Samira, 50 anni, svolge la professione di OSS presso la Fondazione A. E. Cerino Zegna di Occhieppo Inferiore (BI) e ama il proprio lavoro. Nata e cresciuta in Marocco, la cura è sempre stata il suo sogno. Dalle iniziali difficoltà vissute a livello famigliare a una vita lavorativa felice in una RSA italiana, la sua testimonianza ci illumina con semplicità su ciò che può dare più soddisfazione nella cura alle persone anziane.

Il sogno di aiutare gli altri

“Del lavoro di OSS mi piace tutto”, mi spiega Samira; “l’ho scelto e lo risceglierei ancora, perché aiutare gli altri è sempre stato il mio sogno fin da bambina”.

Quando qualcuno si ammalava, infatti, era sempre lei a prestare cura e assistenza.

Nello specifico, Samira sognava di fare l’infermiera, per seguire una strada di cura proprio come il fratello, anestesista appassionato del proprio lavoro e fonte di ispirazione per lei.

Arrivata in Italia nel ’97 per seguire il marito, sceglierà di iscriversi al corso OSS solo nel 2012, con un po’ di paura per la sua conoscenza non ottimale della lingua italiana.

Mi racconta infatti di come, dal suo arrivo in Italia, sia rimasta per molto tempo a casa a prendersi cura dei tre figli – di cui la più piccola nata nel 2006 – principalmente per assecondare le volontà del marito, che non vedeva di buon occhio che lei uscisse o studiasse. Questa condizione non solo le impedirà di imparare correttamente la lingua sulle prime, ma la porterà anche a non essere serena e felice nel lungo periodo.

Modi diversi di vedere la donna

Sposatasi in Marocco giovanissima, quand’era appena diciottenne, Samira ha divorziato dal marito ormai da quattro anni.

Le chiedo se ha voglia di raccontarmi come vede la “questione femminile” nel suo Paese, ovvero come le sembra che siano trattate le donne.

Mi preme conoscere il suo sguardo di donna marocchina, di religione islamica e con una vicenda personale di questo genere alle spalle.

“Non è che tutti abbiano la visione del mio ex marito”, racconta; “lui veniva dal Sud, dal deserto, e lì sono più chiusi. Anche se lui aveva studiato, comunque non aveva una mentalità aperta. Si preoccupava molto di quello che pensavano e dicevano le altre persone. Per questo, per esempio, mi faceva mettere il foulard, mi dice, probabilmente riferendosi all’hijab.

“La mia famiglia invece era diversa. Mio padre era un militare che aveva viaggiato, era andato a lavorare anche in Francia ed era di mentalità decisamente più aperta. Dipende molto dalle singole famiglie il modo di vedere la donna”, mi dice.

Accettare l’idea stessa di RSA

Samira è una donna di poche parole, ma quelle che pronuncia sono molto chiare.

Ancora una volta mi sfiora il pensiero che non conosciamo mai abbastanza dei vissuti, delle storie, delle culture – dei mondi, per dirla con una parola – che si incontrano tra le mura delle nostre RSA.

Mentre parliamo di differenze tra culture, emerge infatti un’altra tematica, che non è la prima volta che raccolgo: Samira mi confessa che inizialmente ha avuto difficoltà ad accettare l’esistenza stessa delle RSA.

È questo un tema che ricorre nei punti di vista delle persone che provengono da Paesi in cui l’RSA non c’è o non esiste nella forma che siamo abituati a conoscere qui in Italia.

Sinceramente io all’inizio non capivo perché mai le persone portassero qui i loro genitori.

Noi teniamo a casa i nostri cari. Da noi ci sono solo centri che accolgono le persone sole, ma non ci sono infermieri o altri professionisti al loro interno.

Dal nostro punto di vista sarebbe una vergogna “abbandonare” in questi centri i propri cari”, mi racconta, ricordandomi da vicino le parole delle OSS colombiane con cui avevo parlato poco prima (ho approfondito il loro punto di vista in quest’articolo: Olga e Nelly: OSS colombiane che ci mettono il cuore)

Ma poi ho capito. Non sarebbe possibile non avere le RSA qui.

Da noi, in Marocco, non tutti lavorano e comunque i lavoratori stanno meno ore fuori casa di quanto non accada qui.

Dunque c’è sempre qualcuno che può prendersi cura della persona che ha bisogno. Qui non sarebbe possibile, per come è organizzata la vita”.

Fare bene il lavoro di OSS

Oggi Samira ha ribaltato completamente la propria visione, comprendendo e anzi “benedicendo” il fatto che le RSA esistano, così la cura può arrivare a tutti e nessuno è solo.

È questo solo uno dei segni di come lei si senta oggi totalmente a proprio agio nella cultura del nostro Paese e, mi dice, anche nel suo lavoro di OSS in RSA, dove riesce a “vivere serenamente anche il suo ramadan” e a rispettare al contempo le abitudini e le esigenze degli anziani di cui si prende cura, servendo loro anche vino e prosciutto quando occorre.

Il suo temperamento pacifico e la dedizione nel lavoro di cura sono infine ciò che le consente di andare d’accordo con i colleghi: “il lavoro di gruppo funziona se ognuno fa bene il proprio lavoro”.

E per Samira l’unica parola che conta sul “fare bene” nel lavoro assistenziale è quella degli anziani: “la soddisfazione più grande”, conclude infatti, “è vedere le persone che assisti felici di ciò che hai fatto e per come lo hai fatto. Riuscire a trasmettere loro gioia, durante il mio lavoro di cura: ecco che cosa mi dà veramente la carica quando sono in servizio”.

About the Author: Giulia Dapero

Giulia Dapero
Direttrice editoriale CURA _ Co-founder Editrice Dapero

Samira, 50 anni, svolge la professione di OSS presso la Fondazione A. E. Cerino Zegna di Occhieppo Inferiore (BI) e ama il proprio lavoro. Nata e cresciuta in Marocco, la cura è sempre stata il suo sogno. Dalle iniziali difficoltà vissute a livello famigliare a una vita lavorativa felice in una RSA italiana, la sua testimonianza ci illumina con semplicità su ciò che può dare più soddisfazione nella cura alle persone anziane.

Il sogno di aiutare gli altri

“Del lavoro di OSS mi piace tutto”, mi spiega Samira; “l’ho scelto e lo risceglierei ancora, perché aiutare gli altri è sempre stato il mio sogno fin da bambina”.

Quando qualcuno si ammalava, infatti, era sempre lei a prestare cura e assistenza.

Nello specifico, Samira sognava di fare l’infermiera, per seguire una strada di cura proprio come il fratello, anestesista appassionato del proprio lavoro e fonte di ispirazione per lei.

Arrivata in Italia nel ’97 per seguire il marito, sceglierà di iscriversi al corso OSS solo nel 2012, con un po’ di paura per la sua conoscenza non ottimale della lingua italiana.

Mi racconta infatti di come, dal suo arrivo in Italia, sia rimasta per molto tempo a casa a prendersi cura dei tre figli – di cui la più piccola nata nel 2006 – principalmente per assecondare le volontà del marito, che non vedeva di buon occhio che lei uscisse o studiasse. Questa condizione non solo le impedirà di imparare correttamente la lingua sulle prime, ma la porterà anche a non essere serena e felice nel lungo periodo.

Modi diversi di vedere la donna

Sposatasi in Marocco giovanissima, quand’era appena diciottenne, Samira ha divorziato dal marito ormai da quattro anni.

Le chiedo se ha voglia di raccontarmi come vede la “questione femminile” nel suo Paese, ovvero come le sembra che siano trattate le donne.

Mi preme conoscere il suo sguardo di donna marocchina, di religione islamica e con una vicenda personale di questo genere alle spalle.

“Non è che tutti abbiano la visione del mio ex marito”, racconta; “lui veniva dal Sud, dal deserto, e lì sono più chiusi. Anche se lui aveva studiato, comunque non aveva una mentalità aperta. Si preoccupava molto di quello che pensavano e dicevano le altre persone. Per questo, per esempio, mi faceva mettere il foulard, mi dice, probabilmente riferendosi all’hijab.

“La mia famiglia invece era diversa. Mio padre era un militare che aveva viaggiato, era andato a lavorare anche in Francia ed era di mentalità decisamente più aperta. Dipende molto dalle singole famiglie il modo di vedere la donna”, mi dice.

Accettare l’idea stessa di RSA

Samira è una donna di poche parole, ma quelle che pronuncia sono molto chiare.

Ancora una volta mi sfiora il pensiero che non conosciamo mai abbastanza dei vissuti, delle storie, delle culture – dei mondi, per dirla con una parola – che si incontrano tra le mura delle nostre RSA.

Mentre parliamo di differenze tra culture, emerge infatti un’altra tematica, che non è la prima volta che raccolgo: Samira mi confessa che inizialmente ha avuto difficoltà ad accettare l’esistenza stessa delle RSA.

È questo un tema che ricorre nei punti di vista delle persone che provengono da Paesi in cui l’RSA non c’è o non esiste nella forma che siamo abituati a conoscere qui in Italia.

Sinceramente io all’inizio non capivo perché mai le persone portassero qui i loro genitori.

Noi teniamo a casa i nostri cari. Da noi ci sono solo centri che accolgono le persone sole, ma non ci sono infermieri o altri professionisti al loro interno.

Dal nostro punto di vista sarebbe una vergogna “abbandonare” in questi centri i propri cari”, mi racconta, ricordandomi da vicino le parole delle OSS colombiane con cui avevo parlato poco prima (ho approfondito il loro punto di vista in quest’articolo: Olga e Nelly: OSS colombiane che ci mettono il cuore)

Ma poi ho capito. Non sarebbe possibile non avere le RSA qui.

Da noi, in Marocco, non tutti lavorano e comunque i lavoratori stanno meno ore fuori casa di quanto non accada qui.

Dunque c’è sempre qualcuno che può prendersi cura della persona che ha bisogno. Qui non sarebbe possibile, per come è organizzata la vita”.

Fare bene il lavoro di OSS

Oggi Samira ha ribaltato completamente la propria visione, comprendendo e anzi “benedicendo” il fatto che le RSA esistano, così la cura può arrivare a tutti e nessuno è solo.

È questo solo uno dei segni di come lei si senta oggi totalmente a proprio agio nella cultura del nostro Paese e, mi dice, anche nel suo lavoro di OSS in RSA, dove riesce a “vivere serenamente anche il suo ramadan” e a rispettare al contempo le abitudini e le esigenze degli anziani di cui si prende cura, servendo loro anche vino e prosciutto quando occorre.

Il suo temperamento pacifico e la dedizione nel lavoro di cura sono infine ciò che le consente di andare d’accordo con i colleghi: “il lavoro di gruppo funziona se ognuno fa bene il proprio lavoro”.

E per Samira l’unica parola che conta sul “fare bene” nel lavoro assistenziale è quella degli anziani: “la soddisfazione più grande”, conclude infatti, “è vedere le persone che assisti felici di ciò che hai fatto e per come lo hai fatto. Riuscire a trasmettere loro gioia, durante il mio lavoro di cura: ecco che cosa mi dà veramente la carica quando sono in servizio”.

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Giulia Dapero
Direttrice editoriale CURA _ Co-founder Editrice Dapero

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