La carenza di personale nelle RSA: i fattori principali che l’hanno determinata e le possibili soluzioni concrete da mettere in atto

«In alcune regioni la situazione è drammatica», ci ha rivelato senza mezzi termini Giuseppe Grigoni, presidente di Uneba Liguria. Tra i tanti problemi che la pandemia ha fatto emergere, c’è quello della carenza di personale sanitario. Ma mentre per gli ospedali si è provato a trovare una soluzione, le RSA di nuovo sono state lasciate sole. «Dovremmo far percepire meglio il valore del lavoro di cura», commenta Elisabetta Notarnicola del CERGAS Bocconi.

La carenza di personale nelle RSA

Di carenza di personale sanitario si è parlato di frequente, soprattutto nell’ultimo anno. La pandemia ha fatto emergere con brusca chiarezza un problema che da circa un decennio si cercava di nascondere sotto il tappeto. Ma mentre i riflettori erano puntati sugli ospedali, ci si è di nuovo dimenticati di quello che stava accadendo all’interno delle RSA.

Anche qui si fatica a coprire tutti i turni e anche qui i numeri sono in sofferenza. Una situazione che è ulteriormente peggiorata proprio con l’arrivo del Covid-19 e con le assunzioni straordinarie alle quali gli ospedali, gravemente sottorganico e depotenziati di fronte a una tale emergenza, hanno dovuto ricorrere. La possibilità di stipendi migliori e di diverse prospettive di carriera hanno provocato un piccolo esodo dalle residenze sociosanitarie verso le aziende pubbliche. E così, le strutture per anziani, già messe a dura prova durante la prima ondata, si sono trovate con ancora meno difese contro il proseguire dell’epidemia.

I numeri del problema

Non è facile avere numeri precisi rispetto a questa carenza, ci avverte subito Giuseppe Grigoni, presidente di Uneba Liguria (Unione Nazionale Istituzioni e Iniziative di Assistenza Sociale), con il quale abbiamo parlato per capire meglio le dimensioni del fenomeno: «Non abbiamo a disposizione dati definitivi, ma è un problema molto sentito, soprattutto a livello di personale infermieristico».

«No, purtroppo non sono mai stati fatti studi a livello italiano circa la carenza di personale di cura in ambito sociosanitario – concorda la professoressa Elisabetta Notarnicola, coordinatrice area Ricerca su Social Policy and Service Management e dell’Osservatorio Long Term Care per CERGAS Bocconi (Centro di Ricerche sulla Gestione dell’Assistenza Sanitaria e Sociale). – Se ne parla sulla base del percepito degli esperti e in prospettiva rispetto al trend di invecchiamento demografico e di espansione futura dei servizi. Il tema è poi esploso negli scorsi mesi sulla scorta delle difficoltà vissute durante il Covid-19 con la necessità di avere più personale, più qualificato o in sostituzione di personale assente per vari motivi».

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Qualche calcolo ha provato a farlo l’Osservatorio Welforum.it, un progetto di approfondimento e divulgazione sui temi del welfare promosso da ARS (Associazione per la Ricerca Sociale). «In un terzo delle strutture coinvolte nel primo monitoraggio sulle RSA condotto dall’Istituto superiore di sanità, era stata segnalata fra le principali difficoltà riscontrate l’assenza di personale sanitario», chiarisce subito l’analisi. E prosegue: «I gridi di allarme sono stati più volte lanciati dalle associazioni di rappresentanza dei gestori di strutture residenziali, che hanno denunciato la progressiva emorragia di infermieri e operatori socio-sanitari dalle strutture verso gli ospedali e le crescenti difficoltà – per questo motivo – nel garantire adeguati livelli di assistenza». 

I dati che abbiamo a disposizione al momento fanno riferimento al periodo compreso tra il 2009 e il 2016 e sembrano, in apparenza, raccontare una realtà diversa: se da un lato si è verificato un calo del 5% nel numero degli anziani ricoverati, dall’altro si è assistito a un aumento del 7% nel numero di addetti che operano nelle strutture. Il problema è che è cresciuta soprattutto la componente di lavoro volontaria, mentre la quantità di personale retribuito è rimasta stabile. L’incidenza degli operatori non pagati sul totale del personale è passata dall’11,7% del 2009 al 16% del 2016.

Ma un volontario è una persona che mette a disposizione qualche ora del suo tempo libero, e che non ha le competenze per svolgere il lavoro di operatori sociosanitari e infermieri. Ben venga dunque il loro aiuto, ma le mansioni principali devono essere svolte da figure qualificate. E se vengono a mancare si crea un vuoto.

L’analisi di Welforum.it fa inoltre emergere come già nel 2016 fosse chiara la carenza sul fronte degli infermieri e dei medici: «Si è registrato all’interno della componente del lavoro retribuito un secondo “slittamento” verso profili occupazionali più di carattere tutelare e assistenziale (+17%), a detrimento di quelli medici (-26%), mentre il peso dei profili infermieristici è rimasto praticamente immutato. Si tratta di un dato significativo poiché, nello stesso periodo, le strutture residenziali hanno visto una crescente focalizzazione verso l’alta intensità sanitaria (se nel 2009 il 22% dei ricoverati si collocava in questo tipo di servizio, nel 2016 l’incidenza ha raggiunto il 31%) a fronte del progressivo invecchiamento della popolazione anziana ricoverata e, conseguentemente, del loro profilo di fragilità».

L’emorragia verso il pubblico

Come mai si è verificata questa situazione? La causa principale è una sorta di esodo verso il pubblico, che si è andata intensificando con la pandemia e le assunzioni straordinarie da parte degli ospedali, anche loro gravemente sottorganico. «Nel momento in cui è cresciuto il fabbisogno del servizio sanitario pubblico, sia da parte delle aziende sanitarie che degli ospedali, abbiamo assistito alla migrazione di personale», ci conferma Grigoni. E aggiunge: «In linea di massima, le condizioni economiche offerte sono più convenienti. C’è una differenza compresa tra il 20% e il 30%. Inoltre, anche le possibilità di articolazione dei servizi sono più variegate. Naturalmente esistono poi altre motivazioni, più marginali, ma queste due sono sicuramente le principali».

A inizio marzo è stato varato un piano nazionale per l’assunzione straordinaria di personale sanitario, che ha portato circa 5mila medici e oltre 11mila infermieri a entrare nei reparti ospedalieri con un contratto a tempo determinato o addirittura indeterminato, fatto su misura per la pandemia. Altri 9.600 professionisti, per lo più infermieri, sono stati assunti in seguito con l’obiettivo di andare a potenziare la sanità del territorio.

«La riorganizzazione dei servizi ha messo in evidenza la necessità di maggior personale – prosegue Grigoni. – In particolare, si sono sviluppate delle iniziative territoriali su ADI e infermieri di comunità, che hanno continuato a richiedere un maggior impegno da parte di personale infermieristico. Quelli che sono stati assunti nel 2020 sono tutti ancora in servizio e in alcuni casi i contratti sono stati rinnovati, perché perdura lo stato d’emergenza».

E le persone sono più attratte non solo dagli stipendi più consistenti, ma anche dal tipo di lavoro: «Molte strutture sociosanitarie sono di piccole dimensioni, quindi anche monotematiche dal punto di vista delle mansioni. Un infermiere che entra in un RSA ha di fronte una prospettiva di impiego unicamente in un reparto composto da anziani. Mentre nel pubblico si può cambiare reparto, si può lavorare per un servizio solo diurno o in un ambulatorio. La varietà del lavoro attira».

In realtà, però, questa situazione non riguarda unicamente gli infermieri. «Sul comparto infermieristico, si parla di una scarsità di risorse complessiva, guardando sia al sociosanitario che al Sistema sanitario nazionale. Il punto è che avendo pochi infermieri a disposizione, questi preferiscono servizi sanitari pubblici perché propongono contratti migliori, luoghi di lavoro migliori e un riconoscimento sociale maggiore – precisa la professoressa Notarnicola. – Anche gli OSS sono carenti però, e nelle strutture il loro numero deve essere superiore. Esiste inoltre il tema della loro formazione e dell’aggiornamento professionale dato che i percorsi formativi sono meno codificati, brevi e non sempre aggiornati».

Le altre ragioni da considerare

Oltre ai due fattori principali che hanno determinato la carenza di personale nelle RSA, bisogna tenere presente alcuni elementi per nulla marginali e sui quali sarebbe necessario agire. Elisabetta Notarnicola ne sottolinea in particolare uno: «Si avverte una generale percezione del sociosanitario rivolto agli anziani come di un settore di serie B rispetto a quello della Sanità. Una sorta di ultima spiaggia da accettare, quando non si riesce a trovare impiego altrove. Questa considerazione è dovuta anche all’assenza di percorsi formativi chiari e attrattivi che facciano percepire valore del lavoro di cura».

Un altro aspetto riguarda invece i contratti di lavoro, la stabilizzazione dei precari e la sicurezza che deve essere garantita a tutto il personale. «Sulla sicurezza sul lavoro va aumentata la capacità di intervento ispettivo, in particolare nelle RSA, luoghi in cui, oltre alle migliaia di morti tra gli ospiti, le condizioni di lavoro sono ancora oggi e in molte situazioni, al limite della sostenibilità», denunciava la CIGL in occasione del 1 maggio dello scorso anno.

Il sindacato faceva notare come fosse, inoltre, «incomprensibile che, a fronte di esigenze di incremento di organici, dimostrate anche nell’attuale emergenza, non venisse riconosciuto ai somministrati il diritto alle quote di riserva nei concorsi. Un’esclusione esplicita voluta dalle Regioni e presente nella Riforma Madia. In molti casi, questi lavoratori e lavoratrici hanno passato anni di lavoro attraverso continui rinnovi». La pandemia, aggiungevano, «deve essere un’occasione per un atto di equità e di riconoscimento per il lavoro svolto, stabilizzando i rapporti di lavoro e superando le norme che li condannano alla precarietà».

Le conseguenze

Il risultato di questa serie di visioni e politiche poco lungimiranti è che, mentre gli ospedali riuscivano finalmente a ritrovare parte del personale di cui avevano bisogno, i corridoi delle RSA rimanevano sempre più vuoti. «Un infermiere e tre-quattro OSS per 60/80 pazienti. Con questi numeri l’assistenza quotidiana è di fatto pressoché miracolosa».

Questa è la situazione in Lombardia descritta da Mimma Sternativo, segretario FIALS (Federazione italiana Autonomie Locali e Sanità) di Milano città metropolitana. «Gli organici sono ridotti all’osso. È necessario discuterne e dare qualche forma di sostegno economico, ma soprattutto sociale. A breve non ci sarà più personale, in fuga dal privato verso il pubblico, e a pagare sarà il cittadino».

«Per noi in alcune regioni la situazione è drammatica», denuncia il presidente di UNEBA Liguria. «La pandemia ha amplificato la carenza all’ennesima potenza. Sono al corrente di diversi concorsi pubblici dove partecipa soprattutto personale che opera nel settore sociosanitario per migliorare la propria posizione lavorativa ed economica». A questo problema, vanno aggiunte anche tutte quelle assenze per malattia e quarantena, che solo di recente e grazie ai vaccini si verificano con minore frequenza.

«Chi ha potuto, in particolare quegli enti con le spalle più larghe, ha cercato di limitare il peso economico attraverso la compensazione, per far avvertire il meno possibile il problema dei buchi di personale. Si sono quindi dilatati i turni di lavoro e ridotti i periodi di ferie e dei riposi».

Così il presidente Grigoni solleva un’altra questione: come si gestisce l’assottigliamento tra le file del proprio personale e, soprattutto, quali conseguenze ci sono per chi resta? «Noi abbiamo cercato di sgravare il personale infermieristico da alcuni oneri di carattere prettamente amministrativo – spiega, – rimanendo sempre all’interno di quello che ci consentiva di fare la normativa. Abbiamo affiancato gli infermieri per facilitare loro il lavoro. Ma si è trattato di un’azione palliativa di fronte a un’emergenza».

«Sicuramente la carenza di personale non permette di soddisfare gli standard assistenziali richiesti in merito di tempo assistenza dedicato al singolo ospite – concorda Notarnicola. – Anche quando lo standard viene rispettato, tuttavia, esiste il rischio che la qualità e il contenuto della relazione venga diminuito. Se devo svolgere più attività perché devo gestire un turno con più compiti, avrò meno tempo da riservare al singolo paziente. La sfida, quindi, diventa quella di preservare dei contenuti assistenziali adeguati rispetto alle necessità degli anziani».

Le possibili soluzioni

Individuato il problema, quanto meno a grandi linee, viene naturale chiedersi: ma quindi? Come si risolve? A livello nazionale proposte non ce ne sono. La pandemia è riuscita a far sentire solo il grido di allarme da parte degli ospedali, mentre le RSA rimangono di nuovo in secondo piano. Così, ciascuna realtà prova a organizzarsi come riesce.

«A livello di UNEBA nazionale e insieme ad Aris (Associazione Religiosa Istituti Socio Sanitari) e alla CEI stiamo cercando di attivare collaborazioni con scuole di formazione infermieristica all’estero – spiega ad esempio Giuseppe Grigoni, – per poter avere a disposizione personale con titoli di studio equipollenti.

Stiamo investendo, garantendo loro disponibilità alloggiativa e sviluppando azioni formative mirate all’apprendimento della lingua italiana. Quasi tutte le regioni hanno disciplinato l’allargamento delle maglie di impiego di infermieri stranieri. Anche a livello nazionale è stato pubblicato un provvedimento ad hoc. L’impatto però, va detto, non è stato troppo incisivo rispetto a un problema, quello della carenza, che è radicato da tempo ed è impossibile trovare una soluzione facile e immediata. Questa prospettiva sulla quale stiamo lavorando potrebbe in ogni caso, in un futuro non troppo lontano, aiutare in modo concreto le strutture».

In Veneto invece, Roberto Volpe, presidente regionale di URIPA (Unione Regionale Istituzioni e Iniziative Pubbliche e Private di Assistenza per Anziani), chiede che siano proprio le regioni a intervenire per farsi carico di una parte del problema: «In Regione Veneto c’è stata la partecipazione di quasi 5000 laureati a un concorso per infermieri. Molti di questi provengono dalla realtà delle RSA. Secondo noi, se si vorrà potenziare il terzo settore si dovrà procedere all’assunzione straordinaria di coloro che hanno partecipato al concorso, assumerli per poi contrarre delle convenzioni per il periodo di pandemia che li metta a disposizione delle strutture per anziani, senza caricare il costo su di esse. Lo stesso principio valga per gli operatori sociosanitari».

«Un’altra possibilità – aggiunge infine Grigoni, –  è quella di potenziare la presenza di OSS con formazione complementare sanitaria, quello che è stato indebitamente definito “OSS con la terza S”. Si tratta di un corso al quale fa seguito un tirocinio della durata di 150 ore che permette a chi lo completa di assolvere alcune funzioni, come quella della somministrazione di farmaci, sotto la supervisione del personale infermieristico ma con una certa autonomia. L’infermiere in questo modo si potrebbe concentrare su determinate attività. Alcune regioni si stanno già muovendo in questa direzione».

Ma forse il primo vero passo da compiere è a livello culturale. Stabilizzare i contratti, certo, e garantire la sicurezza sul lavoro a tutto il personale sociosanitario. Non dimentichiamoci però che un lavoro per essere scelto deve avere delle attrattive, motivi per cui riscuote l’interesse di persone che non solo decidono di presentare il proprio curriculum, ma anche di seguire un corso di formazione apposito per poter raggiugere l’obiettivo: svolgere al meglio e con competenza la professione che si vuole fare.

Se continuiamo ad accettare la visione delle RSA come di ospedali di serie B o di luoghi ai quali si affida un anziano quasi contro voglia e solo quando tutte le altre opzioni sono risultate impraticabili, come possiamo pensare che chi entra nel mondo del lavoro manifesti il desiderio di destinare la propria carriera alle strutture sociosanitarie? (Sul tema di una nuova visione delle RSA si veda l’articolo pubblicato qui su rivista cura: Comunicare le RSA: la necessità di una contro narrazione).


Sitografia di riferimento:

Residenze per anziani e carenza di personale. Un’ulteriore emergenza nell’emergenza pandemica. OsservatorioWelforum.it. 2020

I precari storici dell’emergenza. CIGL. 2020

FIALS. Mancano Infermieri e OSS nelle Residenze Sanitarie Assistenziali in Lombardia. Il sindacato lancia l’allarme. AsocareNews.it. 2021

Rsa. Carenza di infermieri, Bernini (FP Cgil Veneto): “Si utilizzi il personale destinato alle Ulss”. Quotidianosanità.it. 2020

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