Se accompagnare l’anziano con demenza alla fine della vita è da sempre un compito delicato, che non si può improvvisare, in tempo di pandemia è diventato una vera e propria sfida. In quest’articolo, la dottoressa Elisa Mencacci ripercorre gli aspetti particolarmente difficili che si sono dovuti affrontare, ma anche le nuove idee che sono emerse, dalle quali tracciare una visione futura per l’accompagnamento di anziani, familiari e operatori in RSA.

«Come posso lasciarti andare?»: Una storia di addii, come tante

«Sa dottoressa, oggi più che mai penso a quanto questa cosa debba essere sdoganata e affrontata: basta nascondere la testa nella sabbia. Siamo tutti destinati a morire. La morte è un tabù ma ci guardi… poi arriviamo al capezzale dei nostri cari e non sappiamo che fare».

Queste sono le prime parole che il figlio di Marta (nome di fantasia, più di 90 anni, una demenza ormai in fase avanzata) mi pronuncia all’arrivo in residenza. Le circostanze sono di umana tragicità: Marta si è aggravata, peggiorando progressivamente e in maniera irreversibile.

«Mi dica, Elisa…cosa devo aspettarmi?»

Quante domande come queste, quante paure, timori, incertezze, abbiamo raccolto in questi lunghi mesi trascorsi. La morte è sopraggiunta ancor più beffarda e incontrollabile, nelle residenze per anziani, per gli anziani con le loro fragilità e per i loro cari, spesso portatori di angosce, (dis)illusioni, inquietudini: potrò salutare, potrò dire addio?

Così come tanti altri figli, nipoti, mariti e mogli, aiuto il figlio di Marta nella vestizione di quell’uniforme obbligata. Prima una mano, poi l’altra, i copri scarpa, poi le mani da disinfettare, la temperatura… sembra un rituale nuovo, sconosciuto, a cui si fatica a prender abitudine. Ed eccoci qua: coperti e disinfettati, pronti per una missione, quella più faticosa: «So che è l’ultima volta che posso salutarla»– mi sussurra ad occhi bassi mentre lo accompagno verso l’ascensore.

Il tragitto verso la camera di Marta sembra infinito: ogni passo e il respiro diventa affannoso, gli occhi lucidi, le parole interrotte da flebili sospiri. Il percorso è però occasione preziosa di scambio, quello di parole rassicuranti, preparative rispetto a ciò che vedrà: la solita Marta? No, Marta non è più la stessa. Marta non riuscirà a essere vigile e presente come prima, farà fatica a parlare ma potrà sentire e “stare”, con i suoi modi e tempi.

Si tratta di uno stare assieme che si è interrotto ormai mesi fa: un tempo che sembra epocale, straordinariamente enorme. La paura è quella che non lo riconosca, lui il figlio che ha cresciuto per una vita, quello con cui ha riso, scherzato, condiviso la quotidianità…fino a quando la malattia e, forse ancor più brutalmente, la pandemia, hanno interrotto tutto quanto.


Abbiamo parlato di cosa fare quando la persona cara non ci riconosce nell’articolo: «Ma tu chi sei?». Cosa fare quando la persona con demenza non riconosce più i familiari» (Sara Sabbadin, 28 luglio 2021).

demenza non riconosce più i familiari

Entriamo pian piano nella camera: con delicatezza, quasi fosse una piccola e preziosa cristalleria. Senza far troppo rumore, in punta di piedi.

Il silenzio dura l’attimo di un istante. Il figlio, al solo veder la mamma, crolla in un pianto improvviso, imponente, senza limiti: si riversa sul suo letto come a volerla recuperare da un precipizio. Ma lei è lì, sul letto, distesa, e non rischia di cadere. Dopo alcuni giorni di silenzio, dopo ore di totale assopimento, Marta apre gli occhi e, come fosse la cosa più naturale del mondo, apre la bocca sussurrando a fatica «ciao amore».

Al suono di quelle parole ogni paura, ogni timore, ogni titubanza si rompe: il muro si abbatte, il cuore si spalanca e le emozioni escono viscerali, oltre i dispositivi di protezione, le distanze, i vincoli imposti.

«Posso abbracciarla?» nel vortice di un tempo e uno spazio rarefatti e sospesi non diviene più domanda lecita ma solo contorno, sfondo. L’immagine centrale è solo su un’unione troppo forte da interrompere, che non conosce limiti e soprattutto fine. Ma è la fine, maledetta, che spaventa. «è l’ultima volta vero?» risuona come una condanna. Implacabile verdetto a cui non esiste appello.

Marta non accenna a chiudere gli occhi: senza parlare, perché ormai la capacità verbale è perduta, rimane in ascolto, sorridendo dolcemente. E’ un sorriso che accoglie, ringrazia, sembra quasi rassicurare. Sembra voler dire «sì, ci sono lo stesso».

Nel silenzio pesante di quei minuti limitati quanto infiniti, sembra non esserci più spazio per le parole.

Loro sono lì, madre e figlio, assieme, vicini e allo stesso tempo distanti, con la paura di toccarsi e abbracciarsi; una paura che non è quella di un contagio possibile, ma il terrore che possa essere, davvero, l’ultima volta. Circoscritta a pochi minuti, a un tempo che si sta chiudendo inesorabile, come la vita di Marta.

Il figlio si avvicina, protetto solo dalle lacrime che inondano gli occhi, per quelle che saranno le ultime, straordinarie, parole: «quello che sono diventato, mamma, lo devo a te. Se sono quello che sono, è grazie a te. Grazie».

La narrazione diviene testimonianza di vita nella vita, storia nella storia, biografia che si tramanda e si fa perdurante identità. Un’identità che continua, che permea oltre la pelle ruvida e il corpo consumato, che permane al tempo cronologico e a quello della malattia.

Dopo un tempo più o meno infinito (questa è la mia percezione, anche se in realtà risulterò poco più di mezzora) accompagno il figlio verso l’uscita, soffermandoci di nuovo verso l’ingresso della residenza. Rimango con lui nel momento del rito della svestizione, alternando il silenzio commosso a parole che escono quasi a togliere tutto il peso, la fatica, l’imbarazzo. Lui si sveste anche di quei pesi, assieme al camice. Riesce anche a sorridere di nuovo, mentre mi saluta varcando la porta.

Quello è stato l’ultimo loro momento assieme, e tutti noi ne siamo stati testimoni. Fine e inizio.

Marta morirà il giorno dopo, spenta lentamente e dolcemente, circondata dalle fotografie dei suoi cari. Solamente attraverso quelle foto ha potuto averli tutti lì, con lei, nell’ultimo respiro su questa terra.

Il racconto di Marta e di suo figlio è solo una delle tante, tantissime storie che in questo anno e mezzo hanno riempito le nostre lunghe giornate lavorative, quelle di operatori che, come me, a vario titolo hanno prestato assistenza ad anziani con demenza e alle loro famiglie. Un’assistenza che non si è fermata di fronte al virus, di fronte alle chiusure e, soprattutto, di fronte alla morte.

Il percorso verso la morte è diventato per tutti noi operatori di residenze per anziani qualcosa di ancora più delicato, prezioso, inestimabile: il tempo e lo spazio dell’accompagnamento, del lutto, del congedo, dei rituali di addio e del lasciar andare. Il tempo della vita che continua, nonostante tutto.

La demenza tra perdite molteplici e lutti inevitabili

L’anziano con demenza si trova a vivere inevitabilmente una serie di perdite, progressive e irreversibili, che la persona si trova ad affrontare, ancora prima del sopraggiungere della fase terminale. La persona malata vive infatti la perdita di:

memoria, capacità linguistiche, capacità di muoversi, la capacità di alimentarsi, capacità sociali e relazionali, capacità di risolvere problemi, capacità di orientarsi nello spazio e nel tempo, funzioni quotidiane di base, ruolo, autonomia, libertà e autodeterminazione, identità, autostima, controllo e sicurezza, personale.

Ogni tappa, ogni perdita, diviene una sfida per il caregiver, il quale si trova a vivere veri e propri lutti, in concomitanza di ognuno di questi momenti critici.

Pensiamo a come questi momenti di svolta possano essere stati stravolti dalla pandemia e dalle sue conseguenze, a partire dal momento dell’inserimento in struttura e poi nei vari eventi-trigger che hanno contrassegnato i peggioramenti nel percorso di malattia.

Transizioni senza possibilità di ritorno, spesso vissute senza una necessaria comunicazione o senza possibilità di mediazione della famiglia, se non attraverso un apparecchio tecnologico o la supervisione continua di un operatore, divenuto figura di riferimento e di collegamento tra il dentro e il fuori.

L’impatto psicologico di un mancato riconoscimento della perdita, seppur singola, ha in certi casi reso difficoltoso non solo l’elaborazione del lutto anticipatorio ma dell’intero percorso di accompagnamentomio padre è arrivato qui parlando…adesso vedo che non è più in grado neanche di dire una parola, durante le visite sembra spento…sembra un’altra persona»).

Si pensi a quanto sia diventata difficile la comprensione consapevole dei cambiamenti corporei, sia fisiologici all’invecchiamento sia correlati alla demenza: la perdita di peso («è passata una settimana ma mia mamma sembra sempre più uno scheletro»), il volto più stanco e il corpo più rallentato («sembra più assente, più spento»), descrizioni queste che avvicinano, anche simbolicamente, all’immagine di morte che il familiare teme e rifugge.

Sono immagini che sono arrivate allo sguardo del familiare quasi all’improvviso, nel tempo e nello spazio circoscritto di una visita o di una videochiamata, molte volte senza preavviso, disilludendo quella speranza, umana quanto illusoria, che il tempo del covid avesse fermato davvero tutto. Purtroppo la malattia è andata avanti, a volte in maniera subdola, altre volte palese e marcata, senza possibilità di comprensione o interruzione.

Cosa è emerso dal momento di difficoltà

Un impatto tra i più significativi sembra esser stato in concomitanza della perdita per l’anziano della capacità di parlare normalmente e del mancato riconoscimento dei familiari. L’aspetto comunicativo è apparso ancor più centrale in questo tempo fatto di scambi virtuali, videochiamate o telefonate di breve durata, magari circoscritte a momenti specifici della giornata.

Alla quantità ristretta di tempo comunicativo tra familiari e anziani è subentrata la ricerca, a volte spasmodica, di un tempo di qualità: «abbiamo solo questa mezz’oretta di tempo per stare assieme, non puoi dormire papà!», «vorrei riuscire a stare più a lungo con te tesoro, ma so che fai sempre più fatica a star su…perciò ti prego, guardami più che puoi».

Il mancato riconoscimento dei familiari, già presente nella quotidianità del percorso di malattia, ha reso ancora più difficile la gestione, psicologica ma anche pragmatica, dei momenti di incontro con l’anziano, davanti a un plexiglas o allo schermo di un tablet.

RSA

In questi momenti così delicati, l’operatore di turno si è trovato a dover gestire attimi infiniti di sconforto, imbarazzo, disagio  («continuo a parlargli ma non so se mi capisce…non sembra che capisca che sono io, cosa starà pensando?»; «secondo lei mi starà sentendo? Può accarezzarlo per me e dirgli che è da parte di sua figlia?»). Non sempre è possibile trovare le parole giuste, a volte queste sembrano non essere sufficienti di fronte al dolore di un familiare che sente di aver perso qualcuno di caro, così come se lo era da sempre ricordato.

L’incapacità per il familiare di esser stato presente come avrebbe voluto nell’ultimo periodo, la mancata partecipazione ai rituali, i rimpianti, i non conclusi, la rabbia e il senso di ingiustizia per la “chiusura forzata”, il senso di colpa per “non aver capito prima” che la morte stava sopraggiungendo e, più in generale, il mancato riconoscimento del lutto anticipatorio,  sono tutti elementi che hanno portato in molti casi a compromettere il percorso di accompagnamento e di lutto successivo, con esiti ancora poco esplorati quanto impattanti.

Quello che è emerso in questo periodo è stata la necessità di tempi più flessibili nelle fasi avanzate di malattia (il tempo dell’informazione e della comunicazione, il tempo della relazione, il tempo della scelta e quello della condivisione), con la possibilità di anticipare e di spiegare al familiare quello che avrebbe visto o vissuto (nella prossima visita o nella videochiamata), rassicurandolo su aspetti mai scontati quanto tragicamente pressanti

«il lento spegnersi della mamma non è dovuto ad una vostra mancanza ma è parte di un più ampio e complesso percorso inevitabile di malattia»; «quello che abbiamo visto in questo periodo è un cambiamento dovuto alla malattia, ci aspettiamo che progressivamente possa ancora peggiorare…»).

In alcune circostanze si sono dovuti adattare anche gli spazi, consentendo visite solo con la presenza di un operatore in supervisione o all’interno delle camere condivise, con spazi divenuti tanto vicini quanto distanti, a volte lacerando quell’intimità che si sarebbe immaginato e voluto, per quegli ultimi, preziosi, momenti con il proprio caro.

L’importanza di comprendere ed elaborare il lutto

Il lutto che vive un caregiver di un anziano con demenza è senza dubbio «speciale». Essere testimone di un declino graduale della memoria e del cambiamento della personalità di un proprio caro evoca una forma di lutto unica e diversa da ogni altra conoscibile.

Una delle difficoltà più rilevanti di questa situazione è il fatto che solo pochi caregiver sono effettivamente consapevoli che quello che stanno vivendo è proprio un lutto. Inoltre la mancata conoscenza del lutto come un’esperienza naturale, universale e normale nel prendersi cura di un anziano con demenza, può portare a sofferenza ulteriore.

L’esperienza della pandemia ci ha portato inevitabilmente come curanti a interrogarci su quanto spazio e in che modo favoriamo il riconoscimento e la comprensione del lutto anticipatorio nel familiare dell’anziano con demenza (e anche in noi operatori): quando e in che modo lasciamo spazio per parlare di perdite, cambiamenti irreversibili, morte, lutto? Ci sono professionisti all’interno dell’equipe di lavoro che possono gestire queste dimensioni favorendo strumenti e modalità di elaborazione?

Queste domande diventano suggestioni imprescindibili per il futuro dei servizi agli anziani, in particolar modo nell’ottica di un’organizzazione in grado di fornire risposte adeguate ai bisogni non solo dell’anziano ma anche di chi assiste, sempre più agenti fondanti del benessere e della qualità di vita (e di morte) dell’anziano.

Per poter offrire risposte adeguate occorre riconoscere  l’importanza dell’elaborazione del lutto come parte costitutiva del percorso di accompagnamento alla demenza, dalle prime fasi di malattia e in tutto il cammino verso la perdita finale.

Il covid ci ha forse reso più attenti come curanti al fattore “anticipatorio”, sia nel vissuto di lutto che nella presa in carico, affinché si possa arrivare agli ultimi istanti di vita dell’anziano con meno angosce, titubanze, rimpianti. La preparazione deve cominciare a partire dalla dimensione comunicativa, che possa andare di pari passo all’evoluzione sintomatologica dell’anziano, cogliendo per tempo le possibilità di scelte consapevoli, chiarificazioni, scioglimento di nodi emotivi. Prima che sia troppo tardi.

Il lavoro di elaborazione del lutto, per il caregiver ma anche per l’anziano, è un processo attivo, non passivo, che richiede delle tappe che vanno dal fare esperienza del dolore al confrontarsi con un nuovo sé, richiedendo tempo e, molte volte, l’aiuto di qualcuno che guidi con competenza.

Il percorso del lutto è parte integrante della pianificazione individuale di cura della persona con demenza e della sua famiglia, all’interno di un approccio palliativo interdisciplinare che sappia identificare come obiettivi primari l’identificazione e il sollievo dal dolore globale (fisico ma anche psicologico, spirituale, sociale, esistenziale).

La sofferenza che la persona con demenza può vivere nell’ultima parte della sua vita può essere ascrivibile, come in questi mesi abbiamo potuto tristemente osservare, alla percezione di abbandono, all’isolamento relazionale, alla perdita di scopo, all’angoscia di una morte solitaria, senza riferimenti non solo spaziali e temporali ma anche affettivi, emotivi.

Molto spesso gli operatori di cura hanno assunto il ruolo di “accompagnatori” con deleghe importanti da parte dei familiari, spesso non presenti e quindi indirettamente chiamati ad affidare i propri cari a coloro che più di ogni altro ha saputo conoscerli, anche in intimità, nel loro ultimo pezzo di strada.

Strumenti nuovi per accompagnare l’anziano e i suoi cari

In questi mesi abbiamo cercato di costruire o recuperare ulteriori strumenti per accompagnare l’anziano con demenza e i suoi cari alla fine della vita, ad esempio invitando i familiari a portare qualcosa che raccontasse di loro, del loro rapporto (fotografie, oggetti, immagini, canzoni) e riuscendo così a lavorare sul mantenimento dell’identità, oltre il covid, oltre la vecchiaia, oltre la fine.

Si sono create vere e proprie esperienze di scambi di doni durante i momenti di incontro: regali di compleanno o anniversario per celebrare, fiori e piante per ricordarsi l’importanza del prendersi cura, dolcetti e cibo per confermare, nonostante tutto, il nutrimento e il legame con la vita ancora possibile. Con le persone con demenza il dono è riuscito molte volte ad andare oltre le parole, veicolando modalità ed espressioni di altra natura ma di altrettanta potenza evocativa.

Durante l’incontro “distanziante” si sono trovate ritualità che hanno avvicinato: lo scambio dei doni è diventato un momento di recupero del sé perduto, un tentativo di tenere aggrappato un pezzettino di sé ma imparando allo stesso tempo a lasciar andare.

Il ruolo fondamentale degli operatori di cura

L’operatore è stato colui che ha preso, passato e portato il dono tra il familiare e il proprio caro con demenza, diventando intermediario, veicolo di mediazione. Spesso chiedendosi quali parole o gesti fossero possibili per poter salutare, per imparare a sopportare il distacco, senza togliere la speranza.

La capacità di accogliere il dono è diventata una modalità possibile per elaborare il lutto, all’interno di un incontro non solo di persone ma di generazioni, relazioni, ricordi, legami indissolubili di cui siamo stati testimoni.

Il peso degli operatori di cura in questi mesi è stato, oltre a quello di lavorare a contatto con i possibili rischi da contagio, nella fatica di stare a tu per tu con la perdita, per se stessi e per coloro che in quel momento non potevano esserci, con l’amplificazione di vissuti di responsabilità, di carico emotivo inespresso.

Il futuro dell’accompagnamento per le strutture residenziali

Le strutture residenziali hanno toccato con mano in questi mesi quanto la preparazione, individuale e organizzativa, al processo del morire (e non solo alla morte!) abbia potuto, e possa, fare davvero la differenza: competenze palliative e di gestione del dolore, competenze etiche di fronte a scelte terapeutiche delicate (sedazione palliativa, nutrizione e idratazione artificiale, respirazione meccanica, luogo di morte), competenze comunicative e relazionali nonché nella gestione del lutto. Tutto questo è apparso ancora più urgente nella presa in carico delle sempre più numerose situazioni di demenza, condizioni nelle quali già dal momento della diagnosi si osservano chiari e impattanti le perdite, irreversibili, e i lutti successivi che costellano il percorso di malattia.

L’operatore che accompagna non può essere lasciato psicologicamente “solo”, così come il familiare. I momenti delle videochiamate, delle telefonate, degli incontri protetti tra persone con demenza e i propri cari non possono essere improvvisati, in particolar modo nei momenti critici che segnano il passaggio verso fasi avanzate di malattia.

Il futuro, a partire dalla pandemia e oltre questa, ci chiamerà come curanti ad essere sempre più “accompagnatori accompagnati” come ci sottolinea Bormolini, ipotizzando percorsi di formazione specifici e strumenti organizzativi di supporto. Il futuro è già adesso.

Conclusione

Mi piace pensare che tutte le Marta che abbiamo accompagnato alla fine della vita, in questo tempo di restrizioni, privazioni, mancanze, abbiano davvero potuto lasciare qualcosa di loro. In un ultimo, seppur breve, momento di congedo, osservando occhi sorridenti dietro alla mascherina, ultimo sguardo impresso nell’eternità. Marta ha visto il sorriso di suo figlio, e dietro al suo sorriso il mio, il nostro, quello di altri che si sono succeduti nella propria vita e che lì, tutti assieme, erano con lei. E’ stato lo scambio di tutta una vita, come a segnare quel patto eterno di lascito.

Marta non c’è più, ma tutto di lei continuerà a esistere.

Riferimenti bibliografici

G. Bormolini, Accompagnatori accompagnati. Condurre la vita attraverso la morte. Edizioni Messaggero, Padova 2020.

E. Mencacci, A. Bordin, V. Busato, Non sono più io. Come fronteggiare l’interminabile lutto nella demenza. Editrice Dapero, Piacenza 2020.

libro lutto

Il libro per fronteggiare il lutto. Quattro domande agli autori di Non sono più io (Editrice Dapero, 29.07.2020)

E. Mencacci, Il lutto oltre il covid-19, rivista CURA, 18 giugno 2020.

About the Author: Elisa Mencacci

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Psicologa clinica, tanatologa e autrice del libro "Non sono più io. Come fronteggiare l'interminabile lutto nella demenza" (Editrice Dapero, 2020).

Se accompagnare l’anziano con demenza alla fine della vita è da sempre un compito delicato, che non si può improvvisare, in tempo di pandemia è diventato una vera e propria sfida. In quest’articolo, la dottoressa Elisa Mencacci ripercorre gli aspetti particolarmente difficili che si sono dovuti affrontare, ma anche le nuove idee che sono emerse, dalle quali tracciare una visione futura per l’accompagnamento di anziani, familiari e operatori in RSA.

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Psicologa clinica, tanatologa e autrice del libro "Non sono più io. Come fronteggiare l'interminabile lutto nella demenza" (Editrice Dapero, 2020).