L’ambiente RSA non potrà essere mai come LA nostra “casa”, ma questo non vuol dire che non si possa “personalizzare” e rendere a nostra misura. Ma quale via di mezzo è possibile fra un luogo fatto “in serie” e una casa vera e propria? Riusciamo a trasformare le nostre strutture in luoghi di vita nonostante le regole a cui dobbiamo sottostare nella progettazione?

Come possiamo organizzare le strutture in modo che siano luoghi di vita e non luoghi fatti in serie?

Casa: lo specchio della personalità

Quando cambi casa la prima cosa che fai è adattarla alla tua personalità.
Cerchi di convertire quello spazio anonimo nel tuo spazio, lo arredi con i tuoi oggetti, lo colori, lo plasmi secondo la tua individualità. Lo fai quando la casa la compri, quanto la affitti, perfino quando ci rimani in vacanza qualche giorno sistemi gli oggetti che ti sei portato secondo il tuo stile.


Non esiste una casa uguale ad un’altra.


Anche in quei quartieri fatti di case costruite in serie, perfino nei grattacieli con decine e decine di appartamenti, se aprissimo la porta di ciascuno non ne troveremmo uno uguale. L’ambiente in cui viviamo è espressione della nostra identità. Provate a chiudere gli occhi un momento e pensate alla vostra camera, il vostro salotto, la vostra cucina.

Cosa rende quei luoghi, la vostra casa? Non è certo il contratto che avete firmato o il mutuo che avete acceso. È il modo in cui l’avete plasmata a vostra misura che la rende vostra davvero, permettendovi di attribuirle quel senso di appartenenza che vi fa sentire al sicuro. Il senso di sicurezza che ci trasmette un luogo si aggancia saldamente al grado con cui sentiamo che quel luogo ci appartiene.


Secondo la psicologia ambientale i luoghi che abitiamo nel corso della vita contribuiscono a plasmare la nostra identità ed è anche attraverso il modellamento dell’ambiente per renderlo coerente con la nostra identità che questa si esprime, in un processo circolare di mutua influenza che prosegue finché viviamo. Lo psicologo americano Harold Proshansky sul finire degli anni ’70 fu il primo a dare una definizione di questo profondo legame parlando di “place identity” (identità di luogo).


“L’identità di luogo rimanda a quelle dimensioni del che definiscono l’identità personale dell’individuo in relazione all’ambiente fisico attraverso un complesso sistema di idee, credenze, preferenze, sentimenti, valori e mete consapevoli e inconsapevoli unite alle tendenze comportamentali e alle abilità rilevanti per tale ambiente” ( Proshansky 1983).


È sulla base di questo sistema di elementi che l’individuo si orienta nel mondo, decodificando l’ambiente che attraversa come più o meno sicuro, cercando continuamente una coerenza tra ciò che lo circonda e ciò che lo fa stare bene.

Il valore identitario dell’ambiente per la persona con demenza


Una traduzione pratica del valore identitario rivestito dall’ambiente la incontriamo nelle persone con demenza, quando in stadio ormai moderato di malattia iniziano a chiedere con insistenza di essere portati a casa, pur essendo nella loro casa.

Ciò che essi intendono, il più delle volte, è la casa dell’infanzia e della giovinezza, quella che ricordano più facilmente perché non ancora fagocitata dalla malattia. Ma non è solo questo: dietro la ricerca della casa in una persona con demenza vi è la ricerca di sicurezza, di uno spazio familiare ed emotivamente significativo. È una ricerca di protezione data dal senso di appartenenza, lontano dal caos avviluppante della malattia che li affligge.


La consapevolezza del valore identitario dell’ambiente aiuta a dare un significato al disagio vissuto da chi si trova a dover cambiare luogo di vita, costretto dalle esigenze di uno stato di salute o di una condizione sociale che gli impedisce di rimanere nella propria casa. Come quando la persona va a vivere in residenza sanitaria, per esempio.


Quale attenzione attribuiamo a questi meccanismi quando pensiamo a come migliorare la qualità di vita in struttura? La maggior parte delle residenze sanitarie sono realizzate sulla base di specifici requisiti architettonici, definiti per permettere l’erogazione di prestazioni di cura in condizioni di efficienza e assenza di rischio.

Una struttura residenziale, per essere accreditata, deve garantire un’adeguata metratura in camere e corridoi, arredo ignifugo e sanificabile, un sistema di illuminazione sufficiente, supporti tecnologici facilitanti il lavoro del personale. Nessun parametro di accreditamento tuttavia considera quali elementi sul piano architettonico-organizzativo contribuirebbero a rendere le RSA soddisfacenti luoghi di vita per coloro che vi abitano.


La possibilità di arredare a proprio gusto la stanza è un tema tanto complesso organizzativamente quanto ancora poco esplorato. E ovviamente esiste un nesso di causalità tra questi due aspetti. Poter portare i propri mobili è una speranza di tanti che naufraga inevitabilmente tra le politiche organizzative interne e le norme di sicurezza e tutela dagli incendi a cui ogni struttura deve necessariamente attenersi.

Un punto di equilibrio tra il poco realistico trasloco in blocco della propria camera in RSA e il totale anonimato di un letto e un comodino fatti in serie, potrebbe però essere un traguardo a cui tendere.



Chiediamo alle donne e agli uomini che vengono a vivere in struttura di considerare quel letto e quel comodino la loro nuova casa e se possibile di farlo relativamente in fretta, senza particolari obiezioni. Nelle riunioni d’équipe in cui ci interroghiamo sulla bontà dell’adattamento dei nuovi ingressi, verifichiamo se hanno compreso ritmi e regole, se convivono serenamente con gli altri residenti, se partecipano alle attività, se mangiano e dormono, se il tono dell’umore è abbastanza buono dato un cambiamento di vita che è molto più che radicale.


Adattarsi all’ambiente è una costante della vita dell’uomo: è un meccanismo di sopravvivenza fondamentale per affrontare il mondo. Ma ci sono situazioni dove è più difficile e abbiamo più bisogno di aiuto. L’adattamento alla vita in RSA è una di quelle e sono numerosi gli accorgimenti e le azioni che facilitano il processo, a partire da un ambiente chiaro, non patologizzante, rispettoso della capacità di scelta ancora possibile.


Un focus chiave del nostro ragionamento dovrebbe essere anche su come favorire il ricrearsi di uno spazio di sicurezza per la persona, come agevolarlo a ricostruire un ambiente coerente con la sua identità. Non serve poi molto.


Ricordo una signora che ha abitato a lungo nella nostra struttura: appena entravi nella sua stanza era come venir catapultati in un salotto di casa. Gli arredi erano tutti nostri, ma sopra il nostro comodino e la nostra scrivania era un tripudio dei suoi centrini e porta foto, sulla nostra poltrona c’era la sua coperta personale, il suo cuscino, il suo libro. Sull’anta del nostro armadio c’era il suo calendario, sui nostri muri c’erano i suoi quadri. Sulle nostre finestre un tripudio dei suoi fuori.

La stanza che le avevamo dato in origine era in serie, come le altre. La signora era venuta a vivere in struttura per stare accanto al marito con gravi problemi sanitari, abbandonando con grande dolore una bella casa dove avrebbe potuto vivere ancora serenamente, circondata dai fiori che amava coltivare. Mi confidò che dopo un iniziale periodo di profondo sconforto per quanto aveva lasciato, aveva sentito il bisogno di sentirsi padrona di quel nuovo spazio verso cui l’aveva portata la vita, di ritrovare tra quelle mura anonime un senso di casa che le mancava profondamente.

Non è LA casa e non lo sarà mai, ma può essere una NUOVA casa.

È un cambio di prospettiva fondamentale, che dal subire passivamente gli eventi l’ha portata ad agire per ritrovarsi in uno spazio che non avrebbe voluto. Incentivare questo pensiero, favorirlo anche in coloro che smarriti si affacciano alla struttura con un senso di totale estraneità all’ambiente, è una leva da premere a tutti i livelli. Sul piano clinico, nei colloqui con la persona, e sul piano amministrativo, per incentivare anche lì, dove nel concreto si decide cosa si può fare e cosa no, un pensiero più ampio sulla natura della cura possibile dentro le RSA.


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Ex caregiver e psicologa perfezionata in counseling psicologico; Fa parte del team dei narratorə di CURA.

L’ambiente RSA non potrà essere mai come LA nostra “casa”, ma questo non vuol dire che non si possa “personalizzare” e rendere a nostra misura. Ma quale via di mezzo è possibile fra un luogo fatto “in serie” e una casa vera e propria? Riusciamo a trasformare le nostre strutture in luoghi di vita nonostante le regole a cui dobbiamo sottostare nella progettazione?

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