L’accettazione della malattia neurodegenerativa che colpisce la persona e la sua famiglia è un processo lungo e doloroso. Sara Fenzo lo definisce un “Navigare a vista” nel suo racconto sul libro “Nonna sul pianeta blu”. E ci spiega il senso dell’ascoltarsi e dell’aiutarsi reciprocamente nei Gruppi di Auto-Mutuo Aiuto
Il Gruppo di Auto Mutuo Aiuto
“Buongiorno a tutti, questa è Sara, psicologa volontaria e in formazione”. “Prego Sara, accomodati pure lì”, mi dice Chiara invitandomi a unirmi a un gruppetto di persone sedute attorno a un grande tavolo circolare.
I presenti a cui si rivolge Chiara sono i partecipanti degli incontri del Gruppo Auto Mutuo Aiuto, il cui nome fa riferimento ad una realtà associativa esistente da anni e che è nata con l’obiettivo di permettere ai caregiver delle persone affette da malattie neurodegenerative di riunirsi in uno spazio sicuro, condividendo le sofferenze e cercando di aiutarsi a vicenda nell’accettazione della malattia.
Ogni incontro è supervisionato da un professionista, spesso uno psicologo, con il compito di coordinare e gestire le tematiche e gli argomenti da affrontare, preoccupandosi che ogni membro del gruppo abbia l’opportunità di intervenire. L’insieme di persone che costituisce il Gruppo è spesso eterogeneo in quanto può comprendere figli o figlie giovani, mariti o mogli anziane, fratelli, tutti uniti dalla sofferenza per la patologia dei loro cari e dalla necessità di utilizzare il tempo a loro disposizione per manifestare liberamente, senza la presenza del malato, le reali sensazioni e stati d’animo.
Durante il racconto delle loro le fatiche quotidiane non ci sono occhi che esprimono fredda compassione o giudizi indesiderati da parte di estranei, ma piuttosto calde strette di mano e sorrisi empatici, di chi capisce la situazione perché la sta vivendo o l’ha già vissuta.
“Nonna sul pianeta blu”: un concorso letterario per testimoniare la lotta dei caregiver
L’aiuto è vero e reciproco e nessuno meglio di chi piange le stesse lacrime può fornirlo.
Dopo alcuni anni di esperienza come volontaria in questo e in altri gruppi di caregiver, il ricordo del mio primo incontro mi è ritornato alla memoria quando ho deciso di partecipare al concorso letterario promosso dall’Associazione de Banfield, “Nonna sul pianeta Blu”.
Lo scopo del concorso era quello di far conoscere ai più, attraverso la forma del racconto, le testimonianze di chi ha sperimentato, o continua a sperimentare giornalmente, la quotidianità accanto a una persona affetta da Alzheimer o da altre forme di demenza. L’obiettivo era principalmente quello di creare uno spazio per poter raccontare storie di memoria smarrita, attraverso la voce di chi quella realtà la vive o la ha vissuta per meglio procedere nell’accettazione della malattia.
La mia partecipazione non ricopriva però il ruolo di “persona che cura”, quanto piuttosto quella di tramite: con l’occasione di poter essere letta da un pubblico numeroso e competente, ho lasciato che le dita sulla tastiera riuscissero a rappresentare, attraverso il mio racconto, il modo in cui realmente chi partecipa ai gruppi di Auto Mutuo Aiuto riesce ad affrontare la convivenza con la malattia dei propri cari, mettendone a nudo le emozioni e le sensazioni che ne derivano.
“Navigare a vista”: il viaggio senza bussola di una figlia
In “Navigare a vista”, titolo del mio racconto, ho cercato di descrivere la storia di malattia di un amato padre e il percorso da parte della figlia nell’accettazione della malattia.
Quella che voglio raccontarti è la storia di un viaggio. Il viaggio che ho intrapreso con mio padre e la sua malattia, che mi piace pensare come un lungo percorso di navigazione. Lui, la mia imbarcazione che si erode col tempo, io, il marinaio inesperto che deve attraversare un mare in continuo cambiamento. Non ci sono riferimenti in questa distesa d’acqua, non c’è porto dove fermarsi quando si è stanchi e non c’è bussola che riesca a indicare la direzione giusta. Perché nella realtà nessuno conosce la rotta da seguire. Nel mio mare, si naviga a vista.
Il cambiamento continuo e imprevedibile nel comportamento della persona malata è il denominatore comune con cui tutti i caregiver che ho incontrato fanno più fatica a rapportarsi. La mancanza di certezze per il futuro non permette a chi assiste di pianificare la propria esistenza, con conseguenze negative per l’accettazione della malattia e lo svolgimento della propria vita quotidiana a livello pratico, psicologico ed emotivo, costringendolo a vivere nell’unica certezza conosciuta: i ricordi del passato.
Non tutti dobbiamo affrontare lo stesso mare. C’è chi riesce a cavarsela con poche difficoltà perché la barca è ancora solida e la traversata procede tranquilla. Per loro la malattia è solo allo stadio embrionale, i sintomi sono appena percettibili e sono riusciti da subito ad intervenire correggendo la rotta, anche se consci che prima o poi finiranno in mezzo alla tempesta.
Ma ci sono molti che stanno navigando nella bufera e la loro barca sta colando a picco. L’acqua ha iniziato a farsi largo tra le fessure del legno e il marinaio che la conduce dopo molto fatica è stremato ed incapace di porvi rimedio. Così sono io. Altro non potrei fare che guardare la schiuma bianca salire dopo il naufragio.
Ricordare che ogni situazione sia a sé e che la malattia non procede con la stessa velocità o gravità per tutti è tanto realistico quanto fondamentale. Non bisogna però consentire che la diversità possa creare le condizioni per giudicare come “giusti” o “sbagliati alcuni comportamenti del caregiver: in una condizione di sofferenza e di frustrazione comune, gli individui, le loro storie di vita e le relazioni con i propri cari malati sono differenti e complesse, ognuna a suo modo. In alcuni momenti si è portati a considerare la propria situazione come la peggiore e il proprio dolore come unico, non paragonabile a nessun altro.
È necessario invece ricordare che il lungo travaglio della patologia colpisce tutti, nonostante poi ciascuno decida in maniera soggettiva come affrontarla per arrivare all’accettazione della malattia. Condividere le difficoltà permette allora di cambiare prospettiva e di vestire per qualche momento i panni dell’altra persona, entrando in empatia con le sue emozioni.
A maggior ragione, gli errori di uno possono essere evitati da un altro e quello che un caregiver ha già affrontato, se condiviso, può rivelarsi un insegnamento utile per il prossimo e per tutti quelli che verranno.
Io e papà Antonio
Dopo alcuni mesi in cui papà Antonio appariva confuso, faceva difficoltà a ricordare gli appuntamenti e aveva iniziato a dimenticare i tragitti abituali come quello casa-lavoro, arrivò la diagnosi del neurologo. Alzheimer. Ricordo che in quel momento mi arrabbiai molto con il dottore: doveva esserci un errore, mio padre non era malato, era un uomo in gamba. Tornando a casa, con ancora in testa le parole del medico, incominciavo a perdere le mie certezze, mi sentivo disorientata e spaventata.Ripenso ai primi mesi, i più difficili, e a come continuavo a non accettare la realtà. Seppur conscia della situazione, la mente ti porta a non volerla riconoscere. E così non volevo vedere i sintomi che peggioravano. Mi sembrava impossibile che potesse sbagliare le cose più semplici, dimenticare le commissioni che gli affidavo, perdersi per strada. Lo sgridavo e la mia rabbia era rivolta al destino ingiusto, che ci aveva scelto come un giocatore d’azzardo sceglie un numero alla roulette e ci aveva gettato in questa situazione come si getta un dado sul tavolo verde.
Scrivendo queste righe ho pensato alla rabbia e alla frustrazione della signora L., caregiver a tempo pieno di una madre malata di Alzheimer, che ho avuto l’occasione di conoscere e supportare. Ad ogni incontro si presentava sempre più arrabbiata, stanca e frustrata: la malattia della madre peggiorava velocemente e ogni ulteriore sintomo era per lei una conferma difficile da poter accettare.
Esasperata, accusava, con le lacrime agli occhi, il personale sanitario incontrato alle visite mediche di non saperla aiutare, gli amici che di punto in bianco erano spariti, ma soprattutto i comportamenti privi di senso di sua madre, così vicina fisicamente ma allo stesso tempo così diversa e distante dalla persona che aveva sempre conosciuto come tale.
Per L. il gruppo è stata la sua salvezza, un’ancora a cui aggrapparsi prima che la rabbia la consumasse dentro. Con l’aiuto della psicologa e degli altri caregiver è riuscita ad analizzare i suoi sentimenti imparando a lasciar andare il risentimento, i pensieri negativi per cui provava vergogna e il suo radicato senso di colpa per “non essere mai abbastanza” nel prendersi cura di sua mamma. Abbastanza paziente, abbastanza comprensiva, abbastanza sorridente, abbastanza una brava figlia.
Eppure, la notte un dubbio mi assilla: riuscirò a non dimenticare com’era mio padre prima che il mostro della malattia lo prendesse? La risposta è che non voglio e non posso dimenticarlo, per quanto la persona che ho accanto ora sia completamente diversa. Anche io ora sono cambiata molto: l’esperienza dell’Alzheimer ha modificato il mio temperamento, così come ha cambiato il suo, e ha stravolto le mie abitudini, proprio sulla base delle sue.Ho accettato che quell’ Antonio non ci sarà più. Sono cambiata perché ho smesso di volere che tutte le cose andassero come mi ero programmata. Ho passato troppi anni alla ricerca disperata di una soluzione senza comprendere che la soluzione non c’era. Finalmente l’ho capito. Sto accettando che la realtà è diversa dalla mia immaginazione e soprattutto mi rendo conto quanto il mio atteggiamento e il mio comportamento influenzino il suo stato d’animo.
Ora so quanto lo faccia stare bene un mio sorriso, una mia risata e quanto invece lo agitino i miei cambi di umore o anche solo la mia fronte corrugata. Ho accettato la sua impossibilità a comprendere la mia stanchezza, il mio dolore e il mio imbarazzo. Non pretendo, cerco solo di dare, accarezzando la sua rabbia e la sua tristezza. Alla fine, siamo due estranei che rimangono padre e figlia per sempre. Navigando a vista ci siamo ritrovati, papà.
L’accettazione della malattia è saper scegliere ogni giorno come comportarsi
La conclusione del mio racconto non è sicuramente un lieto fine. Non ho voluto addolcire la realtà, la malattia continuerà a progredire fino a quando non avrà terminato il suo corso e questo dato di fatto non può essere modificato da nessuna delle parole che potrei scrivere.
La mia esperienza di volontariato mi ha però permesso di capire che si ha sempre la possibilità di scegliere come comportarsi e di affrontare situazioni dall’esito immutabile, come può essere una diagnosi di demenza. I caregiver del Gruppo di Auto Mutuo Aiuto imparano ogni giorno a non avere paura di chiedere aiuto o mostrare le proprie debolezze, oltre che a ritagliarsi del tempo per sé stessi, per le proprie passioni e i propri interessi.
Quotidianamente apprendono a delegare, a condividere il carico assistenziale, a non prendere sul personale le mancanze o comportamenti spesso imprevisti dei malati, assumendo la consapevolezza che non sono loro i colpevoli, perché l’unico colpevole è la patologia di cui soffrono i propri cari.
Tutto questo si chiama processo di accettazione della malattia: un costante, sommesso dolore di sottofondo che prova colui che osserva la malattia e che si attenua soltanto quando si è in grado di trovare qualcosa per cui tornare a sorridere, capendo i propri limiti, ma anche le proprie potenzialità.
Sara Fenzo è l’ideatrice del progetto “Nonnodimentica” di cui ha creato una pagina Instagram. La sua è una voce fresca che racconta la malattia neurodegenerativa a un pubblico inedito e non addetto ai lavori: il mondo social dei giovani.
Ci ha raccontato la sua visione in questo articolo di rivista CURA online: Come far conoscere il decadimento cognitivo attraverso Instagram: la sfida di “Nonnodimentica” con i giovani
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