Il desiderio di morire di un anziano è ciò che fa sentire impotente l’OSS Chiara, che condivide questo suo sentimento in un incontro d’équipe “fuori dagli schemi”. La testimonianza della coordinatrice Francesca Poletti ci aiuta a riflettere su quanto si può fare da professionisti per essere d’aiuto, evitando di investire le energie nel giudizio e dirottandole sull’attenzione a ogni dettaglio nella cura quotidiana.
I tarocchi delle emozioni
Tutto nasce da un gioco, come le cose più naturali.
Attratta e affascinata da sempre dal mondo esoterico, in particolare dai roghi delle streghe e dalle credenze tutte umane a dare o cercare di dare un senso alla follia, mi faccio travolgere dall’idea meravigliosa di una OSS domiciliare del servizio che coordino:
“Perché non creiamo delle carte con le nostre emozioni?”
Così, a una a una, ci inventiamo “i tarocchi delle emozioni”, carte nate dalla spontaneità e dalla fantasia; prima disegnate, poi create fotografando immagini rubate alla natura (un papavero, una porta chiusa), pagine di libri, disegni di pittori: ognuna deve avere un’immagine e un tema da rappresentare.
Sono e devono essere carte impertinenti, talvolta sfacciate; carte che devono affrontare anche temi scomodi, personali o lavorativi.
Un bravo OSS non può pensare che “gli zingari rubano”: ci vuole una carta.
Esce un’informazione riservata dal gruppo? Ci vuole una carta.
La carta della disperazione
Al primo incontro, in cui si promuove la spontaneità della reazione emotiva, ogni operatrice sceglie una carta e, clessidra alla mano, ha 3 minuti per dire quello che le viene in mente.
C’è chi piange, chi è contento di poter finalmente parlare di pregiudizio, o di relazioni tossiche, o della sindrome del tramonto.
È un momento ludico, ma anche profondo, diretto, libero, formativo.
Chiara pesca la carta della disperazione.

La guarda e come un fiume in piena inizia a raccontare cose che non sapeva come affrontare.
L’anziano Paolo, cieco e sordo, qualche volta le ha detto “portami una pistola, voglio morire”.
Lei lo ha ascoltato, a volte lo ha distratto, ha cercato di non minimizzare. Ma poi? La porta si chiude e lei cosa può fare? Si sente il senso di frustrazione, l’impotenza, la voglia di fare e sentirsi bloccata, impedita.
Tutti noi ascoltiamo, i 3 minuti passano e qualcun altro pesca.
Il gioco finisce, ma io non posso lasciare andare.
Dentro di me so che una buona parte la fa la proiezione dei nostri desideri su quelli delle persone che assistiamo, ma in ogni caso devo prendere in carico.
Per Chiara soprattutto.
Agire con coraggio e conoscenza
È la prima volta che mi capita di affrontare così direttamente un tema così delicato.
Mi concentro e penso che non posso agire senza un pensiero, come forse avrei fatto anni fa senza le conoscenze che ho oggi: chiamata al figlio o ai servizi, segnalazione oggettiva del fatto, e sono a posto. Oggi no, non mi basta il passaggio di palla.
Occorre portare la differenza: la professionalità.
È domenica mattina: ma chi ce la fa ad aspettare lunedì?
Da Paolo svolgiamo servizio di assistenza nei festivi. Chiamo la OSS di turno, riflettendo sul fatto che certe informazioni non necessariamente debbano partire da Chiara che lo conosce di più.
Attivo l’agito spontaneo ma formato. Chiedo:
Quali sono i punti deboli dell’ambiente? C’è luce nella stanza? Abbiamo provato a mostrare una mano davanti agli occhi? La vede? Ha acqua a disposizione data l’estate calda? Lo troviamo sudato? Esprime desiderio di socialità?
Mi consulto con i miei colleghi, quasi come fossi in équipe in RSA. Con la differenza che sono e siamo itineranti, di passaggio, e soprattutto di domenica a casa mia (cosa che mai mi è parsa un peso, neppure per un attimo).
La nostra Responsabile della Sicurezza delle Cure mi suggerisce metodi validati, scale di valutazione di ogni area di rischio: le sottoporremo insieme a lei a Paolo.
Qualche giorno dopo, con le idee chiare, mi faccio coraggio.
E senza dimenticare il lato umano della mia professione, chiamo il figlio di Paolo; gli racconto che suo padre ha espresso tristezza e volontà di concludere la sua vita (cosa che lui sapeva, lo dice anche a lui). Cerco di non considerare un tabù la volontà di morire, mi impegno ad essere autentica, sincera, ma vicina, umilmente interessata a Paolo e al nostro modo di fare assistenza.
So che se il figlio mi sentirà in imbarazzo, non lo nasconderò, ma proverò a non esserlo e a usare le armi della formazione e della conoscenza. Gli restituisco la nostra valutazione su ogni area:
Il figlio racconta che Paolo è sempre stato molto severo e “padrone”, negando a lui e ai suoi fratelli la possibilità di proseguire gli studi, e alla madre di vestire con gonne e andare al mare. Osservo quindi una tendenza del figlio a sminuire le sue richieste (mi dice: “è sempre stato vittima e padrone, concentrato su sé stesso”).
Mi chiedo se e a cosa mi serva sapere questo. Non a farmi un’idea di Paolo, certamente, ma forse a comprendere meglio la frustrazione in cui si trova chi lo assiste.
Lo riporto con gentilezza al fatto che noi come professioniste non possiamo far finta di nulla: nel momento in cui ci siamo dobbiamo adottare ogni strategia possibile.
Suggerisco visita geriatrica e neurologica per trattare l’aspetto depressivo o un eventuale inizio di deterioramento, se ci fosse.
Il figlio racconta che lui si è stancato delle continue richieste (“cucinami gli spaghetti… questi spaghetti sono salati”; “portami una radio… questa radio non funziona”).
Noi però non possiamo stancarci.
Concludo con le nostre valutazioni:
Al di là di ogni giudizio
Io non lo so se quello che gli ho detto ha fatto breccia, se il medico verrà chiamato per una visita sull’umore, ma adesso so che io riesco a non restare immobile, passiva.
So che ho acquisito quella conoscenza che mi permette di stabilire una conversazione competente con un familiare e il suo enorme carico assistenziale che ha addosso come un cappotto che non riesce a togliere mai.
Anche se vorrebbe, anche se per tutta la vita è stato “un figlio poco considerato”, e ora si trova con un padre “cocciuto” che di fronte a perfetti estranei lo fa sembrare un noncurante.
Io però lo so che non lo è; o meglio, il punto è un altro: scelgo di andare al di là del giudizio, di dirigere altrove le mie energie (che sono finitissime peraltro e non vanno sprecate).
Le dirigo soprattutto a mettere in circolo le idee, a chiamare i miei colleghi infermieri e chiedere loro se mi aiutano nella valutazione complessiva del rischio; ad aiutare chi è sul campo a non proiettare, e a dirottare quelle energie spese nel pensare “è normale non voglia più vivere così” verso il pensare piuttosto: Cosa posso fare io per lui?

Che si tratti di una borraccia antigoccia o di una visita medica, il passo è così breve, quasi impercettibile.
Io ne esco più leggera, più “piena” di aria di Paolo e di buona cura.
Condivisione e vicinanza
Il lavoro a questo punto, scevro delle mie iper-riflessioni, va restituito al gruppo.
Occorre lavorare sugli stimoli, sulle piccole cose, concentrarsi su Paolo: anche una borraccia messa in un posto giusto può fare la differenza, placando la sete senza bagnarlo; concentrarsi sui 5 sensi e trovare strategie. Passare consegne adeguate e non tralasciare particolari che fanno la differenza (una poltrona che si reclina può cambiare l’umore, proviamoci!).
Una piccola cosa può diventare un ponte verso una grande.

Decidiamo di provare la doll therapy: funziona!
Fa compagnia, ma soprattutto permette la ripresa del potere in mano, così prezioso per lui, nel comunicare alle operatrici quando e se porgerla.
“Lui è il marinaio e io il comandante”, ci dice Paolo.
A volte la vuole vicino, a volte più lontano, proprio come la “giusta distanza” che ci insegnano nei corsi professionali.
A questo punto torna Chiara protagonista, con un livello maggiore di consapevolezza e minore di frustrazione.
Gli porta lei la bambola, e nel taccuino che tiene le memorie della terapia scrive:
Paolo: “da dove viene?”
Chiara: “dai mari del Nord, è un piccolo marinaio”.
Paolo: “bene bene… avrà freddo?”
All’ora dei saluti Paolo dice: “è bello avere qualcuno vicino”.

“Se non usi la fantasia, resterai sempre ancorato alla realtà”
VECCHIAIA
Eventi e Cultura

Semi di CURA
NEWSLETTER
Esiste un significato profondo nel lavoro di CURA e una ricchezza nascosta in RSA?
La newsletter
«Semi di CURA»
indaga questo e lo racconta ogni ultimo venerdì del mese.
Il desiderio di morire di un anziano è ciò che fa sentire impotente l’OSS Chiara, che condivide questo suo sentimento in un incontro d’équipe “fuori dagli schemi”. La testimonianza della coordinatrice Francesca Poletti ci aiuta a riflettere su quanto si può fare da professionisti per essere d’aiuto, evitando di investire le energie nel giudizio e dirottandole sull’attenzione a ogni dettaglio nella cura quotidiana.
I tarocchi delle emozioni
Tutto nasce da un gioco, come le cose più naturali.
Attratta e affascinata da sempre dal mondo esoterico, in particolare dai roghi delle streghe e dalle credenze tutte umane a dare o cercare di dare un senso alla follia, mi faccio travolgere dall’idea meravigliosa di una OSS domiciliare del servizio che coordino:
“Perché non creiamo delle carte con le nostre emozioni?”
Così, a una a una, ci inventiamo “i tarocchi delle emozioni”, carte nate dalla spontaneità e dalla fantasia; prima disegnate, poi create fotografando immagini rubate alla natura (un papavero, una porta chiusa), pagine di libri, disegni di pittori: ognuna deve avere un’immagine e un tema da rappresentare.
Sono e devono essere carte impertinenti, talvolta sfacciate; carte che devono affrontare anche temi scomodi, personali o lavorativi.
Un bravo OSS non può pensare che “gli zingari rubano”: ci vuole una carta.
Esce un’informazione riservata dal gruppo? Ci vuole una carta.
La carta della disperazione
Al primo incontro, in cui si promuove la spontaneità della reazione emotiva, ogni operatrice sceglie una carta e, clessidra alla mano, ha 3 minuti per dire quello che le viene in mente.
C’è chi piange, chi è contento di poter finalmente parlare di pregiudizio, o di relazioni tossiche, o della sindrome del tramonto.
È un momento ludico, ma anche profondo, diretto, libero, formativo.
Chiara pesca la carta della disperazione.

La guarda e come un fiume in piena inizia a raccontare cose che non sapeva come affrontare.
L’anziano Paolo, cieco e sordo, qualche volta le ha detto “portami una pistola, voglio morire”.
Lei lo ha ascoltato, a volte lo ha distratto, ha cercato di non minimizzare. Ma poi? La porta si chiude e lei cosa può fare? Si sente il senso di frustrazione, l’impotenza, la voglia di fare e sentirsi bloccata, impedita.
Tutti noi ascoltiamo, i 3 minuti passano e qualcun altro pesca.
Il gioco finisce, ma io non posso lasciare andare.
Dentro di me so che una buona parte la fa la proiezione dei nostri desideri su quelli delle persone che assistiamo, ma in ogni caso devo prendere in carico.
Per Chiara soprattutto.
Agire con coraggio e conoscenza
È la prima volta che mi capita di affrontare così direttamente un tema così delicato.
Mi concentro e penso che non posso agire senza un pensiero, come forse avrei fatto anni fa senza le conoscenze che ho oggi: chiamata al figlio o ai servizi, segnalazione oggettiva del fatto, e sono a posto. Oggi no, non mi basta il passaggio di palla.
Occorre portare la differenza: la professionalità.
È domenica mattina: ma chi ce la fa ad aspettare lunedì?
Da Paolo svolgiamo servizio di assistenza nei festivi. Chiamo la OSS di turno, riflettendo sul fatto che certe informazioni non necessariamente debbano partire da Chiara che lo conosce di più.
Attivo l’agito spontaneo ma formato. Chiedo:
Quali sono i punti deboli dell’ambiente? C’è luce nella stanza? Abbiamo provato a mostrare una mano davanti agli occhi? La vede? Ha acqua a disposizione data l’estate calda? Lo troviamo sudato? Esprime desiderio di socialità?
Mi consulto con i miei colleghi, quasi come fossi in équipe in RSA. Con la differenza che sono e siamo itineranti, di passaggio, e soprattutto di domenica a casa mia (cosa che mai mi è parsa un peso, neppure per un attimo).
La nostra Responsabile della Sicurezza delle Cure mi suggerisce metodi validati, scale di valutazione di ogni area di rischio: le sottoporremo insieme a lei a Paolo.
Qualche giorno dopo, con le idee chiare, mi faccio coraggio.
E senza dimenticare il lato umano della mia professione, chiamo il figlio di Paolo; gli racconto che suo padre ha espresso tristezza e volontà di concludere la sua vita (cosa che lui sapeva, lo dice anche a lui). Cerco di non considerare un tabù la volontà di morire, mi impegno ad essere autentica, sincera, ma vicina, umilmente interessata a Paolo e al nostro modo di fare assistenza.
So che se il figlio mi sentirà in imbarazzo, non lo nasconderò, ma proverò a non esserlo e a usare le armi della formazione e della conoscenza. Gli restituisco la nostra valutazione su ogni area:
Il figlio racconta che Paolo è sempre stato molto severo e “padrone”, negando a lui e ai suoi fratelli la possibilità di proseguire gli studi, e alla madre di vestire con gonne e andare al mare. Osservo quindi una tendenza del figlio a sminuire le sue richieste (mi dice: “è sempre stato vittima e padrone, concentrato su sé stesso”).
Mi chiedo se e a cosa mi serva sapere questo. Non a farmi un’idea di Paolo, certamente, ma forse a comprendere meglio la frustrazione in cui si trova chi lo assiste.
Lo riporto con gentilezza al fatto che noi come professioniste non possiamo far finta di nulla: nel momento in cui ci siamo dobbiamo adottare ogni strategia possibile.
Suggerisco visita geriatrica e neurologica per trattare l’aspetto depressivo o un eventuale inizio di deterioramento, se ci fosse.
Il figlio racconta che lui si è stancato delle continue richieste (“cucinami gli spaghetti… questi spaghetti sono salati”; “portami una radio… questa radio non funziona”).
Noi però non possiamo stancarci.
Concludo con le nostre valutazioni:
Al di là di ogni giudizio
Io non lo so se quello che gli ho detto ha fatto breccia, se il medico verrà chiamato per una visita sull’umore, ma adesso so che io riesco a non restare immobile, passiva.
So che ho acquisito quella conoscenza che mi permette di stabilire una conversazione competente con un familiare e il suo enorme carico assistenziale che ha addosso come un cappotto che non riesce a togliere mai.
Anche se vorrebbe, anche se per tutta la vita è stato “un figlio poco considerato”, e ora si trova con un padre “cocciuto” che di fronte a perfetti estranei lo fa sembrare un noncurante.
Io però lo so che non lo è; o meglio, il punto è un altro: scelgo di andare al di là del giudizio, di dirigere altrove le mie energie (che sono finitissime peraltro e non vanno sprecate).
Le dirigo soprattutto a mettere in circolo le idee, a chiamare i miei colleghi infermieri e chiedere loro se mi aiutano nella valutazione complessiva del rischio; ad aiutare chi è sul campo a non proiettare, e a dirottare quelle energie spese nel pensare “è normale non voglia più vivere così” verso il pensare piuttosto: Cosa posso fare io per lui?

Che si tratti di una borraccia antigoccia o di una visita medica, il passo è così breve, quasi impercettibile.
Io ne esco più leggera, più “piena” di aria di Paolo e di buona cura.
Condivisione e vicinanza
Il lavoro a questo punto, scevro delle mie iper-riflessioni, va restituito al gruppo.
Occorre lavorare sugli stimoli, sulle piccole cose, concentrarsi su Paolo: anche una borraccia messa in un posto giusto può fare la differenza, placando la sete senza bagnarlo; concentrarsi sui 5 sensi e trovare strategie. Passare consegne adeguate e non tralasciare particolari che fanno la differenza (una poltrona che si reclina può cambiare l’umore, proviamoci!).
Una piccola cosa può diventare un ponte verso una grande.

Decidiamo di provare la doll therapy: funziona!
Fa compagnia, ma soprattutto permette la ripresa del potere in mano, così prezioso per lui, nel comunicare alle operatrici quando e se porgerla.
“Lui è il marinaio e io il comandante”, ci dice Paolo.
A volte la vuole vicino, a volte più lontano, proprio come la “giusta distanza” che ci insegnano nei corsi professionali.
A questo punto torna Chiara protagonista, con un livello maggiore di consapevolezza e minore di frustrazione.
Gli porta lei la bambola, e nel taccuino che tiene le memorie della terapia scrive:
Paolo: “da dove viene?”
Chiara: “dai mari del Nord, è un piccolo marinaio”.
Paolo: “bene bene… avrà freddo?”
All’ora dei saluti Paolo dice: “è bello avere qualcuno vicino”.

“Se non usi la fantasia, resterai sempre ancorato alla realtà”