Caregiver e RSA: “sono il papà di…”

È un lunedì mattina, nella RSA in cui lavoro, di quelli rumorosi e un po’ caotici. Mi avvicino all’ufficio e vedo un signore che mi aspetta. È un famigliare; mi guarda arrivare e mi blocca:

Buongiorno”.

Buongiorno a lei.

Non so se si ricorda, io sono il papà di… del sig. Antonio (nome di fantasia).

Lo guardo fingendomi stranita anche se, in realtà, ho capito bene cosa sta succedendo:

“Il papà?”

“Sì ecco, mi scusi, il figlio; insomma, ha capito”.

“Certo, ci mancherebbe – sorrido – si accomodi pure”.

Il figlio del signor Antonio, la mattina di quel lunedì, mi fa sorridere ma, soprattutto, molto riflettere.

Il meccanismo che ha messo in atto altro non è che un’inversione di ruoli e, tra i famigliari con cui mi interfaccio quotidianamente, non è il primo che si riferisce a sé stesso come Papà o Mamma.

Questa inversione, che si palesa con un rovesciamento linguistico, fa capire come con le parole plasmiamo le situazioni e quanto, al contempo, le parole siano specchio di ciò che sentiamo.

Da quando ho iniziato a fare caso a quelle precise parole, ho attuato una serie di riflessioni.

Le responsabilità etiche e legali della “generazione sandwich”

La prima riflessione riguarda l’enorme senso di responsabilità.

Se l’essere genitori è, per eccellenza, il mestiere più difficile, in quanto comporta un enorme carico fisico ed emotivo, il caregiver, sentendosi tale, porta dentro di sé tutto il peso di questo carico. E quando ai colloqui ricevo i famigliari non ho dubbi: ne sento tutto il peso.

La medaglia rovesciata però porta con sé anche un’altra questione.

Il figlio (l’età media del figlio caregiver è mediamente tra i cinquanta e i sessanta) spesso non è solo figlio, ma è anche genitore; e i suoi figli, spesso, hanno già avuto dei figli. Il caregiver ha quindi dei genitori anziani ma anche dei nipoti ai quali spesso – per piacere ma anche per “dovere” – si trova a dover prestare accudimento.

Il senso di responsabilità è quindi doppio, per una generazione che, dal punto di vista sociale, viene definita generazione “cuscinetto, o generazione sandwich (Dorothy A. Miller, 1981), ovvero coloro che si ritrovano a destreggiarsi tra l’accudimento dei genitori e quello dei figli/nipoti, andando a tamponare dove lo stesso Welfare, spesso, non arriva.

Ma non si tratta solo di un senso etico. La responsabilità che si ha nei confronti dei genitori è anche un dovere da un punto di vista giuridico, ed è lo stesso che i genitori hanno nei confronti dei figli.

Se in quest’ultimo caso “il figlio ha il diritto di essere mantenuto, istruito e assistito moralmente dai genitori” (art 315 bis, c.c.), l’art. 433 dà, a quello stesso figlio, l’obbligo di “prestare gli alimenti”, inserendolo tra le “persone obbligate”.

C’è quindi, esattamente come per un figlio, un senso di responsabilità che parte da un presupposto giuridico ma che poi si cala su sentimenti più nobili come l’amore e l’affetto, con parole che mi capita di sentire molto spesso come: “Voglio ricambiare tutto ciò che la mia mamma/il mio papà, ha fatto per me”.

L’RSA come luogo di accudimento

Una relazione sana madre/padre-bambino ha come caratteristica fondante quella di dare senso di protezione e accudimento. Il bambino deve sentirsi protetto.

Secondo Bowlby “l’obiettivo del sistema di accudimento o caregiving è tenere la prole non autosufficiente vicina sé e al sicuro (Bowlby, 1982).

Il termine non autosufficiente riporta subito alla dimensione della persona anziana.

Tenere al sicuro la persona anziana però non è facile.

La non autosufficienza porta con sé una serie di rischi: pensiamo anche solo al rischio caduta, al fatto di non sapere come gestire una persona che è incontinente, che non si muove, che va posturata. Una mamma che tiene vicino a sé un bambino lo fa sentire al sicuro e gli offre tutta la protezione di cui ha bisogno; con la persona anziana, molte volte, questo non è possibile.

Eppure “la funzione del sistema di accudimento è di offrire protezione, provvedere alla riduzione dello stress e alle cure del bambino” (George e Solomon, 2008).

Sappiamo però quanto quel “provvedere alle cure”, per ciò che riguarda la persona anziana, possa diventare estremamente complicato. I progressi della scienza e della medicina hanno permesso, negli ultimi anni, un allungamento significativo della vita; questo però ha avuto, come conseguenza, il fatto che l’ultimo periodo viene spesso vissuto in una condizione di non autosufficienza.

Il caregiver, nella maggior parte dei casi, non è attrezzato, né da un punto di vista psicologico né da un punto di vista pratico, all’assistenza; viene meno quindi l’adempimento della responsabilità maggiore, ovvero quella di provvedere alla protezione e all’accudimento.

Ma chi allora può, realmente, proteggere e accudire?

L’RSA come luogo sicuro

La risposta mi viene data, come sempre, dalle parole di chi incontro tutti i giorni, e mi parla della scelta di inserire il proprio caro – nella maggior parte dei casi un genitore – in RSA:

Mi dispiace metterlo qui, avrei voluto tenerlo a casa il più possibile. Ma la badante non c’è sempre, e spesso nemmeno lei sa cosa fare. Qui so che c’è il medico, l’infermiere, le operatrici. Sono triste e mi sento in colpa, ma so che qui è al sicuro”.

Ecco quindi che l’RSA diventa il luogo cardine dove chi si sente “genitore” si arrende all’idea di non farcela da solo e sceglie un luogo protetto, dove far sentire chi ama al sicuro. Non ovviamente senza sensi di colpa.

Il senso di colpa è infatti il filo conduttore dei sentimenti del caregiver, “costretto” a fare una scelta: preservare, dignitosamente, un po’ di libertà e spazio personale, e sapere il genitore al sicuro. È paradossale ma, in effetti, ricorda molto le scelte dei genitori verso i propri figli.

E mi ricorda il sentirsi “genitore” anche l’aneddoto seguente:

Sono a un colloquio per un ingresso. Siamo alla fine e, dopo aver spiegato tutti i vari passaggi, mi accingo a ricordare una questione burocratica, spiegando che, insieme alla prima retta, c’è un contributo da pagare, che chiamo “apertura della pratica amministrativa”. Per sicurezza il figlio mi guarda e mi dice:

Tipo un’iscrizione?

Sì, più o meno” – rispondo.

“Sì ok, ho capito, come all’asilo”.

Avrebbe potuto fare il paragone con qualsiasi altro servizio.

Ci si iscrive in palestra, a nuoto, a corsi di vario genere; eppure, nella fretta, la cosa più automatica è stata riversare nel parallelismo il ruolo che quel figlio si sentiva, in quel frangente, meglio cucito addosso: quello di genitore che sta iscrivendo un figlio all’asilo.

Una profezia che si auto-avvera

Se il rovesciamento linguistico mi fa quasi sorridere e la riflessione sul ribaltamento del ruolo mi aiuta a essere ancora più comprensiva con le famiglie, la conversazione che sto per riportare mi fa pensare a quanto questo meccanismo vada monitorato, considerandone i rischi annessi.

Sono alla macchinetta del caffè e parlo con M., una signora anziana non autosufficiente ma con un buon grado di lucidità. Durante la conversazione mi dice:

“Sai, ieri ero qui e c’era anche G., è venuta giù a prendere un caffè e insieme a lei c’era una bella signora con cui ho parlato. Era sua mamma”.

“Sì, è una bellissima signora ma sai, penso sia la figlia non la mamma”.

M. ride: “Sì, hai ragione”.

Invece, una mattina, mi chiama per sfogarsi. È arrabbiata. La sua compagna di stanza si lamenta durante la notte, la trova maleducata. Le dico che non lo fa apposta e G. mi risponde scocciata:

“Bè, sua mamma è qui a trovarla tutti i giorni. Potrebbe insegnarle l’educazione”.

Questi due esempi, realmente accaduti, mi hanno appunto fatto riflettere sui rischi che questo rovesciamento di ruolo porta con sé.

Il primo è quello che il sociologo Merton ha definito come la “profezia che si auto-adempie”.  Il concetto, introdotto nel 1948, sta a indicare quei casi in cui una supposizione – per il solo fatto di essere creduta vera – alla fine si realizza, confermando la propria veridicità seppur inizialmente infondata.

Può accadere quindi che il caregiver, a forza di trattare l’anziano come figlio, non solo rafforzi la sua idea di esserne il “genitore”, sovraccaricandosi di tutta una serie di responsabilità ma, di riflesso, conduca l’anziano stesso a sentirsi veramente tale. Se quindi quest’ultimo risulta ancora in possesso di autonomie residue, potrebbe finire per farsi “accudire” totalmente.

La psicologia sociale maligna

Si può sconfinare, di fatto, in un altro concetto pericoloso, quello di “psicologia sociale maligna”, coniato da Tom Kitwood negli anni novanta per classificare “tutte quelle interazioni svalutanti e stigmatizzanti nelle relazioni di cura, che possono minare le necessità psicologiche, o addirittura l’identità profonda delle persone“.

Si tratta di “azioni attraverso le quali si intende perseguire il bene”, ma che, alla fine, “si rivelano non solo fallaci, ma addirittura svilenti rispetto all’obiettivo di valorizzazione della dignità e dello stato di salute degli individui”. (Bissolo G., Fazzi L., Gianelli M.V., 2009, p. 7).

Il fenomeno dell’elderspeak

Tra quelle interazioni svalutanti può esserci il fenomeno dell’ “elderspeak”, ovvero la tendenza, quando si è in presenza di una persona anziana, a usare “linguaggio infantile e semplificato che sottintende la presenza di una difficoltà di comprensione da parte dell’anziano” (Applewhite, 2017). Il fenomeno può risultare ancora più marcato se il caregiver in questione si sente, più che figlio, genitore. Gli verrà infatti spontaneo, sentendosi addosso quel ruolo, riversarlo anche nel linguaggio.

Mentre proteggere un bambino è spesso istintivo, proteggere un genitore anziano, con esigenze specifiche e un quadro clinico anche complesso, non sempre risulta così innato.

Di fronte a un figlio che si definisce “genitore”, ma non ha tutti gli strumenti per esercitare quel ruolo, può venire quindi in soccorso l’RSA, che si fa luogo sicuro, accudente, che si prenderà cura di chi non deve più crescere ma semplicemente continuare a invecchiare. E vuole farlo nel miglior modo possibile.

Enea simbolo della generazione sandwich

In foto di copertina: la celebre fuga da Troia in fiamme descritta nell’Eneide di Virgilio. Enea porta in salvo il figlio Ascanio prendendolo per mano e il vecchio padre Anchise, caricandoselo sulle spalle.

Se ti interessa il tema dei linguaggi che utilizziamo nelle relazioni di cura, ti segnaliamo anche quest’articolo dell’autrice Linda Sabbadin:

About the Author: Linda Sabbadin

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sociologa e assistente sociale. Da alcuni anni si occupa dell’accoglienza degli anziani, all’interno delle RSA, e del supporto ai caregiver.

Grazie di cuore

 

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rivista CURA settembre23

Con 1 euro puoi aiutarci a cambiare la narrazione stereotipata sulla vecchiaia e sul mondo delle RSA.

Caregiver e RSA: “sono il papà di…”

È un lunedì mattina, nella RSA in cui lavoro, di quelli rumorosi e un po’ caotici. Mi avvicino all’ufficio e vedo un signore che mi aspetta. È un famigliare; mi guarda arrivare e mi blocca:

Buongiorno”.

Buongiorno a lei.

Non so se si ricorda, io sono il papà di… del sig. Antonio (nome di fantasia).

Lo guardo fingendomi stranita anche se, in realtà, ho capito bene cosa sta succedendo:

“Il papà?”

“Sì ecco, mi scusi, il figlio; insomma, ha capito”.

“Certo, ci mancherebbe – sorrido – si accomodi pure”.

Il figlio del signor Antonio, la mattina di quel lunedì, mi fa sorridere ma, soprattutto, molto riflettere.

Il meccanismo che ha messo in atto altro non è che un’inversione di ruoli e, tra i famigliari con cui mi interfaccio quotidianamente, non è il primo che si riferisce a sé stesso come Papà o Mamma.

Questa inversione, che si palesa con un rovesciamento linguistico, fa capire come con le parole plasmiamo le situazioni e quanto, al contempo, le parole siano specchio di ciò che sentiamo.

Da quando ho iniziato a fare caso a quelle precise parole, ho attuato una serie di riflessioni.

Le responsabilità etiche e legali della “generazione sandwich”

La prima riflessione riguarda l’enorme senso di responsabilità.

Se l’essere genitori è, per eccellenza, il mestiere più difficile, in quanto comporta un enorme carico fisico ed emotivo, il caregiver, sentendosi tale, porta dentro di sé tutto il peso di questo carico. E quando ai colloqui ricevo i famigliari non ho dubbi: ne sento tutto il peso.

La medaglia rovesciata però porta con sé anche un’altra questione.

Il figlio (l’età media del figlio caregiver è mediamente tra i cinquanta e i sessanta) spesso non è solo figlio, ma è anche genitore; e i suoi figli, spesso, hanno già avuto dei figli. Il caregiver ha quindi dei genitori anziani ma anche dei nipoti ai quali spesso – per piacere ma anche per “dovere” – si trova a dover prestare accudimento.

Il senso di responsabilità è quindi doppio, per una generazione che, dal punto di vista sociale, viene definita generazione “cuscinetto, o generazione sandwich (Dorothy A. Miller, 1981), ovvero coloro che si ritrovano a destreggiarsi tra l’accudimento dei genitori e quello dei figli/nipoti, andando a tamponare dove lo stesso Welfare, spesso, non arriva.

Ma non si tratta solo di un senso etico. La responsabilità che si ha nei confronti dei genitori è anche un dovere da un punto di vista giuridico, ed è lo stesso che i genitori hanno nei confronti dei figli.

Se in quest’ultimo caso “il figlio ha il diritto di essere mantenuto, istruito e assistito moralmente dai genitori” (art 315 bis, c.c.), l’art. 433 dà, a quello stesso figlio, l’obbligo di “prestare gli alimenti”, inserendolo tra le “persone obbligate”.

C’è quindi, esattamente come per un figlio, un senso di responsabilità che parte da un presupposto giuridico ma che poi si cala su sentimenti più nobili come l’amore e l’affetto, con parole che mi capita di sentire molto spesso come: “Voglio ricambiare tutto ciò che la mia mamma/il mio papà, ha fatto per me”.

L’RSA come luogo di accudimento

Una relazione sana madre/padre-bambino ha come caratteristica fondante quella di dare senso di protezione e accudimento. Il bambino deve sentirsi protetto.

Secondo Bowlby “l’obiettivo del sistema di accudimento o caregiving è tenere la prole non autosufficiente vicina sé e al sicuro (Bowlby, 1982).

Il termine non autosufficiente riporta subito alla dimensione della persona anziana.

Tenere al sicuro la persona anziana però non è facile.

La non autosufficienza porta con sé una serie di rischi: pensiamo anche solo al rischio caduta, al fatto di non sapere come gestire una persona che è incontinente, che non si muove, che va posturata. Una mamma che tiene vicino a sé un bambino lo fa sentire al sicuro e gli offre tutta la protezione di cui ha bisogno; con la persona anziana, molte volte, questo non è possibile.

Eppure “la funzione del sistema di accudimento è di offrire protezione, provvedere alla riduzione dello stress e alle cure del bambino” (George e Solomon, 2008).

Sappiamo però quanto quel “provvedere alle cure”, per ciò che riguarda la persona anziana, possa diventare estremamente complicato. I progressi della scienza e della medicina hanno permesso, negli ultimi anni, un allungamento significativo della vita; questo però ha avuto, come conseguenza, il fatto che l’ultimo periodo viene spesso vissuto in una condizione di non autosufficienza.

Il caregiver, nella maggior parte dei casi, non è attrezzato, né da un punto di vista psicologico né da un punto di vista pratico, all’assistenza; viene meno quindi l’adempimento della responsabilità maggiore, ovvero quella di provvedere alla protezione e all’accudimento.

Ma chi allora può, realmente, proteggere e accudire?

L’RSA come luogo sicuro

La risposta mi viene data, come sempre, dalle parole di chi incontro tutti i giorni, e mi parla della scelta di inserire il proprio caro – nella maggior parte dei casi un genitore – in RSA:

Mi dispiace metterlo qui, avrei voluto tenerlo a casa il più possibile. Ma la badante non c’è sempre, e spesso nemmeno lei sa cosa fare. Qui so che c’è il medico, l’infermiere, le operatrici. Sono triste e mi sento in colpa, ma so che qui è al sicuro”.

Ecco quindi che l’RSA diventa il luogo cardine dove chi si sente “genitore” si arrende all’idea di non farcela da solo e sceglie un luogo protetto, dove far sentire chi ama al sicuro. Non ovviamente senza sensi di colpa.

Il senso di colpa è infatti il filo conduttore dei sentimenti del caregiver, “costretto” a fare una scelta: preservare, dignitosamente, un po’ di libertà e spazio personale, e sapere il genitore al sicuro. È paradossale ma, in effetti, ricorda molto le scelte dei genitori verso i propri figli.

E mi ricorda il sentirsi “genitore” anche l’aneddoto seguente:

Sono a un colloquio per un ingresso. Siamo alla fine e, dopo aver spiegato tutti i vari passaggi, mi accingo a ricordare una questione burocratica, spiegando che, insieme alla prima retta, c’è un contributo da pagare, che chiamo “apertura della pratica amministrativa”. Per sicurezza il figlio mi guarda e mi dice:

Tipo un’iscrizione?

Sì, più o meno” – rispondo.

“Sì ok, ho capito, come all’asilo”.

Avrebbe potuto fare il paragone con qualsiasi altro servizio.

Ci si iscrive in palestra, a nuoto, a corsi di vario genere; eppure, nella fretta, la cosa più automatica è stata riversare nel parallelismo il ruolo che quel figlio si sentiva, in quel frangente, meglio cucito addosso: quello di genitore che sta iscrivendo un figlio all’asilo.

Una profezia che si auto-avvera

Se il rovesciamento linguistico mi fa quasi sorridere e la riflessione sul ribaltamento del ruolo mi aiuta a essere ancora più comprensiva con le famiglie, la conversazione che sto per riportare mi fa pensare a quanto questo meccanismo vada monitorato, considerandone i rischi annessi.

Sono alla macchinetta del caffè e parlo con M., una signora anziana non autosufficiente ma con un buon grado di lucidità. Durante la conversazione mi dice:

“Sai, ieri ero qui e c’era anche G., è venuta giù a prendere un caffè e insieme a lei c’era una bella signora con cui ho parlato. Era sua mamma”.

“Sì, è una bellissima signora ma sai, penso sia la figlia non la mamma”.

M. ride: “Sì, hai ragione”.

Invece, una mattina, mi chiama per sfogarsi. È arrabbiata. La sua compagna di stanza si lamenta durante la notte, la trova maleducata. Le dico che non lo fa apposta e G. mi risponde scocciata:

“Bè, sua mamma è qui a trovarla tutti i giorni. Potrebbe insegnarle l’educazione”.

Questi due esempi, realmente accaduti, mi hanno appunto fatto riflettere sui rischi che questo rovesciamento di ruolo porta con sé.

Il primo è quello che il sociologo Merton ha definito come la “profezia che si auto-adempie”.  Il concetto, introdotto nel 1948, sta a indicare quei casi in cui una supposizione – per il solo fatto di essere creduta vera – alla fine si realizza, confermando la propria veridicità seppur inizialmente infondata.

Può accadere quindi che il caregiver, a forza di trattare l’anziano come figlio, non solo rafforzi la sua idea di esserne il “genitore”, sovraccaricandosi di tutta una serie di responsabilità ma, di riflesso, conduca l’anziano stesso a sentirsi veramente tale. Se quindi quest’ultimo risulta ancora in possesso di autonomie residue, potrebbe finire per farsi “accudire” totalmente.

La psicologia sociale maligna

Si può sconfinare, di fatto, in un altro concetto pericoloso, quello di “psicologia sociale maligna”, coniato da Tom Kitwood negli anni novanta per classificare “tutte quelle interazioni svalutanti e stigmatizzanti nelle relazioni di cura, che possono minare le necessità psicologiche, o addirittura l’identità profonda delle persone“.

Si tratta di “azioni attraverso le quali si intende perseguire il bene”, ma che, alla fine, “si rivelano non solo fallaci, ma addirittura svilenti rispetto all’obiettivo di valorizzazione della dignità e dello stato di salute degli individui”. (Bissolo G., Fazzi L., Gianelli M.V., 2009, p. 7).

Il fenomeno dell’elderspeak

Tra quelle interazioni svalutanti può esserci il fenomeno dell’ “elderspeak”, ovvero la tendenza, quando si è in presenza di una persona anziana, a usare “linguaggio infantile e semplificato che sottintende la presenza di una difficoltà di comprensione da parte dell’anziano” (Applewhite, 2017). Il fenomeno può risultare ancora più marcato se il caregiver in questione si sente, più che figlio, genitore. Gli verrà infatti spontaneo, sentendosi addosso quel ruolo, riversarlo anche nel linguaggio.

Mentre proteggere un bambino è spesso istintivo, proteggere un genitore anziano, con esigenze specifiche e un quadro clinico anche complesso, non sempre risulta così innato.

Di fronte a un figlio che si definisce “genitore”, ma non ha tutti gli strumenti per esercitare quel ruolo, può venire quindi in soccorso l’RSA, che si fa luogo sicuro, accudente, che si prenderà cura di chi non deve più crescere ma semplicemente continuare a invecchiare. E vuole farlo nel miglior modo possibile.

Enea simbolo della generazione sandwich

In foto di copertina: la celebre fuga da Troia in fiamme descritta nell’Eneide di Virgilio. Enea porta in salvo il figlio Ascanio prendendolo per mano e il vecchio padre Anchise, caricandoselo sulle spalle.

Se ti interessa il tema dei linguaggi che utilizziamo nelle relazioni di cura, ti segnaliamo anche quest’articolo dell’autrice Linda Sabbadin:

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sociologa e assistente sociale. Da alcuni anni si occupa dell’accoglienza degli anziani, all’interno delle RSA, e del supporto ai caregiver.

Grazie di cuore

 

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