Di Alessandra Gorini, Professore Associato di Psicologia Generale, Dipartimento di Scienze Cliniche e di Comunità, Università degli Studi di Milano ICS Maugeri-Camaldoli, Milano
Parlare di contenzione e demenza significa parlare delle paure e delle angosce vissute in una situazione di deterioramento cognitivo, e di come tali emozioni risultino trasversali ad anziani, familiari e professionisti della cura.
Nell’articolo Contenzione e qualità della vita del paziente anziano, si parla della casistica di utilizzo di forme di contenzione, e degli effetti che la contenzione comporta per l’anziano, per l’operatore, per il caregiver e per il familiare.
Alla base di queste pratiche possono esserci motivazioni che derivano dall’esigenza di soddisfare i bisogni materiali del residente, in una accezione materialistica della cura che determina la perdita di valori profondi, e l’utilizzo ancora diffuso delle pratiche di contenzione fisica o farmacologica.
Puoi leggere qui la prima parte dell’articolo: Contenzione e qualità di vita della persona con demenza, cosa dicono gli studi?
Riproponiamo di seguito l’articolo sulla contenzione uscito sul numero 11 di CURA, Settembre 2022
Contenzione e demenza: la consapevolezza della malattia
È però ormai provato che anche la persona che va incontro a forme di deterioramento cognitivo abbia consapevolezza della malattia e del suo progressivo “perdersi” e abbia paura di questo.
Quante volte viene dato spazio all’ascolto di queste paure? E, ancora, quanti di noi, spaventati e messi in una condizione di non potersi esprimere, manifesterebbero rabbia, insofferenza o insonnia?
Per fortuna, stiamo assistendo alla nascita di molte iniziative di ascolto della voce delle persone che vivono con demenza che sottolineano l’importanza delle loro narrative per capirne meglio i bisogni e i desideri. Contemporaneamente, molti approcci stanno dimostrando quanto sia importante tenere vive le loro emozioni e lavorare sul piano emotivo per affrontare le problematiche comportamentali senza l’utilizzo di strumenti contenitivi, ma al contrario, facendo emergere tutta quella ricchezza che rimane presente anche dopo l’insorgenza e l’aggravarsi della malattia.
Se e quando la contenzione è strettamente necessaria
Alcune importanti riflessioni sulle contenzioni in generale, e ancor più sul binomio contenzione e demenza.
Contenzione e demenza? Meglio comunicare le emozioni
La prima riflessione riguarda certamente la loro reale necessità di utilizzo. Se ci sono Paesi in cui è stato possibile ridurle al minimo, o addirittura abolirle, allora significa che uno sforzo comune e coordinato tra strutture sanitarie e policy maker è di fondamentale importanza per introdurre e sviluppare una nuova cultura organizzativa che porti a una gestione “più umana” e conseguentemente più efficace del paziente.
Sì, perché la letteratura più recente ci mostra (e dimostra) come l’umanità sia il primo strumento di cura (e spesso anche il più efficace) e che, soprattutto nei pazienti con Alzheimer o demenza, un approccio basato sulla gestione e sulla comunicazione delle emozioni è decisamente più efficace di un approccio contenitivo e coercitivo che, quasi sempre (e comprensibilmente), non fa altro che incrementare lo stato di disagio e il livello di aggressività del ricevente.
Contenzione e demenza: meglio coinvolgimento, pianificazione e condivisione
La seconda riflessione riguarda la modalità di utilizzo delle contenzioni nel caso in cui queste si rivelino realmente e strettamente necessarie per la sicurezza del paziente. In un’epoca in cui si promuove a gran voce la necessità di coinvolgere i pazienti nelle decisioni mediche affinché non siano passivi ricettori di cure, ma partecipanti attivi del percorso clinico, diventa assolutamente fondamentale, almeno qualora il loro stato cognitivo lo permetta, coinvolgerli nella pianificazione dei trattamenti attraverso un dialogo aperto con il personale sanitario che abbia lo scopo di fornire loro un supporto emotivo e pratico anche nelle condizioni più critiche.
Tra le testimonianze raccolte tra i pazienti su cui è stato necessario l’utilizzo di una forma di contenzione, infatti, coloro che hanno avuto la possibilità di relazionarsi e confrontarsi con il personale sanitario hanno riferito esperienze meno traumatiche.
Gli stessi pazienti hanno anche dichiarato che, in quella situazione, sentivano forte la necessità di avere qualcuno con cui parlare, di ricevere gentilezza, comportamenti umani, ascolto empatico, attenzione, comprensione e rispetto. Altri, ancora, hanno richiesto di poter trascorrere più tempo con i professionisti sanitari, accontentandosi persino di una presenza silente al loro fianco. La presenza fisica dello staff durante il periodo di contenzione è stata, infatti, definita da molti come un fattore fondamentale per sentirsi al sicuro. Allo stesso tempo, quando il personale sanitario si teneva a distanza, l’esperienza veniva descritta come negativa12.
Promuovere una diversa cultura della Cura
La terza e ultima considerazione pone l’accento su quali potrebbero essere le azioni più efficaci per promuovere una cultura “libera da contenzioni”13. Come abbiamo detto, uno dei motivi principali che “giustifica” l’uso di mezzi contenitivi consiste nel garantire la sicurezza dell’assistito, soprattutto nella dilagante ottica della medicina difensiva e in un quadro spesso caratterizzato da mancanza di risorse umane, materiali e culturali, oltre che da limitazioni strutturali e dalla mancanza di politiche e regolamentazioni sanitarie adeguate.
Questo implica che, per ridurre o eliminare l’uso delle contenzioni sia necessario aumentare la disponibilità di risorse materiali e umane adeguate, oltre che definire e applicare procedure organizzative specifiche e chiare all’interno delle singole strutture specificatamente mirate a prevenire l’uso delle contenzioni stesse.
Certamente, in questa prospettiva, un ruolo cardine è giocato dall’educazione e dalla sensibilizzazione degli infermieri e di tutti gli stakeholder coinvolti È infatti molto frequente che la contenzione fisica sia considerata, soprattutto nelle RSA come un intervento protettivo ordinario e, in molti casi, apparentemente giustificato dalla situazione14, quando invece, stando al Codice deontologico dell’infermiere e alle linee guida nazionali e internazionali, si dovrebbe far ricorso a essa solo in casi straordinari.
Oltre che per tutte le ragioni sopracitate, questo accade principalmente perché non vi è abbastanza conoscenza e attenzione, non solo rispetto alle conseguenze psicologiche e agli effetti che un periodo di contenzione può avere sulla qualità di vita del paziente, ma anche (e forse soprattutto) rispetto alle strategie alternative che potrebbero essere utilizzate, con sicura e maggiore efficacia, per indurre nel paziente comportamenti meno rischiosi e meno aggressivi.
Queste e altre riflessioni hanno portato, negli ultimi anni, allo sviluppo dei cosiddetti Nuclei Alzheimer, aree di cura e assistenza per persone con demenza che presentano disturbi del comportamento, nate con lo scopo di garantire protezione e sicurezza ai pazienti e di coinvolgerli in attività volte a stimolarne le capacità cognitive ed emotive con l’ausilio di interventi e terapie non farmacologici e non contenitivi. Promuovere un nuovo modo di intendere l’assistenza e la cura delle persone con demenza agendo sulle persone e sui processi organizzativi delle strutture in cui questi pazienti vengono curati è certamente l’obiettivo che dobbiamo darci oggi per migliorare non solo il processo di cura, ma anche la qualità di vita di pazienti e operatori. Basaglia diceva: «Aprire l’Istituzione (n.d.r. il manicomio) non è aprire una porta, ma la nostra testa di fronte a “questo” malato». Lo stesso vale per il tema delle contenzioni e della cura della persona anziana: solo liberando la testa dai vincoli che spesso ci auto-costruiamo o che ci vengono insegnati o addirittura imposti, potremo liberare i pazienti da questo vincolo antico, obsoleto e dannoso delle contenzioni e creare quel futuro della Cura al quale tutti noi vorremo appartenere.
11 Fereidooni, M. M. et al., (2014). Psychiatric nurses’ perceptions about physical restraint; a qualitative study. Int J Community Based Nurs Midwifery, 2(1), 20-30.
12 si vedano gli studi citati in nota 5.
13 Espanoli L., Giù le mani dai vecchi e Disturba chi?, L. Espanoli edizioni 2019. Espanoli L., Per un’organizzazione che cura, Ed. Dapero 2020.
14 Ben Natan, M. et al., (2010). Physically restraining elder residents of long-term care facilities from a nurses’ perspective. Int J Nurs Pract, 16(5), 499-507. Goethals, S. et al., (2012). Nurses’ decision-making in cases of physical restraint: a synthesis of qualitative evidence. J Adv Nurs, 68(6), 1198-1210. Hamers, J. P. et al., (2009). Attitudes of Dutch, German and Swiss nursing staff towards physical restraint use in nursing home residents, a cross-sectional study. Int J Nurs Stud, 46(2), 248-255. Hantikainen, V. (2001). Nursing staff perceptions of the behaviour of older nursing home residents and decision making on restraint use: a qualitative and interpretative study. J Clin Nurs, 10(2), 246-256. Knox, J. (2007). Reducing physical restraint use in residential aged care: implementation of an evidence-based approach to improve practice. Int J Evid Based Healthc, 5(1), 102-107. McCabe, D. E. et al., (2011). Perceptions of physical restraints use in the elderly among registered nurses and nurse assistants in a single acute care hospital. Geriatr Nurs, 32(1), 39-45. Suen, L. K. et al., (2006). Use of physical restraints in rehabilitation settings: staff knowledge, attitudes and predictors. J Adv Nurs, 55(1), 20-28.
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