A cura di Elisabetta Canton
I mesi sono trascorsi, per alcuni in modo frenetico, per altri molto lentamente, per altri non c’è stata la possibilità di percepire il tempo, ma per tutti, rimango le emozioni, sono custodite nel nostro personale contenitore…
Come si può considerare il Buontrattamento riservato agli anziani nella dimensione creata dal COVID: la tutela della salute in senso stretto ha preso il sopravvento rispetto a tutti gli altri aspetti che costituiscono il benessere e la cura delle persone non autosufficienti accolte nelle strutture residenziali. In una tale situazione di emergenza si è capovolta completamente la prospettiva, prima di tutto la protezione e tutto il resto, in qualche modo deve essere garantito. In questa realtà, l’attenzione che le strutture prestavano alla relazione, alle parole, all’incontrare i desideri e i tempi di vita degli anziani non sono più stati argomenti di discussione, in questo periodo sono subentrate esigenze nuove, in primis quella sanitaria, appunto: il sorriso dell’operatore quando entrava nella stanza viene soppiantato dalla mascherina; la carezza sulla spalla e il contatto, diventano tabù e contemporaneamente però ci si trova nella condizione di sopperire alla mancanza dell’affetto dei familiari, alle parole si sostegno dei figli, alle risate dei nipoti, alla consolazione degli affetti. Il blocco totale si è riversato sulla vita degli anziani che già si trovavano in una situazione di limitata mobilità, ironia della sorte, la limitazione anche di chi è abituato a muoversi, ha creato ulteriore disagio alla loro quotidianità.
In questa situazione tutti gli italiani hanno condiviso la chiusura, il blocco degli spostamenti, non c’è stata differenza tra giovani o vecchi, l’unico particolare che ha determinato la diversità per chi vive in una residenza è che ha bisogno di due famiglie, quella che ha costruito o si è trovato all’interno della struttura e quella naturale, che vive fuori, quella che ha contribuito a formare e che ha dato il senso alla sua vita: ecco, questa seconda famiglia è sparita, da un momento all’altro, come se non ci fosse più.
Da quel momento il barattolo con l’etichetta COVID19, ha cominciato ad accogliere emozioni, alcune che si possono esprimere ma tante altre sono lì, in attesa, prima o poi bisognerà tirarle fuori, quando tutto sarà finito, forse.
La chiusura, inevitabile, dovuta, per tenere fuori qualsiasi possibilità di contagio, ha rappresentato il tenere lontani i familiari e bloccare il grande supporto dei volontari che rappresentano le relazioni ludiche, di amicizia anche per le persone che non hanno una famiglia; per tutti ha significato vivere uno stato di abbandono e di estrema solitudine.
Carla, è rientrata dall’ospedale, dopo un lungo ricovero, proprio in quei giorni, ai primi di marzo, struttura chiusa, familiari lasciati fuori, lei era una persona conosciuta da tutti, accolta da molti anni, lucida e tuttofare o meglio stretta collaboratrice delle educatrici, lei amava stare sola a cucire ma nei punti di passaggio, dove tutti potevano fermarsi a fare due chiacchiere, a chiederle consigli culinari, a verificare se la compagna di stanza era stata tranquilla e l’aveva fatta dormire, ad ascoltare dove era stata di bello con i figli la domenica appena trascorsa, Carla era così. Lei si è spenta in totale solitudine, senza aver avuto la possibilità di avere i tre figli vicini, senza che gli operatori a cui era più affezionata la salutassero, morte non prevedibile nell’immediato, ma la struttura non poteva far entrare in ogni momento i familiari che solitamente rimangono accanto fino all’ultimo istante. Il COVID non c’entrava niente con Carla, ma ha determinato anche i suoi ultimi istanti con noi.
Le persone anziane sono state ricordate in questi mesi per la loro fragilità, per il pericolo che correvano solo per il fatto di trovarsi nelle residenze per anziani, considerate i luoghi dove il contagio poteva ucciderli in un attimo, loro così impotenti rispetto a ciò che stava accadendo, avevano tra le mani sono il loro barattolo pieno di emozioni che difficilmente potevano esprimere.
Serafina, 92 anni vive in una casa di riposo in provincia di Torino racconta: “Non ho ben capito cosa sia successo in questo periodo che non so neanche dirti quanto lungo è… Ho capito che c’è questo virus e che la mia famiglia non può più venire a trovarmi. Io ho deciso di venire a vivere qui 5 anni fa perché a casa ero sola e non volevo andare a vivere dai miei figli, mi sono sempre trovata bene ma queste ultime settimane proprio no… non li ho più visti e sentiti poco, i bambini non mi sono più venuti a trovare e loro erano la mia ragione andare avanti e sopportare questo e adesso non ce l’ho più…Poi non ho più fatto fisioterapia e adesso mi controllano nel camminare e non posso più girare come prima… Sono arrabbiata e tanto stanca!”
“Il momento più brutto? Quando sono caduta e mi hanno portato in ospedale; mia figlia non è venuta e mi hanno lasciata sola in una grande confusione. Poi quando mi hanno riportata qua non mi hanno lasciata andare nella mia stanza ma mi hanno chiusa dentro ad un’altra per tanti giorni e io non avevo più nessuno con cui parlare ed è stato lungo e terribile.”
“Mi sono mancati i miei figli e i bambini, tanto tanto e le fotografie non bastano”
“Cosa vorresti fare in questo momento?” “ Tornare a casa mia e fare gli agnolotti per tutti, qui così non resisto più!!!”.
Personalmente ricordo il giorno in cui abbiamo chiuso la struttura alle visite dei familiari, il 22 febbraio, era di pomeriggio, nella struttura c’erano molti familiari presenti, nei nuclei, nei saloni e al bar, era ancora freddo ed erano tutti seduti all’interno, la vita e i rumori della quotidianità risuonavano in tutte le residenze, è stata l’ultima volta: dopo aver chiesto ai familiari presenti di concludere la visita e di accomodarsi fuori, ho rifatto il giro di tutti i nuclei, c’era solo silenzio, nessuno parlava più, non avevamo nulla da dire, intrappolati in una dimensione che non potevamo spiegare a noi stessi, non apparteneva alla nostra conoscenza, non potevamo avere una spiegazione. Da quel momento, abbiamo cominciato ad accumulare sentimenti legati al COVID. Dal 22 febbraio è iniziato un periodo di attesa… che finisca il contagio, che si blocchi l’espansione dell’epidemia, che ritorni la normalità, la libertà di muoversi e vedere gli amici, un’ attesa che non ha tempo, non ha una durata definita, terribile sensazione di non poter riprendere a respirare normalmente.
Come afferma un Familiare dell’Associazione Info Giovani nel Tempo Emilia Romagna: “…Scelgo di pensare che un periodo tumultuoso come gli ultimi tre mesi può essere considerato un problema cronico e quindi con caratteristiche non limitate nel tempo. Saranno solo un ricordo i ritmi frenetici in cui tutti eravamo abituati a correre, i nostri ritmi stanno già subendo una decelerazione forzata; credo sia un momento propizio per migliorare in qualcosa.
Mi piace citare il Maestro Ezio Bosso che ha affermato in una intervista:“La musica ci insegna la cosa più importante che esista: ascoltare”.
E’ una responsabilità essere padroni del tempo, disarmati dalla frenesia e dal nervosismo, per imparare ad ascoltare a fondo.”
Descrivere gli anziani accolti in una residenza come persone fragili può sembrare un termine riduttivo per delle persone che, nonostante stiano fisiologicamente perdendo di potenza, possono dimostrare che sono dei buoni combattenti nonostante la malattia e la vecchiaia.
Lo ha dimostrato Egle che a 95 anni, ha lottato per i quattordici giorni di isolamento; strappata dalla sua stanza, il suo regno, il suo territorio dove tutto è sotto il suo controllo, per un trasferimento immediato appena dopo cena per collocarla nel nucleo COVID dove aveva poche cose, niente le piaceva -anche se era tutto nuovo-, il cibo era terribile -anche se lo preparava la stessa cuoca di sempre-, dove il personale non arrivava agli orari che lei voleva -anche se le era stato spiegato che dovevano seguirla per ultima essendo risultata positiva. Nulla è servito, ha lottato per quattordici giorni per far valere il suo diritto di ritornare a casa, insultando tutti, nonostante il telegiornale in ogni momento facesse presente il pericolo che correvano gli anziani accolti nelle strutture, non una volta ha pensato che quello fosse il suo momento, doveva solo ottenere di tornare nel suo regno. E la figlia è stata la prima a sperimentare la visita dalle finestre, da fuori della recinzione per cercare di farla ragionare, per dirle di stare tranquilla, ma lei chiedeva giustizia.
Una collega assistente sociale scrive: “Come persona e come assistente sociale che lavora in una struttura per anziani i pensieri di questi mesi sono stati molti… a lungo non sono potuta entrare in struttura, il mio ufficio è fisicamente separato dalla residenza e al fine di contrastare la diffusione del virus non potevo accedere alla struttura. La realtà, al rientro in casa di riposo, è stata ben diversa, da un lato ho trovato ospiti stanchi e desiderosi di contatti, di normalità e dall’altro persone estremamente resilienti con desiderio di farcela e di raccontarsi perché “mi ghe no’ pasà tante ne la me vita e questa proprio non me l’aspettavo”. Ecco allora che la mia mente ha ripercorso altre strade e aperto altre questioni, dalla valorizzazione del vissuto, all’esigenza di raccontarlo, di “condividere il tesoro dell’esperienza” tramite le relazioni.
Di qui nuovamente il collegamento passa ai diritti negati, all’impossibilità di tornare a casa (“ma alora deso, quando poso andar casa?”, “parché devo vederlo davanti un vero… non podelo mia vegner dentro?”), alla necessità di bilanciare gli interessi dei soggetti (es. meglio il rientro per un pomeriggio a casa con successivo isolamento o permanere in struttura senza poter tornare a casa?). Estratto sugli ospiti da Chiara Trattenero [mailto: kiaratratte@gmail.com]
Le emozioni che gli anziani hanno provato in questi mesi non sono diverse da quelle che tutti noi abbiamo sentito: paura, impotenza, disperazione, abbandono, solitudine…ciò che è diverso è il filtro che hanno messo in gioco, non tutti gli anziani hanno la stessa capacità di esprimere ciò che hanno provato, per coloro che non hanno voce sono stati i gesti e il comportamento.
Elio, 87 anni, abituato da una vita ad avere una moglie che nonostante il caratteraccio le è rimasta accanto per sessant’anni anni e da quando hanno scelto l’inserimento in struttura non ha mancato un giorno di fargli visita e di rimane con lui giornate intere, non è stato facile spiegargli che lei non l’aveva abbandonato, che c’era un motivo importante che la teneva lontano. In pochi giorni i disturbi del comportamento che da quando era stato accolto erano praticamente solo scritti nella valutazione di ingresso, sono diventati predominanti, l’agitazione e l’aggressività hanno preso il sopravvento.
Per molti anziani quindi non è stata la paura, piuttosto la solitudine e l’abbandono le sensazioni che hanno determinato uno stato di incertezza, l’aver perso le relazioni e le attività legate alla quotidianità e agli affetti.
Il barattolo è pieno per tutti, abbiamo sulle spalle mesi in cui abbiamo accumulato sentimenti mai provati e per questo non gestibili. Alcuni anziani hanno precisato che non è la prima volta che vivono un momento così sconvolgente e così limitante rispetto alla possibilità di poter fare qualcosa per cambiare il corso degli eventi, c’è chi ha ricordato i momenti della seconda guerra mondiale quando era giovane e la reminescneza delle limitazioni e delle privazioni, della paura delle bombe e delle rappresaglie erano quotidiane; hanno messo in gioco l’attesa, e nei giorni di attesa ognuno ha ricordato altre situazioni nelle quali hanno vissuto le stesse emozioni, il barattolo le conteneva ancora, erano ancora tutte lì dentro. Ed è proprio questo il punto, l’esperienza vissuta nei mesi scorsi non si è conclusa, chissà se vedrà una fine o se dovremmo imparare a convivere con una condizione costante di malattia possibile. Una condizione di incertezza che ci pone sullo stesso piano degli anziani, che ci può far pensare alla necessità di pensare ad una dimensione fluttuante, come le canne al vento, un adattamento continuo alla realtà che si presenta.
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A cura di Elisabetta Canton
I mesi sono trascorsi, per alcuni in modo frenetico, per altri molto lentamente, per altri non c’è stata la possibilità di percepire il tempo, ma per tutti, rimango le emozioni, sono custodite nel nostro personale contenitore…
Come si può considerare il Buontrattamento riservato agli anziani nella dimensione creata dal COVID: la tutela della salute in senso stretto ha preso il sopravvento rispetto a tutti gli altri aspetti che costituiscono il benessere e la cura delle persone non autosufficienti accolte nelle strutture residenziali. In una tale situazione di emergenza si è capovolta completamente la prospettiva, prima di tutto la protezione e tutto il resto, in qualche modo deve essere garantito. In questa realtà, l’attenzione che le strutture prestavano alla relazione, alle parole, all’incontrare i desideri e i tempi di vita degli anziani non sono più stati argomenti di discussione, in questo periodo sono subentrate esigenze nuove, in primis quella sanitaria, appunto: il sorriso dell’operatore quando entrava nella stanza viene soppiantato dalla mascherina; la carezza sulla spalla e il contatto, diventano tabù e contemporaneamente però ci si trova nella condizione di sopperire alla mancanza dell’affetto dei familiari, alle parole si sostegno dei figli, alle risate dei nipoti, alla consolazione degli affetti. Il blocco totale si è riversato sulla vita degli anziani che già si trovavano in una situazione di limitata mobilità, ironia della sorte, la limitazione anche di chi è abituato a muoversi, ha creato ulteriore disagio alla loro quotidianità.
In questa situazione tutti gli italiani hanno condiviso la chiusura, il blocco degli spostamenti, non c’è stata differenza tra giovani o vecchi, l’unico particolare che ha determinato la diversità per chi vive in una residenza è che ha bisogno di due famiglie, quella che ha costruito o si è trovato all’interno della struttura e quella naturale, che vive fuori, quella che ha contribuito a formare e che ha dato il senso alla sua vita: ecco, questa seconda famiglia è sparita, da un momento all’altro, come se non ci fosse più.
Da quel momento il barattolo con l’etichetta COVID19, ha cominciato ad accogliere emozioni, alcune che si possono esprimere ma tante altre sono lì, in attesa, prima o poi bisognerà tirarle fuori, quando tutto sarà finito, forse.
La chiusura, inevitabile, dovuta, per tenere fuori qualsiasi possibilità di contagio, ha rappresentato il tenere lontani i familiari e bloccare il grande supporto dei volontari che rappresentano le relazioni ludiche, di amicizia anche per le persone che non hanno una famiglia; per tutti ha significato vivere uno stato di abbandono e di estrema solitudine.
Carla, è rientrata dall’ospedale, dopo un lungo ricovero, proprio in quei giorni, ai primi di marzo, struttura chiusa, familiari lasciati fuori, lei era una persona conosciuta da tutti, accolta da molti anni, lucida e tuttofare o meglio stretta collaboratrice delle educatrici, lei amava stare sola a cucire ma nei punti di passaggio, dove tutti potevano fermarsi a fare due chiacchiere, a chiederle consigli culinari, a verificare se la compagna di stanza era stata tranquilla e l’aveva fatta dormire, ad ascoltare dove era stata di bello con i figli la domenica appena trascorsa, Carla era così. Lei si è spenta in totale solitudine, senza aver avuto la possibilità di avere i tre figli vicini, senza che gli operatori a cui era più affezionata la salutassero, morte non prevedibile nell’immediato, ma la struttura non poteva far entrare in ogni momento i familiari che solitamente rimangono accanto fino all’ultimo istante. Il COVID non c’entrava niente con Carla, ma ha determinato anche i suoi ultimi istanti con noi.
Le persone anziane sono state ricordate in questi mesi per la loro fragilità, per il pericolo che correvano solo per il fatto di trovarsi nelle residenze per anziani, considerate i luoghi dove il contagio poteva ucciderli in un attimo, loro così impotenti rispetto a ciò che stava accadendo, avevano tra le mani sono il loro barattolo pieno di emozioni che difficilmente potevano esprimere.
Serafina, 92 anni vive in una casa di riposo in provincia di Torino racconta: “Non ho ben capito cosa sia successo in questo periodo che non so neanche dirti quanto lungo è… Ho capito che c’è questo virus e che la mia famiglia non può più venire a trovarmi. Io ho deciso di venire a vivere qui 5 anni fa perché a casa ero sola e non volevo andare a vivere dai miei figli, mi sono sempre trovata bene ma queste ultime settimane proprio no… non li ho più visti e sentiti poco, i bambini non mi sono più venuti a trovare e loro erano la mia ragione andare avanti e sopportare questo e adesso non ce l’ho più…Poi non ho più fatto fisioterapia e adesso mi controllano nel camminare e non posso più girare come prima… Sono arrabbiata e tanto stanca!”
“Il momento più brutto? Quando sono caduta e mi hanno portato in ospedale; mia figlia non è venuta e mi hanno lasciata sola in una grande confusione. Poi quando mi hanno riportata qua non mi hanno lasciata andare nella mia stanza ma mi hanno chiusa dentro ad un’altra per tanti giorni e io non avevo più nessuno con cui parlare ed è stato lungo e terribile.”
“Mi sono mancati i miei figli e i bambini, tanto tanto e le fotografie non bastano”
“Cosa vorresti fare in questo momento?” “ Tornare a casa mia e fare gli agnolotti per tutti, qui così non resisto più!!!”.
Personalmente ricordo il giorno in cui abbiamo chiuso la struttura alle visite dei familiari, il 22 febbraio, era di pomeriggio, nella struttura c’erano molti familiari presenti, nei nuclei, nei saloni e al bar, era ancora freddo ed erano tutti seduti all’interno, la vita e i rumori della quotidianità risuonavano in tutte le residenze, è stata l’ultima volta: dopo aver chiesto ai familiari presenti di concludere la visita e di accomodarsi fuori, ho rifatto il giro di tutti i nuclei, c’era solo silenzio, nessuno parlava più, non avevamo nulla da dire, intrappolati in una dimensione che non potevamo spiegare a noi stessi, non apparteneva alla nostra conoscenza, non potevamo avere una spiegazione. Da quel momento, abbiamo cominciato ad accumulare sentimenti legati al COVID. Dal 22 febbraio è iniziato un periodo di attesa… che finisca il contagio, che si blocchi l’espansione dell’epidemia, che ritorni la normalità, la libertà di muoversi e vedere gli amici, un’ attesa che non ha tempo, non ha una durata definita, terribile sensazione di non poter riprendere a respirare normalmente.
Come afferma un Familiare dell’Associazione Info Giovani nel Tempo Emilia Romagna: “…Scelgo di pensare che un periodo tumultuoso come gli ultimi tre mesi può essere considerato un problema cronico e quindi con caratteristiche non limitate nel tempo. Saranno solo un ricordo i ritmi frenetici in cui tutti eravamo abituati a correre, i nostri ritmi stanno già subendo una decelerazione forzata; credo sia un momento propizio per migliorare in qualcosa.
Mi piace citare il Maestro Ezio Bosso che ha affermato in una intervista:“La musica ci insegna la cosa più importante che esista: ascoltare”.
E’ una responsabilità essere padroni del tempo, disarmati dalla frenesia e dal nervosismo, per imparare ad ascoltare a fondo.”
Descrivere gli anziani accolti in una residenza come persone fragili può sembrare un termine riduttivo per delle persone che, nonostante stiano fisiologicamente perdendo di potenza, possono dimostrare che sono dei buoni combattenti nonostante la malattia e la vecchiaia.
Lo ha dimostrato Egle che a 95 anni, ha lottato per i quattordici giorni di isolamento; strappata dalla sua stanza, il suo regno, il suo territorio dove tutto è sotto il suo controllo, per un trasferimento immediato appena dopo cena per collocarla nel nucleo COVID dove aveva poche cose, niente le piaceva -anche se era tutto nuovo-, il cibo era terribile -anche se lo preparava la stessa cuoca di sempre-, dove il personale non arrivava agli orari che lei voleva -anche se le era stato spiegato che dovevano seguirla per ultima essendo risultata positiva. Nulla è servito, ha lottato per quattordici giorni per far valere il suo diritto di ritornare a casa, insultando tutti, nonostante il telegiornale in ogni momento facesse presente il pericolo che correvano gli anziani accolti nelle strutture, non una volta ha pensato che quello fosse il suo momento, doveva solo ottenere di tornare nel suo regno. E la figlia è stata la prima a sperimentare la visita dalle finestre, da fuori della recinzione per cercare di farla ragionare, per dirle di stare tranquilla, ma lei chiedeva giustizia.
Una collega assistente sociale scrive: “Come persona e come assistente sociale che lavora in una struttura per anziani i pensieri di questi mesi sono stati molti… a lungo non sono potuta entrare in struttura, il mio ufficio è fisicamente separato dalla residenza e al fine di contrastare la diffusione del virus non potevo accedere alla struttura. La realtà, al rientro in casa di riposo, è stata ben diversa, da un lato ho trovato ospiti stanchi e desiderosi di contatti, di normalità e dall’altro persone estremamente resilienti con desiderio di farcela e di raccontarsi perché “mi ghe no’ pasà tante ne la me vita e questa proprio non me l’aspettavo”. Ecco allora che la mia mente ha ripercorso altre strade e aperto altre questioni, dalla valorizzazione del vissuto, all’esigenza di raccontarlo, di “condividere il tesoro dell’esperienza” tramite le relazioni.
Di qui nuovamente il collegamento passa ai diritti negati, all’impossibilità di tornare a casa (“ma alora deso, quando poso andar casa?”, “parché devo vederlo davanti un vero… non podelo mia vegner dentro?”), alla necessità di bilanciare gli interessi dei soggetti (es. meglio il rientro per un pomeriggio a casa con successivo isolamento o permanere in struttura senza poter tornare a casa?). Estratto sugli ospiti da Chiara Trattenero [mailto: kiaratratte@gmail.com]
Le emozioni che gli anziani hanno provato in questi mesi non sono diverse da quelle che tutti noi abbiamo sentito: paura, impotenza, disperazione, abbandono, solitudine…ciò che è diverso è il filtro che hanno messo in gioco, non tutti gli anziani hanno la stessa capacità di esprimere ciò che hanno provato, per coloro che non hanno voce sono stati i gesti e il comportamento.
Elio, 87 anni, abituato da una vita ad avere una moglie che nonostante il caratteraccio le è rimasta accanto per sessant’anni anni e da quando hanno scelto l’inserimento in struttura non ha mancato un giorno di fargli visita e di rimane con lui giornate intere, non è stato facile spiegargli che lei non l’aveva abbandonato, che c’era un motivo importante che la teneva lontano. In pochi giorni i disturbi del comportamento che da quando era stato accolto erano praticamente solo scritti nella valutazione di ingresso, sono diventati predominanti, l’agitazione e l’aggressività hanno preso il sopravvento.
Per molti anziani quindi non è stata la paura, piuttosto la solitudine e l’abbandono le sensazioni che hanno determinato uno stato di incertezza, l’aver perso le relazioni e le attività legate alla quotidianità e agli affetti.
Il barattolo è pieno per tutti, abbiamo sulle spalle mesi in cui abbiamo accumulato sentimenti mai provati e per questo non gestibili. Alcuni anziani hanno precisato che non è la prima volta che vivono un momento così sconvolgente e così limitante rispetto alla possibilità di poter fare qualcosa per cambiare il corso degli eventi, c’è chi ha ricordato i momenti della seconda guerra mondiale quando era giovane e la reminescneza delle limitazioni e delle privazioni, della paura delle bombe e delle rappresaglie erano quotidiane; hanno messo in gioco l’attesa, e nei giorni di attesa ognuno ha ricordato altre situazioni nelle quali hanno vissuto le stesse emozioni, il barattolo le conteneva ancora, erano ancora tutte lì dentro. Ed è proprio questo il punto, l’esperienza vissuta nei mesi scorsi non si è conclusa, chissà se vedrà una fine o se dovremmo imparare a convivere con una condizione costante di malattia possibile. Una condizione di incertezza che ci pone sullo stesso piano degli anziani, che ci può far pensare alla necessità di pensare ad una dimensione fluttuante, come le canne al vento, un adattamento continuo alla realtà che si presenta.