistando i diretti interessati.
Chi ci conosce come Casa Editrice sa che, da tempo, ci interroghiamo sulla “Casa” e sull’abitare, che consideriamo infatti come tema “guida”, centrale per poter non solo rintracciare le criticità delle nostre RSA di oggi, ma anche per agevolare l’immaginario, il sentire comune e – soprattutto – le competenze degli esperti a tracciare il disegno dell’assistenza del domani. Da qui la domanda ai due direttori di RSA intervistati: cosa è successo alle vostre strutture in questi mesi? Come è stata ripensata e riorganizzata la “Casa”? Di cosa è necessario tenere conto, alla luce di questa esperienza, nella progettazione del futuro?
Ripensare gli spazi delle RSA
Marina Indino, Direttore generale di Villaggio Amico di Gerenzano (VA) ci racconta delle strategie di riorganizzazione degli spazi, da tempo ormai patrimonio comune dei professionisti di settore. «La pandemia di COVID-19 ci ha portato a dover riorganizzare tutta l’assistenza e di conseguenza a riorganizzare la “casa”. Non basta riorganizzare l’assistenza, bisogna infatti riorganizzare gli spazi dove questa assistenza viene erogata. Noi abbiamo compartimentato tutti i reparti. Ogni reparto è divenuto un mondo a sé, con i propri abitanti: anziani, operatori, donne delle pulizie, cucina, medici. Quindi ogni reparto ha vita propria, a sé, e non necessita dell’aiuto di un altro reparto, perché il personale è stato riorganizzato. Sono stati ripensati turni di lavoro, tempi delle attività e attività stesse. Abbiamo dovuto compartimentare non soltanto i reparti ma tutte le zone della struttura. è stato necessario ripensare a moltissimi aspetti: entrate, uscite, spazi dedicati (anche semplicemente ripensare agli spogliatoi del personale, per evitare che questi si potessero incontrare e incrociare)».
Una riorganizzazione, come ci dice Indino, che è chiaramente avvenuta in maniera esplosiva e drammatica, perché dall’oggi al domani si è dovuto ripensare tutto; e prosegue: «Nella realizzazione di nuove realtà si deve assolutamente pensare a una nuova potenziale pandemia che negli anni si potrebbe sviluppare. Si dovranno quindi pensare a monte percorsi che oggi siamo invece andati a creare con strisce colorate per terra. Serve cioè una nuova progettazione che ne tenga conto. Oggi ciò che è mancato alle residenze sono stati proprio gli spazi giusti per poter fare certe cose. Anche il fatto di creare zone grigie, zone rosse, spostare pazienti positivi o in dubbio, richiede spazi. Noi siamo andati a creare spazi ulteriori: il centro diurno che è stato chiuso, lo abbiamo immaginato come potenziale zona rossa qualora avessimo avuto casi».
Spazi che sono mancati, spazi che devono essere ripensati, spazi futuri che devono tenere conto che una nuova pandemia potrebbe riesplodere. Colpisce in proposito il commento di Fabio Vidotto, amministratore di Studio Vega Srl che ricorda come, al netto della pandemia, sarebbe bello anche riuscire a elencare tutte le cose che andrebbero fatte a prescindere per migliorare le RSA. «Immaginiamo che magicamente troviamo un vaccino e sistemiamo tutto entro luglio del prossimo anno, avendo imparato quindi ad affrontare le pandemie», dice Vidotto, «Ma noi, oggi, da questa esperienza cosa ricaviamo per riprogettare concretamente le nostre strutture, cosa è stato effettivamente positivo, cosa rifarei se dovessi ridisegnare come esperto oggi una RSA?».
Raccogliere la lezione del COVID-19
In altri termini, si sente sempre più l’urgenza di raccogliere la lezione lasciata dal COVID-19, e di farlo con uno sguardo profondo, lungimirante e capace di leggere la complessità. Molte sono in questo senso le risposte fornite a livello mediatico. Il sopracitato articolo che ci ricordava come le case per anziani vadano cambiate , proseguiva spiegando come «secondo molti esperti, in futuro la grande maggioranza delle persone anziane dovrebbe essere assistita il più lungo possibile a casa. Si tratta di una soluzione più economica in tutti i casi, tranne quelli più gravi. È anche quello che la maggioranza delle persone anziane vorrebbe». A ciò aggiungeva una riflessione sulle necessità di migliorare l’assistenza domiciliare e di riconoscere, una volta per tutte, l’aiuto che anche in questo senso può dare lo sviluppo della tecnologia, con l’immancabile riferimento alle opportunità che si sono aperte grazie a tablet e videochiamate durante il lockdown.
Già, e per gli anziani più compromessi? Se le RSA che abbiamo oggi «vanno cambiate», che genere di soluzione organizzativa possiamo immaginare per tutte quelle persone che avranno bisogni più complessi, a cui il domicilio non può rispondere? Per le fonti citate da Internazionale la risposta è semplice: «In questi casi vale il principio “più piccolo è, meglio è” […]. La ricerca dimostra che nelle case di riposo più piccole si fa meno ricorso a misure di contenimento, ci sono meno infezioni e gli ospiti sono più soddisfatti rispetto a quelle più grandi».
«Più piccolo è, meglio è». Siamo sicuri?
In contrasto all’idea che le RSA del futuro non possano che avere piccole dimensioni, si è espresso Fabio Bonetta, Direttore dell’ASP ITIS di Trieste , che ci ha dato nel frattempo uno scorcio della sua esperienza del momento, raccontandoci di come il COVID l’abbia di fatto portato a “cambiare mestiere”: «Dopo 30 e passa anni di gestione di enti pubblici e sociali di varia natura, sono diventato il direttore di una “casa circondariale”», ci dice Bonetta, e prosegue: «Siamo un’entità blindata, da qualche giorno di nuovo i parenti non possono visitare i loro cari, il personale vive una dimensione da palombaro – provate andare a vedere che significa lavorare 8 ore di fila con l’applicazione di DPI in zone covid o zone filtro – . Noi che abbiamo 26000 mq di struttura, inserita nel centro di Trieste, con spazi verdi e aperti, abbiamo avuto la fortuna di poter fare tutte le separazioni di percorso, tutte le creazioni di zone filtro, che nessun altro è riuscito a realizzare in tutta la Regione. Ci sono strutture a Trieste che stanno in appartamenti. Sul concetto di “piccolo è meglio”, va detto che è meglio se c’è una necessità sociale-relazionale che permetta una forma simile al cohousing. Non voglio sentire parlare di strutture con 20/30 posti letto dove vivano reali non autosufficienti: è impossibile una gestione adeguata, stante a quello che sta succedendo. Non credo neanche nelle strutture giganti come la mia: noi abbiamo 411 posti letto convenzionati, però potremmo ospitarne altri 100 volendo. Grazie al fatto che abbiamo spazi liberi, da qualche giorno abbiamo una zona covid e due zone filtro, più tutte le altre residenze».
Il futuro dell’assistenza agli anziani: quali cambiamenti?
Interessante anche quanto Bonetta ci ha detto in relazione al futuro, ricordando di alcuni nodi problematici di cui si parla già da tempo, da ben prima dell’arrivo della pandemia: «Sicuramente il futuro delle strutture per anziani non può essere quello attuale. Non è ammissibile per esempio pensare di mettere ancora persone anziane in camere multiple, non è pensabile di trattare persone di 85 anni come fossero bambini». E più in generale aggiunge: « Dobbiamo cambiare la nostra offerta. Non possiamo offrire alle famiglie percorsi monotematici, non possiamo continuare a costruire RSA in spazi sperduti, fuori contesto urbanistico come fanno soprattutto le grandi imprese private. Le RSA devono rimanere l’ultima opzione di servizio necessaria per tutte le persone che non possono essere assistite al domicilio, concentrando però la possibilità per i cittadini e per le famiglie di avere dei Punti Unici di Accesso, dove esistano competenze e professionalità integrate, che siano in grado di dare, in base a un processo di condivisione con l’utenza e con le famiglie, un progetto di vita, che parta dal domicilio e arrivi fino alla residenzialità protetta. Penso che in questo contesto il tema dell’abitare possibile, diventerà centrale nel futuro. Spero che la politica si accorga della possibilità di riconvertire quello che è sempre stato considerato un peso, in un motore di sviluppo, soprattutto sociale. Si tratta cioè di considerare che oggi come oggi gli anziani sono la forza trainante della società italiana».
È chiaro quindi che perché un cambiamento avvenga è necessario mettere in campo una serie di risorse non solo economiche, ma anche prima di tutto culturali, ed è necessario che la Politica ponga un’attenzione di tipo diverso al nostro settore. Sostiene in proposito Vidotto: «Se non interviene il pubblico con risorse pubbliche non cambierà davvero la situazione. Perché ci vuole un disegno complessivo e il privato da solo non può riuscirci. Il pubblico deve riuscire a vedere che l’RSA non può essere valutata per ciò che costa e ciò che spende indipendentemente dal contesto operativo, ossia deve riuscire a vedere il fatto che esiste un PUA che indirizza, che esistono altri servizi territoriali e che meno la persona finisce in ospedale e più si guadagna complessivamente. Allora andrà in RSA quando ne avrà bisogno, e ricorrerà alle cure domiciliari quando ne avrà bisogno. E se non si ritorna a considerare gli esiti di questi processi – cioè che cosa mi costa la salute della persona e che cosa mi costa gestirla in un modo piuttosto che in un altro – e se non si imparano culturalmente queste cose, il cambiamento non avverrà mai. Perché oggi il conteggio si fa sull’Accreditamento, su quante risorse do alla struttura, su quanti operatori per anziano deve avere, ecc. Ma basta controllare e confrontare tra loro i case mix di 20 strutture, che sono tutte RSA, ovvero controllare la complessità assistenziale complessiva presente in struttura, per accorgersi che ci sono RSA che sono RSA vere e ci sono RSA che sono poco più che Case di Riposo, in un caso c’è un rapporto 1 / 2 ma gli anziani giocano a carte, mentre nell’altro c’è sempre rapporto 1 / 2 ma gli operatori soffocano perché di fatto è un ospedale. Le strutture devono essere valutate per quello che sono, con lo studio di gente che sul territorio è capace di capire, misurare e verificare questi parametri. Lo diceva Antonio Gaudioso nel convegno di Italia Longeva : bisogna garantire capacità progettuale e anche capacità di investimento; investimenti che devono però essere collegati sempre agli outcome di salute delle persone, perché se i soldi non sono finalizzati a vedere dei risultati, vengono solo buttati via e questo di certo non possiamo proprio permettercelo. Noi dobbiamo allora guardare la Regione nel suo complesso e la Regione deve essere capace di fare queste valutazioni, deve capire se 500 RSA in Lombardia le sono utili per creare una situazione in cui riduce i ricoveri, deve saper dare un continuum di risposta rispetto a un continuum di bisogni».
Certo, che l’Accreditamento che si basa solo su dati numerici non vada bene è una criticità che si rileva da molto tempo. Marina Indino parlando della propria Regione sottolinea proprio come questa oggi non «differenzi la qualità dell’assistenza erogata, anche se la differenza tra una struttura e l’altra c’è: in termini di qualità, di carico assistenziale, di tipologia di target che vive quella realtà. È ovvio che ci sono carichi differenti, anche a livello economico. Non c’è valutazione vera di cosa fa una RSA rispetto a un’altra nell’Accreditamento. E a contare in primis non sono i mq o i minutaggi che diamo a una persona, ma come la facciamo stare, quali professionisti le mettiamo a disposizione – e non solo in termini di ruolo ma proprio nel senso di quale qualità clinico-assistenziale, se davvero vogliamo parlare di “Persona” e di “Casa”». Ma, di nuovo, per andare verso questa direzione serve che le Regioni abbiano cultura sufficiente e, soprattutto, l’intenzione di operare un cambiamento.
L’abitare possibile: l’incontro fra generazioni
Se è di nuove forme di residenzialità – oltreché di assistenza – che si deve parlare, diviene allora fondamentale ascoltare in merito anche il parere dell’Architetto Giuseppe Panebianco, che proprio di questo mondo è esperto. «Con il mio punto di vista, di uno che vive dall’esterno i problemi delle RSA e che viene da mondo del residenziale e non dell’assistenza», ci dice, «non posso che fare subito un parallelo tra quanto si è detto per il vostro sistema – incapace di riconoscere la qualità di ciò che si offre e basato solo su parametri di valutazione numerici – con quanto è valso per la materia prettamente edilizia e urbanistica. Se guardiamo alle regole che hanno guidato il costruire dagli anni ‘40 a oggi, vediamo che purtroppo siamo i figli di una legge urbanistica che tenta di regolare la crescita della città sulla base di numeri (es. servizi che sono valutati a mq per abitante). Di questo si sono lamentati architetti, urbanisti e pianificatori. E oggi siamo riusciti ad avviare cambio culturale e con normative regionali si è iniziato a mettere più attenzione sulla vera qualità.
Alla luce di ciò che è stato detto da chi il settore lo vive dall’interno, credo che ci sia da riflettere sullo sforzo che il residenziale deve fare per adeguarsi al mondo assistenziale, per andare a colmare quei vuoti che ancora esistono in quel continuum di bisogni. C’è un mondo da costruire per supportare le persone nel loro invecchiamento, ed è lì che c’è molto da fare. La strada giusta è quella che va nella direzione di un abitare multi-generazionale. Bisogna trovare soluzioni di maggiore integrazione tra le diverse generazioni che si stanno disgregando tra loro. Questo è un tema che è stato trascurato, ma si tratta della vera sfida. Ed è un tema che non riguarda solo gli anziani ma in generale tutte le fasce più fragili e vulnerabili, nelle quali inserisco anche i giovani. Perché anche la fascia di popolazione giovane non è tenuta adeguatamente in considerazione e anche per loro non si progetta (per i giovani oggi è difficile trovare un’abitazione adeguata alle loro esigenze e alle loro finanze, questo momento ha messo in risalto anche queste criticità). Con un approccio e una progettualità radicalmente diversi si potrebbe arrivare a immaginare un futuro con un abitare che possa realmente tenere insieme giovani e anziani».
Per ripartire più forti, dopo la pandemia
Molte sono le considerazioni ulteriori che si possono fare sulle esigenze, anche molto concrete, che l’emergenza ha messo in luce per il mondo delle RSA. Il nostro lavoro di indagine e di interviste agli addetti ai lavori non si ferma qui: seguiranno altri gruppi di studio e resoconti riportati sempre qui su rivistacura.it.
Per chi volesse approfondire il tema segnaliamo l’articolo di Franco Iurlaro, che offre spunti molto dettagliati sulle basi che si possono porre per una nuova impostazione dei servizi alla persona fragile, invitando anche gli imprenditori del settore a prendere in considerazione nuove forme di collaborazione con gli enti sociosanitari.
Segnaliamo infine la possibilità di partecipare gratuitamente al tavolo di lavoro online organizzato in collaborazione con Exposanità, per il 13 novembre 2020, alle ore 14.30, dal titolo: Verso un manifesto della qualità della cura e dell’abitare. Domanda e offerta si incontrano.
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Cosa sta accadendo, di nuovo, nelle RSA? Che futuro dell’assistenza agli anziani dobbiamo immaginare, se non vogliamo perdere la lezione del COVID-19? Abbiamo intervistato alcuni professionisti del settore per conoscere la loro esperienza e la loro visione.
La pandemia di COVID-19 ha comportato problemi inenarrabili nelle RSA. Un fenomeno globale e drammatico, con infiniti strascichi negativi. Solleva un certo interesse, a tal proposito, l’articolo pubblicato quest’estate su Internazionale (Fonte: The economist), dal titolo perentorio: Le case di cura per anziani vanno cambiate , le cui righe iniziali sembrano non lasciare dubbi:
«Nel mondo ricco quasi la metà di tutti i decessi da covid-19 si sono verificati nelle case di riposo e nelle case di cura, anche se al loro interno ci vive meno dell’1 per cento della popolazione […]. Il problema non è solo l’età degli ospiti, che li rende particolarmente vulnerabili, ma anche il modo in cui è organizzata la loro vita, che ha consentito al virus di diffondersi. Paesi con meno case di riposo hanno registrato meno decessi da covid-19 a parità di altre condizioni».
E se d’altra parte guardiamo a cosa dicono i dati del nostro Paese, scopriamo che l’Istituto Superiore di Sanità stima che il 40% delle morti avvenute agli anziani residenti in struttura tra febbraio e marzo è dovuto al COVID-19.
Di fronte a tale scenario, e al riaprirsi di un’emergenza sanitaria che torna a mettere in difficoltà le nostre strutture, come redazione di una rivista specialistica di settore, che parla agli addetti ai lavori e che al contempo da essi stessi raccoglie contenuti e informazioni, ci siamo sentiti in dovere di andare oltre i numeri, i dati e le generalizzazioni mediatiche, per approfondire il tema intervistando i diretti interessati.
Chi ci conosce come Casa Editrice sa che, da tempo, ci interroghiamo sulla “Casa” e sull’abitare, che consideriamo infatti come tema “guida”, centrale per poter non solo rintracciare le criticità delle nostre RSA di oggi, ma anche per agevolare l’immaginario, il sentire comune e – soprattutto – le competenze degli esperti a tracciare il disegno dell’assistenza del domani. Da qui la domanda ai due direttori di RSA intervistati: cosa è successo alle vostre strutture in questi mesi? Come è stata ripensata e riorganizzata la “Casa”? Di cosa è necessario tenere conto, alla luce di questa esperienza, nella progettazione del futuro?
Ripensare gli spazi delle RSA
Marina Indino, Direttore generale di Villaggio Amico di Gerenzano (VA) ci racconta delle strategie di riorganizzazione degli spazi, da tempo ormai patrimonio comune dei professionisti di settore. «La pandemia di COVID-19 ci ha portato a dover riorganizzare tutta l’assistenza e di conseguenza a riorganizzare la “casa”. Non basta riorganizzare l’assistenza, bisogna infatti riorganizzare gli spazi dove questa assistenza viene erogata. Noi abbiamo compartimentato tutti i reparti. Ogni reparto è divenuto un mondo a sé, con i propri abitanti: anziani, operatori, donne delle pulizie, cucina, medici. Quindi ogni reparto ha vita propria, a sé, e non necessita dell’aiuto di un altro reparto, perché il personale è stato riorganizzato. Sono stati ripensati turni di lavoro, tempi delle attività e attività stesse. Abbiamo dovuto compartimentare non soltanto i reparti ma tutte le zone della struttura. è stato necessario ripensare a moltissimi aspetti: entrate, uscite, spazi dedicati (anche semplicemente ripensare agli spogliatoi del personale, per evitare che questi si potessero incontrare e incrociare)».
Una riorganizzazione, come ci dice Indino, che è chiaramente avvenuta in maniera esplosiva e drammatica, perché dall’oggi al domani si è dovuto ripensare tutto; e prosegue: «Nella realizzazione di nuove realtà si deve assolutamente pensare a una nuova potenziale pandemia che negli anni si potrebbe sviluppare. Si dovranno quindi pensare a monte percorsi che oggi siamo invece andati a creare con strisce colorate per terra. Serve cioè una nuova progettazione che ne tenga conto. Oggi ciò che è mancato alle residenze sono stati proprio gli spazi giusti per poter fare certe cose. Anche il fatto di creare zone grigie, zone rosse, spostare pazienti positivi o in dubbio, richiede spazi. Noi siamo andati a creare spazi ulteriori: il centro diurno che è stato chiuso, lo abbiamo immaginato come potenziale zona rossa qualora avessimo avuto casi».
Spazi che sono mancati, spazi che devono essere ripensati, spazi futuri che devono tenere conto che una nuova pandemia potrebbe riesplodere. Colpisce in proposito il commento di Fabio Vidotto, amministratore di Studio Vega Srl che ricorda come, al netto della pandemia, sarebbe bello anche riuscire a elencare tutte le cose che andrebbero fatte a prescindere per migliorare le RSA. «Immaginiamo che magicamente troviamo un vaccino e sistemiamo tutto entro luglio del prossimo anno, avendo imparato quindi ad affrontare le pandemie», dice Vidotto, «Ma noi, oggi, da questa esperienza cosa ricaviamo per riprogettare concretamente le nostre strutture, cosa è stato effettivamente positivo, cosa rifarei se dovessi ridisegnare come esperto oggi una RSA?».
Raccogliere la lezione del COVID-19
In altri termini, si sente sempre più l’urgenza di raccogliere la lezione lasciata dal COVID-19, e di farlo con uno sguardo profondo, lungimirante e capace di leggere la complessità. Molte sono in questo senso le risposte fornite a livello mediatico. Il sopracitato articolo che ci ricordava come le case per anziani vadano cambiate , proseguiva spiegando come «secondo molti esperti, in futuro la grande maggioranza delle persone anziane dovrebbe essere assistita il più lungo possibile a casa. Si tratta di una soluzione più economica in tutti i casi, tranne quelli più gravi. È anche quello che la maggioranza delle persone anziane vorrebbe». A ciò aggiungeva una riflessione sulle necessità di migliorare l’assistenza domiciliare e di riconoscere, una volta per tutte, l’aiuto che anche in questo senso può dare lo sviluppo della tecnologia, con l’immancabile riferimento alle opportunità che si sono aperte grazie a tablet e videochiamate durante il lockdown.
Già, e per gli anziani più compromessi? Se le RSA che abbiamo oggi «vanno cambiate», che genere di soluzione organizzativa possiamo immaginare per tutte quelle persone che avranno bisogni più complessi, a cui il domicilio non può rispondere? Per le fonti citate da Internazionale la risposta è semplice: «In questi casi vale il principio “più piccolo è, meglio è” […]. La ricerca dimostra che nelle case di riposo più piccole si fa meno ricorso a misure di contenimento, ci sono meno infezioni e gli ospiti sono più soddisfatti rispetto a quelle più grandi».
«Più piccolo è, meglio è». Siamo sicuri?
In contrasto all’idea che le RSA del futuro non possano che avere piccole dimensioni, si è espresso Fabio Bonetta, Direttore dell’ASP ITIS di Trieste , che ci ha dato nel frattempo uno scorcio della sua esperienza del momento, raccontandoci di come il COVID l’abbia di fatto portato a “cambiare mestiere”: «Dopo 30 e passa anni di gestione di enti pubblici e sociali di varia natura, sono diventato il direttore di una “casa circondariale”», ci dice Bonetta, e prosegue: «Siamo un’entità blindata, da qualche giorno di nuovo i parenti non possono visitare i loro cari, il personale vive una dimensione da palombaro – provate andare a vedere che significa lavorare 8 ore di fila con l’applicazione di DPI in zone covid o zone filtro – . Noi che abbiamo 26000 mq di struttura, inserita nel centro di Trieste, con spazi verdi e aperti, abbiamo avuto la fortuna di poter fare tutte le separazioni di percorso, tutte le creazioni di zone filtro, che nessun altro è riuscito a realizzare in tutta la Regione. Ci sono strutture a Trieste che stanno in appartamenti. Sul concetto di “piccolo è meglio”, va detto che è meglio se c’è una necessità sociale-relazionale che permetta una forma simile al cohousing. Non voglio sentire parlare di strutture con 20/30 posti letto dove vivano reali non autosufficienti: è impossibile una gestione adeguata, stante a quello che sta succedendo. Non credo neanche nelle strutture giganti come la mia: noi abbiamo 411 posti letto convenzionati, però potremmo ospitarne altri 100 volendo. Grazie al fatto che abbiamo spazi liberi, da qualche giorno abbiamo una zona covid e due zone filtro, più tutte le altre residenze».
Il futuro dell’assistenza agli anziani: quali cambiamenti?
Interessante anche quanto Bonetta ci ha detto in relazione al futuro, ricordando di alcuni nodi problematici di cui si parla già da tempo, da ben prima dell’arrivo della pandemia: «Sicuramente il futuro delle strutture per anziani non può essere quello attuale. Non è ammissibile per esempio pensare di mettere ancora persone anziane in camere multiple, non è pensabile di trattare persone di 85 anni come fossero bambini». E più in generale aggiunge: « Dobbiamo cambiare la nostra offerta. Non possiamo offrire alle famiglie percorsi monotematici, non possiamo continuare a costruire RSA in spazi sperduti, fuori contesto urbanistico come fanno soprattutto le grandi imprese private. Le RSA devono rimanere l’ultima opzione di servizio necessaria per tutte le persone che non possono essere assistite al domicilio, concentrando però la possibilità per i cittadini e per le famiglie di avere dei Punti Unici di Accesso, dove esistano competenze e professionalità integrate, che siano in grado di dare, in base a un processo di condivisione con l’utenza e con le famiglie, un progetto di vita, che parta dal domicilio e arrivi fino alla residenzialità protetta. Penso che in questo contesto il tema dell’abitare possibile, diventerà centrale nel futuro. Spero che la politica si accorga della possibilità di riconvertire quello che è sempre stato considerato un peso, in un motore di sviluppo, soprattutto sociale. Si tratta cioè di considerare che oggi come oggi gli anziani sono la forza trainante della società italiana».
È chiaro quindi che perché un cambiamento avvenga è necessario mettere in campo una serie di risorse non solo economiche, ma anche prima di tutto culturali, ed è necessario che la Politica ponga un’attenzione di tipo diverso al nostro settore. Sostiene in proposito Vidotto: «Se non interviene il pubblico con risorse pubbliche non cambierà davvero la situazione. Perché ci vuole un disegno complessivo e il privato da solo non può riuscirci. Il pubblico deve riuscire a vedere che l’RSA non può essere valutata per ciò che costa e ciò che spende indipendentemente dal contesto operativo, ossia deve riuscire a vedere il fatto che esiste un PUA che indirizza, che esistono altri servizi territoriali e che meno la persona finisce in ospedale e più si guadagna complessivamente. Allora andrà in RSA quando ne avrà bisogno, e ricorrerà alle cure domiciliari quando ne avrà bisogno. E se non si ritorna a considerare gli esiti di questi processi – cioè che cosa mi costa la salute della persona e che cosa mi costa gestirla in un modo piuttosto che in un altro – e se non si imparano culturalmente queste cose, il cambiamento non avverrà mai. Perché oggi il conteggio si fa sull’Accreditamento, su quante risorse do alla struttura, su quanti operatori per anziano deve avere, ecc. Ma basta controllare e confrontare tra loro i case mix di 20 strutture, che sono tutte RSA, ovvero controllare la complessità assistenziale complessiva presente in struttura, per accorgersi che ci sono RSA che sono RSA vere e ci sono RSA che sono poco più che Case di Riposo, in un caso c’è un rapporto 1 / 2 ma gli anziani giocano a carte, mentre nell’altro c’è sempre rapporto 1 / 2 ma gli operatori soffocano perché di fatto è un ospedale. Le strutture devono essere valutate per quello che sono, con lo studio di gente che sul territorio è capace di capire, misurare e verificare questi parametri. Lo diceva Antonio Gaudioso nel convegno di Italia Longeva : bisogna garantire capacità progettuale e anche capacità di investimento; investimenti che devono però essere collegati sempre agli outcome di salute delle persone, perché se i soldi non sono finalizzati a vedere dei risultati, vengono solo buttati via e questo di certo non possiamo proprio permettercelo. Noi dobbiamo allora guardare la Regione nel suo complesso e la Regione deve essere capace di fare queste valutazioni, deve capire se 500 RSA in Lombardia le sono utili per creare una situazione in cui riduce i ricoveri, deve saper dare un continuum di risposta rispetto a un continuum di bisogni».
Certo, che l’Accreditamento che si basa solo su dati numerici non vada bene è una criticità che si rileva da molto tempo. Marina Indino parlando della propria Regione sottolinea proprio come questa oggi non «differenzi la qualità dell’assistenza erogata, anche se la differenza tra una struttura e l’altra c’è: in termini di qualità, di carico assistenziale, di tipologia di target che vive quella realtà. È ovvio che ci sono carichi differenti, anche a livello economico. Non c’è valutazione vera di cosa fa una RSA rispetto a un’altra nell’Accreditamento. E a contare in primis non sono i mq o i minutaggi che diamo a una persona, ma come la facciamo stare, quali professionisti le mettiamo a disposizione – e non solo in termini di ruolo ma proprio nel senso di quale qualità clinico-assistenziale, se davvero vogliamo parlare di “Persona” e di “Casa”». Ma, di nuovo, per andare verso questa direzione serve che le Regioni abbiano cultura sufficiente e, soprattutto, l’intenzione di operare un cambiamento.
L’abitare possibile: l’incontro fra generazioni
Se è di nuove forme di residenzialità – oltreché di assistenza – che si deve parlare, diviene allora fondamentale ascoltare in merito anche il parere dell’Architetto Giuseppe Panebianco, che proprio di questo mondo è esperto. «Con il mio punto di vista, di uno che vive dall’esterno i problemi delle RSA e che viene da mondo del residenziale e non dell’assistenza», ci dice, «non posso che fare subito un parallelo tra quanto si è detto per il vostro sistema – incapace di riconoscere la qualità di ciò che si offre e basato solo su parametri di valutazione numerici – con quanto è valso per la materia prettamente edilizia e urbanistica. Se guardiamo alle regole che hanno guidato il costruire dagli anni ‘40 a oggi, vediamo che purtroppo siamo i figli di una legge urbanistica che tenta di regolare la crescita della città sulla base di numeri (es. servizi che sono valutati a mq per abitante). Di questo si sono lamentati architetti, urbanisti e pianificatori. E oggi siamo riusciti ad avviare cambio culturale e con normative regionali si è iniziato a mettere più attenzione sulla vera qualità.
Alla luce di ciò che è stato detto da chi il settore lo vive dall’interno, credo che ci sia da riflettere sullo sforzo che il residenziale deve fare per adeguarsi al mondo assistenziale, per andare a colmare quei vuoti che ancora esistono in quel continuum di bisogni. C’è un mondo da costruire per supportare le persone nel loro invecchiamento, ed è lì che c’è molto da fare. La strada giusta è quella che va nella direzione di un abitare multi-generazionale. Bisogna trovare soluzioni di maggiore integrazione tra le diverse generazioni che si stanno disgregando tra loro. Questo è un tema che è stato trascurato, ma si tratta della vera sfida. Ed è un tema che non riguarda solo gli anziani ma in generale tutte le fasce più fragili e vulnerabili, nelle quali inserisco anche i giovani. Perché anche la fascia di popolazione giovane non è tenuta adeguatamente in considerazione e anche per loro non si progetta (per i giovani oggi è difficile trovare un’abitazione adeguata alle loro esigenze e alle loro finanze, questo momento ha messo in risalto anche queste criticità). Con un approccio e una progettualità radicalmente diversi si potrebbe arrivare a immaginare un futuro con un abitare che possa realmente tenere insieme giovani e anziani».
Per ripartire più forti, dopo la pandemia
Molte sono le considerazioni ulteriori che si possono fare sulle esigenze, anche molto concrete, che l’emergenza ha messo in luce per il mondo delle RSA. Il nostro lavoro di indagine e di interviste agli addetti ai lavori non si ferma qui: seguiranno altri gruppi di studio e resoconti riportati sempre qui su rivistacura.it.
Per chi volesse approfondire il tema segnaliamo l’articolo di Franco Iurlaro, che offre spunti molto dettagliati sulle basi che si possono porre per una nuova impostazione dei servizi alla persona fragile, invitando anche gli imprenditori del settore a prendere in considerazione nuove forme di collaborazione con gli enti sociosanitari.
Segnaliamo infine la possibilità di partecipare gratuitamente al tavolo di lavoro online organizzato in collaborazione con Exposanità, per il 13 novembre 2020, alle ore 14.30, dal titolo: Verso un manifesto della qualità della cura e dell’abitare. Domanda e offerta si incontrano.