La nostra parte profonda e vera

Autenticità. Cosa significa? Quanto è importante nella relazione con la persona che convive con la demenza e quali sono le strade che ci aiutano a raggiungerla? Si tratta solo di tecnica o c’è qualcosa di più profondo?

Partiamo come sempre dall’analisi delle parole. Il termine autenticità è composto da autòs (sé stesso) ed entòs (dentro) e dunque è qualcosa che ha a che fare con l’interiorità, la nostra parte profonda e vera. In questo articolo vorrei provare ad osservare con semplicità questa qualità dell’esistenza, con una lente d’ingrandimento sugli effetti di una comunicazione autentica sulla relazione con l’anziano fragile, confuso e disorientato.

Demenza: sospettosità e deliri di latrocinio

La persona che convive con la demenza, specie negli stadi iniziali, è frequentemente molto sospettosa. Spesso la fragilità rende sospettosi.

Swami Veda Bharati, uno dei maggiori studiosi contemporanei del pensiero indiano, in uno dei suoi articoli, a proposito di mente debole e mente forte, scrive: Una mente debole è sospettosa. Una mente forte ha fiducia(Life Positive Magazine, Delhi). La perdita di competenze cognitive e di controllo su di sé e sulla propria vita deve essere veramente molto difficile da sperimentare, è comprensibile che possa innescare reazioni di legittima difesa come avere timori di ogni tipo, non riuscire a fidarsi di nessuno, sospettare e accusare.

Nell’ampio contesto delle demenze incontriamo altrettanto spesso il delirio di latrocinio, per esempio; si tratta di quella situazione in cui la persona, non trovando un determinato oggetto, sostiene che qualcuno glielo può aver portato via. Ma c’è anche altro. Per tutta una serie di esperienze difficili accade anche che non ci si possa più fidare della propria mente, delle proprie capacità mnemoniche; così, timorosi e insicuri, alcuni anziani mettono oggetti preziosi nei posti più strani, perché in quel momento preciso nasconderli appare la soluzione migliore. Salvo poi non riuscire a ricordare.

Quando penso alle tante persone anziane che ho incontrato immerse nel sospetto, riaffiora alla mia memoria un’immagine molto chiara di mia madre: aveva la malattia di Parkinson da anni ma era lucida nei pensieri. Ad un certo punto della sua vecchiaia si trovò bloccata a letto per una recidiva di un tumore allo stadio finale; si muoveva con grande fatica. Un mattino ero lì con lei ad aspettare l’arrivo dell’assistente domiciliare. Arrivata la persona che aspettavamo iniziammo le solite cose: facciamo insieme questo, metti a posto per favore quello … io tra poco devo andare a lavorare.

La mamma guardava ora me ora l’assistente, sollevando la testa con grande fatica. “Mamma cosa succede?”, le dissi. Lei con un’espressione molto irritata “Voglio proprio vedere dove va a mettere le mani quella là!”.

Accettare come vero il mondo della persona con demenza

Ci sono una serie di cambiamenti nella fragilità che possono generare pensieri di questo tipo, che rendono la persona anziana (che da un po’ non è più in grado di autogestirsi) irritabile, diffidente. Non poter più essere quelli di un tempo, dover accettare aiuti esterni, sentirsi inadeguati, di peso e magari non avere più le capacità cognitive per trovare strategie di adattamento a tutto ciò, può generare nell’individuo una grande frustrazione che si manifesta poi nei modi più diversi; prendersela col mondo intero è uno dei tanti.

Nell’apprendere il metodo Validation ho trovato molto interessante il suggerimento che viene dato quando si è di fronte a questo tipo di comportamento, accusatorio e sospettoso. La validazione emozionale ci insegna ad accogliere anche questo, ad accettare questa condizione mentale prendendola per vera, perché nella mente dell’altro lo è.

Uno dei nodi più difficili questo, va detto, dove è necessario allenamento. La cosa veramente stimolante, che è anche quella che richiede più tempo per essere interiorizzata, è collegata all’autenticità della nostra risposta relazionale. Validare un sospetto o un delirio di latrocinio significa essere immersi in un argomento che noi sappiamo non essere corrispondente al piano di realtà.

È un imbroglio in sostanza? Come fare? Come trasmettere fiducia? La nostra voce, il nostro sguardo, quando diciamo qualcosa di non corrispondente, lascia sicuramente trasparire l’inganno. Sembra impossibile venirne fuori.

Spostarsi sul piano emozionale

Per il metodo Validation l’autenticità è la corrispondenza tra ciò che dico o faccio e ciò che sento. È un prerequisito, non è una tecnica.

La troviamo tra le voci dell’atteggiamento convalidante. È la capacità di essere veri a livello emozionale, ad un livello, cioè, che non ha tanto a che fare con le cose o con i fatti, bensì con le emozioni. Sì, perché lì possiamo sempre essere veri, al di là di tutto. L’empatia ci aiuta in quanto ci assicura un contatto emozionale sincero.

Quando una signora anziana confusa cerca la mamma e io accetto questo suo status mentale così come è, per essere validante posso parlare con lei non tanto della mamma quanto dei sentimenti che lei prova al riguardo. Se mi soffermassi sulla mamma in sé scivolerei facilmente nell’imbroglio, mentre andando ad indagare sentimenti ed emozioni (come la mancanza per esempio) mi troverò su un altro piano, che non ha a che fare con il vero o non vero.

La mancanza della mamma è qualcosa che posso sentire, comprendere e di cui posso parlare con corrispondenza, con autenticità.

Allo stesso modo quando la signora Elvira accusava la sua vicina di camera di averle rubato la biancheria, ciò che mi aiutava a comunicare con lei in maniera autentica era andare sulle emozioni. Io sapevo che le sue maglie, quelle belle, erano lì nel cassetto e sapevo anche che a nulla sarebbe servito fargliele vedere (quante volte l’avevo fatto in passato, serviva solo a peggiorare le cose!).

Per essere vera e corrispondente mi era utile entrare in uno spazio empatico e lì mettermi in contatto con la sua rabbia, con ciò che lei sentiva. Quella la potevo comprendere profondamente e per lei era fondamentale leggere nei miei modi che ero sincera quando le dicevo “Che rabbia che fa questa cosa!”. Se il contatto emozionale non è vero il nostro tono, come anche lo sguardo e gli altri canali corporei, fanno emergere chiaramente che qualcosa non va.

Essere in pace con noi stessi, prima di tutto

C’è qualcosa di profondo, credo, che ci porta sul cammino dell’autenticità.

Come dicevamo in apertura di questo articolo, autenticità è essere veri innanzitutto nei confronti di noi stessi. Se sentiamo il bisogno di nascondere alcune nostre parti (per esempio perché non ci piacciono), se sentiamo di dover interpretare ruoli, indossare maschere (per esempio per piacere agli altri) la libertà di essere autentici ci è negata.

Essere autentici, dunque, ha a che fare con una buona auto-connessione e con un buon rapporto con noi stessi, un contatto “gioioso” con la parte nostra più vera, accoglienti di tutte le nostre parti, anche quelle meno nobili. Con questa buona condizione di base siamo, penso, liberi: liberi di essere corrispondenti, allineati nel dire e sentire.

About the Author: Cinzia Siviero

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Formatrice Validation® certificata – Responsabile di AGAPE AVO organizzazione Validation® autorizzata.

La nostra parte profonda e vera

Autenticità. Cosa significa? Quanto è importante nella relazione con la persona che convive con la demenza e quali sono le strade che ci aiutano a raggiungerla? Si tratta solo di tecnica o c’è qualcosa di più profondo?

Partiamo come sempre dall’analisi delle parole. Il termine autenticità è composto da autòs (sé stesso) ed entòs (dentro) e dunque è qualcosa che ha a che fare con l’interiorità, la nostra parte profonda e vera. In questo articolo vorrei provare ad osservare con semplicità questa qualità dell’esistenza, con una lente d’ingrandimento sugli effetti di una comunicazione autentica sulla relazione con l’anziano fragile, confuso e disorientato.

Demenza: sospettosità e deliri di latrocinio

La persona che convive con la demenza, specie negli stadi iniziali, è frequentemente molto sospettosa. Spesso la fragilità rende sospettosi.

Swami Veda Bharati, uno dei maggiori studiosi contemporanei del pensiero indiano, in uno dei suoi articoli, a proposito di mente debole e mente forte, scrive: Una mente debole è sospettosa. Una mente forte ha fiducia(Life Positive Magazine, Delhi). La perdita di competenze cognitive e di controllo su di sé e sulla propria vita deve essere veramente molto difficile da sperimentare, è comprensibile che possa innescare reazioni di legittima difesa come avere timori di ogni tipo, non riuscire a fidarsi di nessuno, sospettare e accusare.

Nell’ampio contesto delle demenze incontriamo altrettanto spesso il delirio di latrocinio, per esempio; si tratta di quella situazione in cui la persona, non trovando un determinato oggetto, sostiene che qualcuno glielo può aver portato via. Ma c’è anche altro. Per tutta una serie di esperienze difficili accade anche che non ci si possa più fidare della propria mente, delle proprie capacità mnemoniche; così, timorosi e insicuri, alcuni anziani mettono oggetti preziosi nei posti più strani, perché in quel momento preciso nasconderli appare la soluzione migliore. Salvo poi non riuscire a ricordare.

Quando penso alle tante persone anziane che ho incontrato immerse nel sospetto, riaffiora alla mia memoria un’immagine molto chiara di mia madre: aveva la malattia di Parkinson da anni ma era lucida nei pensieri. Ad un certo punto della sua vecchiaia si trovò bloccata a letto per una recidiva di un tumore allo stadio finale; si muoveva con grande fatica. Un mattino ero lì con lei ad aspettare l’arrivo dell’assistente domiciliare. Arrivata la persona che aspettavamo iniziammo le solite cose: facciamo insieme questo, metti a posto per favore quello … io tra poco devo andare a lavorare.

La mamma guardava ora me ora l’assistente, sollevando la testa con grande fatica. “Mamma cosa succede?”, le dissi. Lei con un’espressione molto irritata “Voglio proprio vedere dove va a mettere le mani quella là!”.

Accettare come vero il mondo della persona con demenza

Ci sono una serie di cambiamenti nella fragilità che possono generare pensieri di questo tipo, che rendono la persona anziana (che da un po’ non è più in grado di autogestirsi) irritabile, diffidente. Non poter più essere quelli di un tempo, dover accettare aiuti esterni, sentirsi inadeguati, di peso e magari non avere più le capacità cognitive per trovare strategie di adattamento a tutto ciò, può generare nell’individuo una grande frustrazione che si manifesta poi nei modi più diversi; prendersela col mondo intero è uno dei tanti.

Nell’apprendere il metodo Validation ho trovato molto interessante il suggerimento che viene dato quando si è di fronte a questo tipo di comportamento, accusatorio e sospettoso. La validazione emozionale ci insegna ad accogliere anche questo, ad accettare questa condizione mentale prendendola per vera, perché nella mente dell’altro lo è.

Uno dei nodi più difficili questo, va detto, dove è necessario allenamento. La cosa veramente stimolante, che è anche quella che richiede più tempo per essere interiorizzata, è collegata all’autenticità della nostra risposta relazionale. Validare un sospetto o un delirio di latrocinio significa essere immersi in un argomento che noi sappiamo non essere corrispondente al piano di realtà.

È un imbroglio in sostanza? Come fare? Come trasmettere fiducia? La nostra voce, il nostro sguardo, quando diciamo qualcosa di non corrispondente, lascia sicuramente trasparire l’inganno. Sembra impossibile venirne fuori.

Spostarsi sul piano emozionale

Per il metodo Validation l’autenticità è la corrispondenza tra ciò che dico o faccio e ciò che sento. È un prerequisito, non è una tecnica.

La troviamo tra le voci dell’atteggiamento convalidante. È la capacità di essere veri a livello emozionale, ad un livello, cioè, che non ha tanto a che fare con le cose o con i fatti, bensì con le emozioni. Sì, perché lì possiamo sempre essere veri, al di là di tutto. L’empatia ci aiuta in quanto ci assicura un contatto emozionale sincero.

Quando una signora anziana confusa cerca la mamma e io accetto questo suo status mentale così come è, per essere validante posso parlare con lei non tanto della mamma quanto dei sentimenti che lei prova al riguardo. Se mi soffermassi sulla mamma in sé scivolerei facilmente nell’imbroglio, mentre andando ad indagare sentimenti ed emozioni (come la mancanza per esempio) mi troverò su un altro piano, che non ha a che fare con il vero o non vero.

La mancanza della mamma è qualcosa che posso sentire, comprendere e di cui posso parlare con corrispondenza, con autenticità.

Allo stesso modo quando la signora Elvira accusava la sua vicina di camera di averle rubato la biancheria, ciò che mi aiutava a comunicare con lei in maniera autentica era andare sulle emozioni. Io sapevo che le sue maglie, quelle belle, erano lì nel cassetto e sapevo anche che a nulla sarebbe servito fargliele vedere (quante volte l’avevo fatto in passato, serviva solo a peggiorare le cose!).

Per essere vera e corrispondente mi era utile entrare in uno spazio empatico e lì mettermi in contatto con la sua rabbia, con ciò che lei sentiva. Quella la potevo comprendere profondamente e per lei era fondamentale leggere nei miei modi che ero sincera quando le dicevo “Che rabbia che fa questa cosa!”. Se il contatto emozionale non è vero il nostro tono, come anche lo sguardo e gli altri canali corporei, fanno emergere chiaramente che qualcosa non va.

Essere in pace con noi stessi, prima di tutto

C’è qualcosa di profondo, credo, che ci porta sul cammino dell’autenticità.

Come dicevamo in apertura di questo articolo, autenticità è essere veri innanzitutto nei confronti di noi stessi. Se sentiamo il bisogno di nascondere alcune nostre parti (per esempio perché non ci piacciono), se sentiamo di dover interpretare ruoli, indossare maschere (per esempio per piacere agli altri) la libertà di essere autentici ci è negata.

Essere autentici, dunque, ha a che fare con una buona auto-connessione e con un buon rapporto con noi stessi, un contatto “gioioso” con la parte nostra più vera, accoglienti di tutte le nostre parti, anche quelle meno nobili. Con questa buona condizione di base siamo, penso, liberi: liberi di essere corrispondenti, allineati nel dire e sentire.

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