Riproponiamo di seguito l’articolo sulla contenzione uscito sul numero 11 di CURA, Settembre 2022
Di Alessandra Gorini, Professore Associato di Psicologia Generale, Dipartimento di Scienze Cliniche e di Comunità, Università degli Studi di Milano ICS Maugeri-Camaldoli, Milano
Ci sono voluti più di 2000 anni di “civiltà” per disporre la chiusura dei manicomi con la famosa Legge Basaglia (Legge 13 maggio 1978, n.180 – «Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori») che, come tutti sappiamo, ha segnato una svolta nel mondo dell’assistenza ai pazienti psichiatrici; una rottura con il passato che ha aperto la strada della dignità per milioni di persone nel mondo la cui unica “colpa” era quella di avere una patologia mentale.
Erano solo 40 anni fa, molti di noi erano bambini e molti forse non erano nemmeno nati, e ancora c’erano i manicomi con tutti i loro annessi e connessi: fili spinati, cinghie di cuoio, camicie di forza, carcerieri, whisky, cloroformio e paraldeide. Ma anche botte e strutture fatiscenti con “guardiani” scelti per “mantenere l’ordine”. E soprattutto c’erano cose, non persone. “Cose” da lavare, vestire, legare. Inorridiamo a pensarci ora, eppure anche oggi dobbiamo fare i conti con qualcosa che fa poco onore al genere umano. Mi riferisco al fenomeno delle contenzioni fisiche e chimiche, la cui efficacia e i cui benefici non sono dimostrati da nessuna evidenza scientifica ma che, nonostante questo, è ancora molto diffuso in parecchie strutture sanitarie e in moltissime residenze per anziani, in particolare per quegli anziani che vivono con patologie invalidanti, con deficit cognitivi o demenze a causa dei quali, spesso, viene a mancare la capacità di esprimere un consenso informato rispetto ai trattamenti ricevuti.
Contenzione fisica: definizione
Una recente dichiarazione di consenso internazionale definisce contenzione fisica «qualsiasi azione o procedura applicata o adiacente al corpo di una persona che ne impedisca il libero movimento verso una posizione desiderata e/o il normale accesso a parti del proprio corpo, mediante l’uso di qualsiasi metodo che la persona stessa non può gestire o rimuovere facilmente»1. Diversamente, non esiste ad oggi un consenso relativo alla definizione di contenzione chimica, definita da alcuni studi come «la prescrizione di farmaci psicotropi per sopprimere l’attività del soggetto, per controllarne la condotta, e per gestirne i comportamenti che insorgono tipicamente in presenza di demenza»2.
Ricorrenza della contenzione: quando viene applicata?
Generalmente si ricorre a tali forme di contenzione per prevenire le cadute, controllare i disturbi del comportamento ed evitare interferenze del paziente nei trattamenti diagnostici e terapeutici.
Tuttavia, oltre a non portare ad alcun beneficio riconosciuto, le diverse forme di contenzione possono generare esiti negativi particolarmente dannosi per la persona, se non addirittura letali.
I rischi e i danni provocati dalla contenzione fisica
Le contenzioni fisiche, per esempio, possono causare lesioni dirette (lesioni nervose o ischemiche, tromboembolia, asfissia, morte improvvisa, ipertermia e sindrome neurolettica maligna) e lesioni indirette (rischio di caduta, degenze di maggiore durata, infezioni nosocomiali, aumentata mortalità e minore probabilità di rientrare al domicilio rispetto ai pazienti che non sono sottoposti a contenzione, declino nel comportamento sociale e cognitivo e della mobilizzazione, aumento nel disorientamento, sviluppo di lesioni da decubito e incontinenza urinaria e intestinale).
È da notare, tra l’altro, che sebbene la contenzione fisica sia usata principalmente per prevenire le cadute, i residenti contenuti hanno un rischio uguale o addirittura superiore di caduta rispetto ai residenti non contenuti.
Inoltre, le lesioni gravi correlate alle cadute sono più comuni nei residenti sottoposti a contenzione3. D’altro canto, anche le contenzioni chimiche possono portare più danni che benefici, dal momento che proprio le persone più anziane sono particolarmente suscettibili agli eventi avversi correlati all’assunzione di antipsicotici, benzodiazepine e antidepressivi, tra cui cadute, sedazione eccessiva, ictus e morte. L’utilizzo di farmaci psicotropi si è anche dimostrato correlato a una minore qualità di vita auto-riferita dai residenti4.
Vivere la contenzione
Sempre a proposito del vissuto delle persone sottoposte a contenzione, se in grado di esprimere il proprio giudizio rispetto a tale esperienza, molte di loro riferiscono che, dal punto di vista psicologico, hanno esperito un’alterazione dell’autostima e del senso di sé, oltre a essersi sentiti discriminati, “matti” e “cattivi”, vulnerabili e incerti. La contenzione, inoltre, è stata vissuta spesso come una punizione, piuttosto che come un trattamento necessario, soprattutto quando non sono stati consultati e informati a sufficienza relativamente alle procedure di restrizione, alla loro durata, e a quel che sarebbe successo successivamente.
Per alcuni pazienti, inoltre, l’esperienza della contenzione fisica è stata vissuta come un vero e proprio trauma con effetti psicologici significativi e duraturi che includevano sentimenti di dubbio (per quanto fosse realmente successo) e sensi di colpa5.
Nonostante queste evidenze certamente non a favore dell’utilizzo delle contenzioni e corroborate dalla letteratura scientifica degli ultimi decenni grazie alla recente attenzione ricevuta dal tema della qualità dell’assistenza agli anziani nelle strutture residenziali, sappiamo che l’uso delle contenzioni fisiche e farmacologiche è ancora molto diffuso nel mondo. Sebbene non sia per niente facile quantificare questo “molto” in maniera sistematica, dati ritenuti validi ed esaustivi raccolti una decina di anni fa riportavano una prevalenza delle contenzioni fisiche nelle case di cura europee compresa tra il 26% e il 56% (le discrepanze che emergono da questo tipo di dati derivano, tra gli altri, dal fatto che alcuni studi, a differenza di altri, includevano le sponde del letto come forma di contenzione fisica6).
La contenzione nel mondo… e in Italia?
Uno studio molto più recente7 basato su una metanalisi (ovvero su una tecnica statistica che permette di combinare i dati di più studi condotti su uno stesso argomento, per generare un unico dato conclusivo che risponda a un quesito specifico) che ha preso in considerazione 57 pubblicazioni scientifiche internazionali sul tema, riporta una prevalenza globale dell’uso di qualsiasi forma di contenzione fisica o chimica rispettivamente nel 33% e nel 32% dei residenti (stime discretamente attendibili se consideriamo che molti degli studi analizzati sono stati condotti su campioni di grandi dimensioni, se pur con metodologie di raccolta dati piuttosto eterogenee). Naturalmente, le percentuali non sono uguali in tutto il mondo, ma dipendono molto dalle differenze culturali e dai contesti politici e sociali che caratterizzano le diverse aree geografiche. Per esempio, la percentuale di contenzioni risulta significativamente ridotta negli Stati del Nord America, in Germania, dove è stata adottata una politica di contenzione minima come standard di cura, in Gran Bretagna, che ha prodotto delle importanti linee guida per ridurre l’uso di contenzioni, in Giappone, che garantisce un’assistenza senza contenzioni grazie agli sforzi dei singoli leader operanti nel settore sanitario, e in Australia, che ha adottato standard di assistenza agli anziani per ridurre al minimo l’uso di pratiche restrittive, comprese le restrizioni fisiche e chimiche8.
E in Italia? In realtà sappiamo molto poco dei reali numeri relativi all’utilizzo delle contenzioni nel nostro Paese, dal momento che il fenomeno risulta ancora piuttosto sommerso e che i dati “ufficiali” sono molto scarsi anche se, ormai da tempo, l’autorità del Garante nazionale delle persone private della libertà – perché la contenzione degli anziani così si configura, dal punto di vista etico e deontologico – ha da tempo avviato un monitoraggio delle residenze per persone con disabilità o anziani ove si possa configurare, appunto, il rischio di privazione della libertà de facto.
Tuttavia, la complessità del sistema sanitario nazionale e le differenti normative che regolano le diverse Regioni rendono tale monitoraggio, ancora oggi, decisamente complesso. E così, i pochi dati che abbiamo a disposizione sono solo quelli che ci vengono forniti da uno studio condotto nel 20109 che ha coinvolto i tre collegi della Federazione nazionale degli ordini degli infermieri Ipasvi di Aosta, Brescia e Milano-Lodi-Monza e Brianza. Tali dati rivelano una prevalenza della contenzione fisica del 15,8% su 2.808 degenti ricoverati nelle unità di chirurgia, geriatria, medicina, ortopedia e terapia intensiva e del 68,7% su 6.690 residenti delle RSA. Sono numeri che si commentano da soli e che, purtroppo, possono avere gravi – anzi, spesso gravissime – ripercussioni non solo sui residenti, come accennato in precedenza, ma anche sul personale sanitario (infermieri in primis) e sui familiari/caregiver.
Gli effetti della contenzione su professionisti e famiglie
Proprio rispetto agli infermieri, una ricerca italiana10 condotta nel 2015 ha mostrato che l’applicazione di contenzioni fisiche genera negli operatori una varietà di emozioni, spesso ambivalenti e conflittuali. Infatti, se da una parte provano rabbia, pena, angoscia, tristezza, imbarazzo, sensazione di prevaricazione, senso di impotenza e fallimento, dall’altra esprimono sollievo e tranquillità nel sapere che il paziente è “al sicuro”.
Per alcuni, poi, applicare la restrizione è un intervento come qualunque altro; per altri, contenere un paziente non può in nessun modo portare sentimenti positivi in chi lo assiste perché, di fatto, implica l’idea di dover legare un’altra persona, e ciò non può dare alcun piacere.
Comune è anche l’immedesimazione con il paziente contenuto, soprattutto in termini di proiezione futura di sé11. Da questi dati qualitativi emerge chiaramente un’eterogeneità nel vissuto degli infermieri presumibilmente derivante sia dai diversi contesti organizzativi e conoscitivi che caratterizzano l’utilizzo delle contenzioni nelle diverse realtà cliniche, sia dalle differenze individuali non colmate da una adeguata preparazione in materia.
Non ultimo, l’utilizzo delle contenzioni può avere un effetto negativo sui familiari/caregiver dell’assistito per due ragioni principali.
Prima di tutto, può far perdere fiducia nella struttura: il caregiver che trova il residente legato o sedato potrà esperire un sentimento di disagio e di dolore, accompagnato dalla sensazione che la struttura preferisca utilizzare la strada “facile” della contenzione, piuttosto che occuparsi con la dovuta dedizione e attenzione alla persona bisognosa di cure.
Dall’altra parte, in una accezione molto più negativa, il caregiver potrebbe considerare questo metodo come “il metodo” per eccellenza, in quanto usato dai professionisti sanitari stessi, da utilizzare quando il paziente mostra agitazione psicomotoria o nervosismo, impedendo riflessioni più costruttive su quali potrebbero essere le strategie alternative per affrontare la situazione in modo diverso. Strategie che devono partire da riflessioni profonde sull’identità del paziente anziano, soprattutto quando vive con demenza.
Il materialismo che sempre di più ci circonda, associato alla perdita di valori profondi, infatti, convince molti che l’unica cosa importante sia soddisfare i bisogni materiali del paziente: farlo mangiare, idratarlo adeguatamente, provvedere alla sua igiene fisica, garantirgli un numero sufficiente di ore di sonno ed evitare che si faccia male.
Questo è ciò che viene fatto in molte strutture per anziani (ed è chiaro, alla luce di questo, perché le contenzioni fisiche e farmacologiche giochino un ruolo ancora così rilevante).
Trovi qui la seconda parte dell’articolo: Contenzione e demenza.
1 Bleijlevens, M. H., Wagner, L. M., Capezuti, E., Hamers, J. P., & International Physical Restraint, W. (2016). Physical Restraints: Consensus of a Research Definition Using a Modified Delphi Technique. J Am Geriatr Soc, 64(11), 2307-2310.
2 Gruneir, A. et al., (2008). Is dementia special care really special? A new look at an old question. J Am Geriatr Soc, 56(2), 199-205. Lam, K. et al., (2017). Factors Associated With the Trend of Physical and Chemical Restraint Use Among Long-Term Care Facility Residents in Hong Kong: Data From an 11-Year Observational Study. J Am Med Dir Assoc, 18(12), 1043-1048. Chiba, Y. Et al., (2012). A national survey of the use of physical restraint in long-term care hospitals in Japan. J Clin Nurs, 21(9-10), 1314-1326.
3 Berzlanovich, A. M. et al., (2012). Deaths due to physical restraint. Dtsch. Arztebl. Int., 109(3), 27-32.
4 Peisah, C., Skladzien, E. (2014). The use of restraints and psychotrpic medications in people with dementia. Juola, A. L. et al., (2016). Burden of Potentially Harmful Medications and the Association With Quality of Life and Mortality Among Institutionalized Older People. J Am Med Dir Assoc, 17(3), 276 e279-214.
5 Kontio, R. et al., (2012). Seclusion and restraint in psychiatry: patients’ experiences and practical suggestions on how to improve practices and use alternatives. Perspect Psychiatr Care, 48(1), 16-24. Lanthen, K. et al., (2015). Psychiatric Patients Experiences with Mechanical Restraints: An Interview Study. Psychiatry J, 2015, 748392. Ling, S. et al., (2015). Understanding Mental Health Service User Experiences of Restraint Through Debriefing: A Qualitative Analysis. Can J Psychiatry, 60(9), 386-392. Sibitz, I. et al., (2011). Impact of coercive measures on life stories: qualitative study. Br J Psychiatry, 199(3), 239-244. Soininen, P. et al., (2013). Does experienced seclusion or restraint affect psychiatric patients’ subjective quality of life at discharge? Int J Ment Health Syst, 7(1), 28. Larue, C. et al., (2013). The experience of seclusion and restraint in psychiatric settings: perspectives of patients. Issues Ment Health Nurs, 34(5), 317-324.
6 Meyer, G. et al., (2009). Restraint use among nursing home residents: cross-sectional study and prospective cohort study. J Clin Nurs, 18(7), 981-990. Huizing, A. R et al., (2007). Organisational determinants of the use of physical restraints: a multilevel approach. Soc Sci Med, 65(5), 924-933. D. Evans et al., (2002). A review of physical restraint minimization in the acute and residential care settings. J Adv Nurs, 40(6), 616-625.
7 Lee, D. A et al., (2021). Prevalence and variability in use of physical and chemical restraints in residential aged care facilities: A systematic review and meta-analysis. Int J Nurs Stud, 117, 103856.
8 Services, C. f. M. M. (2009). Release of Report – Freedom from Unnecessary Physical Restraints: Two Decades of National Progress. Abraham, J. et al., (2019). Implementation of a multicomponent intervention to prevent physical restraints in nursing homes (IMPRINT): A pragmatic cluster randomized controlled trial. Int J Nurs Stud, 96, 27-34. John, B. (1997). The use of restraint in the care of elderly patients. Br J Nurs, 6(9), 504-508. Akamine, Y. (2008). The movement of physical restraint-free care for the elderly in Japan and Japanese culture. Nursing and Health Sciences, 2(2), 79-81. Commission, A. C. Q. a. S. (2020).
9 Zanetti, E., Castaldo, A., Miceli, R. et al., (2012). L’utilizzo della contenzione fisica negli ospedali e nelle residenze sanitarie assistenziali: indagine multicentrica di prevalenza. L’infermiere, 49(2), e29-e32.
10 Castaldo, A. et al., (2015). Il ricorso alla contenzione fisica: che cosa pensano e vivono gli infermieri? Uno studio qualitativo. L’infermiere, 4.
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