Marisa Marchetti, residente presso la RSA Apsp Vannetti Rovereto (TN), è un’attenta lettrice e, tramite Annalisa Marchetti (non sono parenti, ma è la responsabile formazione e qualità della RSA), ci ha fatto sapere di volerci incontrare, incuriosita soprattutto dall’annuncio dell’uscita del libro “La RSA che vorrei”. Elisabetta Canton e Franco Iurlaro l’hanno raggiunta a Rovereto, trascorrendo un bel momento assieme a lei, chiacchierando a lungo di vita, relazioni e organizzazione delle residenze per anziani.
Franco Iurlaro propone qui un’interessante sintesi del loro incontro.
Non ci chiamiamo ospiti ma residenti
Una mia caratteristica è sempre stata quella di impegnarmi “un pochino” nelle cose; una volta arrivata qui, in RSA, ho scoperto che esisteva un regolamento che prevede l’elezione di rappresentanti nella Consulta familiari e mi sono resa disponibile. Questo gruppo ha il mandato di lavoro per un anno: si incontra con la Direzione, sente un po’ le persone, per vedere quali sono le problematiche che emergono all’interno.
La RSA è Azienda Pubblica di Servizi alla Persona, con un organigramma fatto di responsabili, con un dirigente che decide e fa le cose. Azienda che a volte può avere difficolta nei rapporti con gli anziani, con le persone. Io sono arrivata qui per motivi di salute e mi sono detta, rispetto mio marito: adesso tu, cosa fai? Resti a casa, ad Arco, dove ci sono diverse cose da mettere a posto perché purtroppo non si pensa mai alla vecchiaia o vieni con me? Dopo la sua morte sono riuscita ad avere una cameretta singola e ci ho messo dentro una mia poltrona che avevo a casa. Ogni tanto guardo la mia stanza e dico “cavolo, mi sono fatta un nuovo appartamento monolocale perché alla fine io sono qui e pago un affitto!” Però qualcuno dice; “ma non paghi tutto, ne paghi metà, perché interviene il contributo provinciale.” Non è vero, perché anche quelli della Provincia, in fondo, volendo, sono soldi miei, perché sono soldi della gente, sono soldi delle persone.
Quindi sono una residente che paga un affitto, attorno al quale è stata costruita una serie di servizi basati sulle mie esigenze, un “pacchetto” deciso da un’equipe di persone che sono state elette e nominate da diversi organismi o assunte dall’APSP come professionisti socio sanitari.
Mi sono domandata: mi chiamano ospite, ma io non sono ospite di nessuno, sono una residente, come tutte le persone che vivono qui, con le quali ci siamo fatti un nostro apparato per aiutarci, per darci una mano a passare questi che saranno gli ultimi anni della nostra vita, pochi o tanti che siano.
Chi tra noi (siamo oltre trecento) ha ancora, diciamo la facoltà, la capacità di ragionare con un cervello, innanzitutto si ferma a ragionare, a chiacchierare con quelli più in difficoltà e ci ritroviamo, come delegati di nucleo, nella Consulta che si rapporta con “i signori dell’organizzazione”.
Ragionando sul nome “Azienda”, che mi evoca un discorso di meccanizzazione di automobili, di lavatrici, di altre cose; ma sull’umano, sulla persona, il concetto azienda suona un po’ male, almeno io lo sento un po’ duro e allo stesso tempo troppo, troppo burocratico.
Trattare con l’azienda per migliorare le condizioni della loro vita di residenti
Una casa dove l’operatrice che ti viene ad accudire fa fatica a starti dietro, perché ha 10 minuti per un ospite, 4 minuti per l’altro, 3 minuti per questo qui, non so fino a che punto si può lavorare così, pensando che questa gestione del tempo abbia dell’umano.
Io posso dire che una mattina in 5 minuti mi posso alzare dal letto, perché ce la faccio ancora – facendomi aiutare, chiaramente, perché devo mettere calze pannoloni e altre cose. Però un’altra mattina invece sono lì che ho “le pigne nella testa” e ci vogliono magari dieci, venti minuti.
Il più delle OSS sono brave, capiscono il caso, altre ti giudicano e magari ti sgridano, si arrabbiano per i ritardi, specie se non stanno bene fisicamente. Per esempio un giorno avevo capito che una di loro – per come si era comportata – aveva qualcos’altro che non andava. Me lo ha rivelato il giorno dopo che aveva mal di testa. E allora io ho capito, poverina, che non ce la faceva.
Però quando tu hai mal di testa – così gli ho detto io – forse è meglio che prendi e via, perché se devi venire nella mia camera o nella camera dell’altra signora e trattarla male, solo perché hai il mal di testa, questo è un altro problema, è meglio farsi sostituire. Bisogna capire come fare queste cose perché anche il personale che ci segue è fatto di persone, e bisogna capirle.
E un delle cose su cui stiamo lavorando in Consulta è che al centro del servizio non c’è solo il residente ma c’è anche chi lavora e quindi bisogna prendersi cura di tutti e due.
Mi ripeto nel dire che io qui sono una residente: alla fine è come vivere in un condominio. Tutti dovremmo essere più attenti e capire che cosa vogliamo, come deve essere la nostra casa. Parlarne con i responsabili, la direzione, dire quali sono le nostre esigenze. Alla scadenza verrà rifatta la Consulta, e volevo chiedere che ci fosse come minimo un rappresentante per piano, perché adesso siamo solo in due, ma è necessaria una rappresentanza più ampia per comprendere l’organizzazione e per capire i bisogni.
Un altro elemento su cui lavorare è la formazione del personale, perché al momento attuale cambia continuamente ed è necessario aggiornarlo e supportarlo. Ancora, abbiamo i piani di lavoro e questi piani incardinano a volte azioni che il personale spontaneamente magari farebbe in altro modo, anche valutando priorità che magari non sono le priorità che sono date dai piani di lavoro, a seconda anche dei residenti e di quello che chiedono in quel momento.
Un discorso va fatto anche per la suddivisione dei residenti nei vari piani: ne abbiamo da 25 persone, numero sicuramente auspicabile, però ce ne sono anche 45, dove diventa difficile collaborare per priorità o comunque individuare quali obiettivi darsi anche per il gruppo di lavoro. Se poi il gruppo si modifica in modo anche un po’ repentino, a maggior ragione è più difficile riuscire a gestire bene i processi di cura. Bisognerebbe riuscire a conciliare le esigenze dei residenti con le esigenze di chi lavora, ma anche con gli aspetti economici e contrattuali. Non è facile, però bisogna provarci, se si rimane sempre sulla stessa strada e non si cambia mai, non si prova, bisogna provare.
Racconti da una RSA che vorrei
Alle volte basterebbe poco per rendere le persone felici, e spesso è solo un problema organizzativo. In struttura non è sempre facile relazionarsi, io stessa faccio fatica a volte a parlare con le persone. Ce ne sono tre o quattro del mio piano di residenza con le quali abbiamo il piacere di stare un attimo a chiacchierare con loro e avevamo il piccolo rito di rimanere a tavola dopo il pranzo.
È cambiata l’organizzazione della mensa, le pulizie sono state affidate a una nuova cooperativa che ci ha imposto di essere tutti fuori dalla sala dopo le 12, finito di mangiare, perché devono essere fatte le pulizie. A quel punto basta con la nostra piacevole abitudine di stare assieme e ci hanno detto “ma perché non andate di là in saletta?”.
A noi non interessava la saletta, avevamo semplicemente voglia di goderci un attimo al tavolo del pranzo. Siamo così diventate, senza volerlo e ci chiamano “il gruppo del corridoio”, perché dopo mangiato, salendo al secondo piano, abbiamo scelto un nuovo spazio informale, libero, di passaggio dove anche altri possono unirsi, prima di rientrare nelle camere.
Ai piani siamo gruppi “mescolati”, per esempio un mezzo reparto di persone che sono in grado di essere con una loro specificità e poi gli altri, quelli invece proprio allettati completi, che hanno più bisogni da soddisfare. È prevista anche l’animazione, che purtroppo ad oggi è un po’ debilitata. A questo punto, se per esempio nella struttura ci fosse una scuola materna potremmo andarci tutti, ci metterebbero lì a guardare i bambini che fanno le loro cose, ci riempirebbero di gioia.
La RSA che vorrei
Verso i Centri Servizi alla persona: la proposta dell’associazione RINATA
di Franco Iurlaro
“Gli autori, numerosi, che hanno collaborato alla realizzazione di questo libro, hanno fatto propria una prospettiva propositiva per uno sguardo verso il futuro, per quello che le nostre strutture possono offrire alle comunità locali negli anni che ci attendono”.
Io mi ricordo una nonna che ha compiuto i 92 anni, ha fatto la festa in sala, gli è arrivata la nipotina di un anno che compiva gli anni l’anno stesso giorno, gliel’hanno messa in braccio. Io l’ho guardata per un attimo, un viso felice, la nonna sembrava che non capisse più nulla, due occhi spalancati sulla bimba davanti, la teneva, le piaceva tenerla con sé.
Mi viene da sorridere quando vedo qualche anziana con in braccio i bambolotti – la cosiddetta terapia della bambola che adesso va di moda – ci si può sentire mamme. E ho pensato che se si vedessero intorno un po’ di bimbetti che magari giocano qua e hanno il loro asilo vicino dove fanno e imparano, magari ridono anche se il nonno gli va’ lì a dire ciao o fa qualcosa. Questa per me è un’altra delle cose che si potrebbero pensare nel progettare il futuro delle RSA, compito che spetta a quelli più giovani.
E un’altra cosa che mi fa specie è come rimettere assieme le diverse generazioni, magari in appartamenti protetti dove poter vivere in comune (il c.d. co-housing): anziani, cinquantenni, quarantenni, bambini e bambine. E ancora collaborare con le scuole, fare qualche stage, superare le difficoltà nel comunicare, attuare attività di scambio apportando qualcosa che aiuti i più giovani a crescere, come i corsi di socialità.
Le strutture per anziani non autosufficienti dovrebbero essere solo un punto di arrivo per chi a casa non ce la fa più. Lo devo dire sinceramente, nessuno si aspetta di arrivarci, è anche il mio punto di vista. Penso che tu possa andare avanti tranquillo con le tue cose, la tua casa, quello che hai fatto, le cose che hai messo in pista; hai voglia di startene nel tuo ambiente.
Nel periodo in cui mio marito è stato molto male mi avevano proposto di collocarlo in un ricovero per malati terminali e io mi sono rifiutata, l’ho portato a finire i suoi giorni a casa. Dove per un periodo è stato meglio, c’è stato anche un fisioterapista che lo ha rimesso in piedi, se vogliamo. Ho notato che alla fine a casa tua ci stai comunque bene, riprendi le tue abitudini e questo vale per tutti noi. Se ci fosse un servizio domiciliare migliore, studiato meglio, efficiente, ognuno potrebbe rimanere a casa sua.
L’alternativa è ricreare la casa nella propria camera della residenza, come ho fatto io. Adesso mi ci ritrovo bene, ma all’inizio sono stata male, malata, ricoverata e poi non conoscevo nessuno. Alla fine così è un cambio di domicilio, perché io qui ci sono venuta ad abitare qui, mi sono portata quattro delle mie robette, il mio vestitino messo con le mie scarpe, la mia roba. A casa sono rimaste un sacco di cose che non posso portarmi qui per mancanza di spazio, però questo e il “mio” monolocale, dove io vivo.
Una comunità di persone
Bisognerebbe riprendere quello spirito comunitario che avevamo, quando eravamo più poveri, quando c’era il bisogno di lottare assieme per ottenere le cose che servivano. Io mi ricordo da bimba la corte di mia nonna, la cosiddetta Corte dove i vicini si incontravano e parlavano, i bambini che uscivano da casa per giocare, chi li guardava non erano la mamma o la nonna, ma la vicina. Nel frattempo però tenevano d’occhio gli anziani, li assistevano, la Corte accudiva tutti i suoi anziani. Conosco alcune realtà analoghe esistenti ancor oggi, potremmo provarci ancora.
Marisa (Marialuisa) Marchetti: una storia di vita, passioni, impegno professionale
Classe ’48, ho percorso la mia vita in malattie, purtroppo, perché ho iniziato all’età di sei anni con una pleurite e poi diverse complicazioni agli arti inferiori. A undici anni l’ortopedia era un disastro e sono finita tra quelli che aggiustavano le ossa, sino all’arrivo di un professore al mio capezzale che si è meravigliato di trovare una ragazzina lasciata a lungo a letto con una fascia che teneva in trazione una gamba, e mi ha curato come si doveva. Poi sono cresciuta con problemi alla schiena ed è arrivata la scoliosi, ma ce l’ho fatta a tirarmene fuori, pur se con due cadute di quelle un po’ tragiche. Però ce l’ho fatta. All’età di 17 anni finisco anche in mano malamente a dei fisioterapisti, che non mi aiutano; però ancora una volta, sistemo tutto e riesco ad uscirne.
Avevo la licenza elementare, mi sono data da fare, ho fatto le medie, segretaria d’azienda e le magistrali. Diventata maestra ho però dovuto trovarmi un altro lavoro, perché la mia famiglia non poteva mantenermi nell’attendere la cattedra o proseguire gli studi, e mi sono presa il lavoro e un diploma di elettricista. Si entrava come apprendisti, si andava a fare il corso, lavorando in un laboratorio dove costruivamo gli amperometri che allora si usavano nelle automobili, e finito il tutto c’era un bel diploma con scritto il proprio nome e la qualifica di elettricista, che ho sempre tenuto con me. Nel tempo ne ho riso con mio marito perché le spine a casa le cambiavo io perché lui non ne era capace.
A seguire sono andata a lavorare in redazione al giornale Famiglia Cristiana; il direttore pubblicava alcune lettere che gli interessavano, le altre che non pubblicava me le dava e riguardavano parecchie persone che chiedevano assistenza, aiuto per i loro problemi, e io me ne occupavo. Così facendo mi ero fatta una catena di informazioni sul sociale e avevo praticamente avuto diversi contatti con i tossicodipendenti, con i malati di mente, con determinate strutture per queste problematiche; ero segreteria di redazione e davo delle indicazioni a questi lettori che scrivevano. All’epoca Famiglia Cristiana aveva lo stabilimento ad Alba in provincia di Cuneo, lì ho visto arrivare il primo computer dove c’erano ancora le vecchie macchine telescriventi. Qualcuno inizio a dirmi che per il lavoro che facevo non avevo un titolo adeguato, allora ho saputo che in Provincia facevano i corsi per assistente sociale, sono andata a farmi i corsi di alfabetizzazione, e a seguire mi sono diplomata. Nel frattempo nasce sul campo la concorrenza con gli psicologi, ma io ho continuato a lavorare come una matta nel mio settore, mentre in Regione non ci riconoscevano il ruolo professionale perché uscivamo da una scuola speciale e non con una laurea universitaria. Allora, assieme ad altre, abbiamo promosso e firmato per la nuova proposta di creare l’Albo professionale delle Assistenti Sociali, base per tutto quello che è venuto dopo, dall’equiparazione del diploma alle nuove lauree del settore.
Contemporaneamente in Famiglia Cristiana era nato un po’ di caos, perché l’Ordine dei Paolini che gestiva il giornale non metteva a posto i contratti di lavoro, allora mi muovo con il sindacato, dandoci da fare perché questi religiosi non ci davano neppure la metà di quanto prevedeva la categoria dei poligrafici. Alla fine abbiamo vinto, e hanno sistemato il contratto, solo che probabilmente qualcuno ha fatto una soffiata dicendo che io c’entravo nella cosa e vengo richiamata dal direttore. Al quale, senza paura, faccio presente che dai Paolini voglio più confidenza e riconoscenza, da cristiani che non possono portare via metà del contratto ai lavoratori; e rimango al mio posto. Anzi, mi hanno dato l’ufficio dei servizi sociali e ho avuto tra l’altro due tossicodipendenti in Famiglia Cristiana da seguire, e una malata di mente. l’Ufficio personale mi chiamò dicendomi: “Guarda, ho dei soggetti di questo tipo, li licenzio?” E no, non puoi farlo, risposi. E me ne occupai. Ho conosciuto e combattuto la droga; ma era la psiche di questi giovani che avevano bisogno di essere aiutati. La droga è un palliativo. Io mi ricordo sempre un ragazzo che ho aiutato, che prendeva psicofarmaci. Ho cercato di farglieli togliere dal medico, chiedendo al ragazzo di raccontarmi come va e cos’ha. Gli ho detto di provare a smettere un attimo. È andato in crisi d’astinenza come un tossico, ma l’ho fatto riprendere pian pianino. Alla fine, dopo che l’abbiamo riuscito a tirarlo quasi fuori dalla dipendenza, l’ospedale di Niguarda lo chiama per fare un controllo e in quell’ambito ha avuto una ricaduta. L’abbiamo ripreso, ce l’abbiamo nuovamente fatta, ce l’ho fatta. E l’ho mandato in pensione: è forse stata la sua salvezza. Lui che non aveva ancora trent’anni ha ottenuto la pensione intera, allora c’era la famosa pensione di invalidità totale. In ospedale gli avevano dato un anno di vita e lui adesso è ancora vivo, appassionato degli sport che gli avevo proposto. E quel ragazzo lì, adesso mi scrive ogni tanto sui social e ci ricambiamo i nostri “Ciao”.
Per la cronaca mi sono fatta anche otto esami di biologia, lungo tutta l’università serale a Milano. All’età di 30 anni volevo addirittura tentare di andare a lavorare all’università per continuare gli studi, ma mi ha sorpassato uno che aveva quattro figli, perché nel momento del bando di concorso ha avuto un maggior punteggio.
Alla fine sono andata in pensione anch’io, perché i poligrafici avevano la possibilità di andarci con 35 anni di contributi, e sono finita sul Lago Maggiore, dove viveva la mamma di mio marito, conosciuto al giornale come linotipista e sindacalista. Un luogo e un periodo molto belli, dove avremmo potuto riposare e basta, ma mio marito era attivo come me e non potevamo stare fermi: ci siamo nuovamente reimpiegati e impegnati.
Sono stata Presidente di una casa di riposo
In un momento abbiamo messo in piedi un centro anziani, dove ho iniziato prima che mi chiedessero di andare a fare la Presidente della casa di riposo. Scoprendo solo dopo che metà della struttura era abusiva e si rischiava la demolizione. Devo ringraziare il Berlusconi dell’epoca che con una legge ha permesso il condono, così alla fine siamo riusciti a trasformarla in una residenza flessibile, non grande, da 40 posti, metà autosufficienti e metà invece non auto. Una casa bellina, che esiste ancora a Menaggio. E ho perfino pensato che sarebbe stato bello fare una casa di riposo con l’asilo a piano terra.
Poi, per motivi famigliari abbiamo cambiato lago e ci siamo trasferiti su quello del Garda, ad Arco, innamorati della nostra nuova casetta, della valle, del Monte Baldo davanti, del fatto che vicino c’era la casa dei miei nonni. Lì abbiamo fatto nascere un’associazione con il coro, passione che mi sono portata dietro qui in RSA e ne sono contenta. Così come posso dire di essere contenta della mia vita, nonostante le difficoltà del passato e quelle fisiche attuali, un lungo periodo in sedia a rotelle, il fatto che dopo che sono arrivata qui per le cure, mio marito è “scappato prima”, volato in cielo.
PERSONE
Eventi e Cultura
Semi di CURA
NEWSLETTER
Esiste un significato profondo nel lavoro di CURA e una ricchezza nascosta in RSA?
La newsletter
«Semi di CURA»
indaga questo e lo racconta ogni ultimo venerdì del mese.
Marisa Marchetti, residente presso la RSA Apsp Vannetti Rovereto (TN), è un’attenta lettrice e, tramite Annalisa Marchetti (non sono parenti, ma è la responsabile formazione e qualità della RSA), ci ha fatto sapere di volerci incontrare, incuriosita soprattutto dall’annuncio dell’uscita del libro “La RSA che vorrei”. Elisabetta Canton e Franco Iurlaro l’hanno raggiunta a Rovereto, trascorrendo un bel momento assieme a lei, chiacchierando a lungo di vita, relazioni e organizzazione delle residenze per anziani.
Franco Iurlaro propone qui un’interessante sintesi del loro incontro.
Non ci chiamiamo ospiti ma residenti
Una mia caratteristica è sempre stata quella di impegnarmi “un pochino” nelle cose; una volta arrivata qui, in RSA, ho scoperto che esisteva un regolamento che prevede l’elezione di rappresentanti nella Consulta familiari e mi sono resa disponibile. Questo gruppo ha il mandato di lavoro per un anno: si incontra con la Direzione, sente un po’ le persone, per vedere quali sono le problematiche che emergono all’interno.
La RSA è Azienda Pubblica di Servizi alla Persona, con un organigramma fatto di responsabili, con un dirigente che decide e fa le cose. Azienda che a volte può avere difficolta nei rapporti con gli anziani, con le persone. Io sono arrivata qui per motivi di salute e mi sono detta, rispetto mio marito: adesso tu, cosa fai? Resti a casa, ad Arco, dove ci sono diverse cose da mettere a posto perché purtroppo non si pensa mai alla vecchiaia o vieni con me? Dopo la sua morte sono riuscita ad avere una cameretta singola e ci ho messo dentro una mia poltrona che avevo a casa. Ogni tanto guardo la mia stanza e dico “cavolo, mi sono fatta un nuovo appartamento monolocale perché alla fine io sono qui e pago un affitto!” Però qualcuno dice; “ma non paghi tutto, ne paghi metà, perché interviene il contributo provinciale.” Non è vero, perché anche quelli della Provincia, in fondo, volendo, sono soldi miei, perché sono soldi della gente, sono soldi delle persone.
Quindi sono una residente che paga un affitto, attorno al quale è stata costruita una serie di servizi basati sulle mie esigenze, un “pacchetto” deciso da un’equipe di persone che sono state elette e nominate da diversi organismi o assunte dall’APSP come professionisti socio sanitari.
Mi sono domandata: mi chiamano ospite, ma io non sono ospite di nessuno, sono una residente, come tutte le persone che vivono qui, con le quali ci siamo fatti un nostro apparato per aiutarci, per darci una mano a passare questi che saranno gli ultimi anni della nostra vita, pochi o tanti che siano.
Chi tra noi (siamo oltre trecento) ha ancora, diciamo la facoltà, la capacità di ragionare con un cervello, innanzitutto si ferma a ragionare, a chiacchierare con quelli più in difficoltà e ci ritroviamo, come delegati di nucleo, nella Consulta che si rapporta con “i signori dell’organizzazione”.
Ragionando sul nome “Azienda”, che mi evoca un discorso di meccanizzazione di automobili, di lavatrici, di altre cose; ma sull’umano, sulla persona, il concetto azienda suona un po’ male, almeno io lo sento un po’ duro e allo stesso tempo troppo, troppo burocratico.
Trattare con l’azienda per migliorare le condizioni della loro vita di residenti
Una casa dove l’operatrice che ti viene ad accudire fa fatica a starti dietro, perché ha 10 minuti per un ospite, 4 minuti per l’altro, 3 minuti per questo qui, non so fino a che punto si può lavorare così, pensando che questa gestione del tempo abbia dell’umano.
Io posso dire che una mattina in 5 minuti mi posso alzare dal letto, perché ce la faccio ancora – facendomi aiutare, chiaramente, perché devo mettere calze pannoloni e altre cose. Però un’altra mattina invece sono lì che ho “le pigne nella testa” e ci vogliono magari dieci, venti minuti.
Il più delle OSS sono brave, capiscono il caso, altre ti giudicano e magari ti sgridano, si arrabbiano per i ritardi, specie se non stanno bene fisicamente. Per esempio un giorno avevo capito che una di loro – per come si era comportata – aveva qualcos’altro che non andava. Me lo ha rivelato il giorno dopo che aveva mal di testa. E allora io ho capito, poverina, che non ce la faceva.
Però quando tu hai mal di testa – così gli ho detto io – forse è meglio che prendi e via, perché se devi venire nella mia camera o nella camera dell’altra signora e trattarla male, solo perché hai il mal di testa, questo è un altro problema, è meglio farsi sostituire. Bisogna capire come fare queste cose perché anche il personale che ci segue è fatto di persone, e bisogna capirle.
E un delle cose su cui stiamo lavorando in Consulta è che al centro del servizio non c’è solo il residente ma c’è anche chi lavora e quindi bisogna prendersi cura di tutti e due.
Mi ripeto nel dire che io qui sono una residente: alla fine è come vivere in un condominio. Tutti dovremmo essere più attenti e capire che cosa vogliamo, come deve essere la nostra casa. Parlarne con i responsabili, la direzione, dire quali sono le nostre esigenze. Alla scadenza verrà rifatta la Consulta, e volevo chiedere che ci fosse come minimo un rappresentante per piano, perché adesso siamo solo in due, ma è necessaria una rappresentanza più ampia per comprendere l’organizzazione e per capire i bisogni.
Un altro elemento su cui lavorare è la formazione del personale, perché al momento attuale cambia continuamente ed è necessario aggiornarlo e supportarlo. Ancora, abbiamo i piani di lavoro e questi piani incardinano a volte azioni che il personale spontaneamente magari farebbe in altro modo, anche valutando priorità che magari non sono le priorità che sono date dai piani di lavoro, a seconda anche dei residenti e di quello che chiedono in quel momento.
Un discorso va fatto anche per la suddivisione dei residenti nei vari piani: ne abbiamo da 25 persone, numero sicuramente auspicabile, però ce ne sono anche 45, dove diventa difficile collaborare per priorità o comunque individuare quali obiettivi darsi anche per il gruppo di lavoro. Se poi il gruppo si modifica in modo anche un po’ repentino, a maggior ragione è più difficile riuscire a gestire bene i processi di cura. Bisognerebbe riuscire a conciliare le esigenze dei residenti con le esigenze di chi lavora, ma anche con gli aspetti economici e contrattuali. Non è facile, però bisogna provarci, se si rimane sempre sulla stessa strada e non si cambia mai, non si prova, bisogna provare.
Racconti da una RSA che vorrei
Alle volte basterebbe poco per rendere le persone felici, e spesso è solo un problema organizzativo. In struttura non è sempre facile relazionarsi, io stessa faccio fatica a volte a parlare con le persone. Ce ne sono tre o quattro del mio piano di residenza con le quali abbiamo il piacere di stare un attimo a chiacchierare con loro e avevamo il piccolo rito di rimanere a tavola dopo il pranzo.
È cambiata l’organizzazione della mensa, le pulizie sono state affidate a una nuova cooperativa che ci ha imposto di essere tutti fuori dalla sala dopo le 12, finito di mangiare, perché devono essere fatte le pulizie. A quel punto basta con la nostra piacevole abitudine di stare assieme e ci hanno detto “ma perché non andate di là in saletta?”.
A noi non interessava la saletta, avevamo semplicemente voglia di goderci un attimo al tavolo del pranzo. Siamo così diventate, senza volerlo e ci chiamano “il gruppo del corridoio”, perché dopo mangiato, salendo al secondo piano, abbiamo scelto un nuovo spazio informale, libero, di passaggio dove anche altri possono unirsi, prima di rientrare nelle camere.
Ai piani siamo gruppi “mescolati”, per esempio un mezzo reparto di persone che sono in grado di essere con una loro specificità e poi gli altri, quelli invece proprio allettati completi, che hanno più bisogni da soddisfare. È prevista anche l’animazione, che purtroppo ad oggi è un po’ debilitata. A questo punto, se per esempio nella struttura ci fosse una scuola materna potremmo andarci tutti, ci metterebbero lì a guardare i bambini che fanno le loro cose, ci riempirebbero di gioia.
La RSA che vorrei
Verso i Centri Servizi alla persona: la proposta dell’associazione RINATA
di Franco Iurlaro
“Gli autori, numerosi, che hanno collaborato alla realizzazione di questo libro, hanno fatto propria una prospettiva propositiva per uno sguardo verso il futuro, per quello che le nostre strutture possono offrire alle comunità locali negli anni che ci attendono”.
Io mi ricordo una nonna che ha compiuto i 92 anni, ha fatto la festa in sala, gli è arrivata la nipotina di un anno che compiva gli anni l’anno stesso giorno, gliel’hanno messa in braccio. Io l’ho guardata per un attimo, un viso felice, la nonna sembrava che non capisse più nulla, due occhi spalancati sulla bimba davanti, la teneva, le piaceva tenerla con sé.
Mi viene da sorridere quando vedo qualche anziana con in braccio i bambolotti – la cosiddetta terapia della bambola che adesso va di moda – ci si può sentire mamme. E ho pensato che se si vedessero intorno un po’ di bimbetti che magari giocano qua e hanno il loro asilo vicino dove fanno e imparano, magari ridono anche se il nonno gli va’ lì a dire ciao o fa qualcosa. Questa per me è un’altra delle cose che si potrebbero pensare nel progettare il futuro delle RSA, compito che spetta a quelli più giovani.
E un’altra cosa che mi fa specie è come rimettere assieme le diverse generazioni, magari in appartamenti protetti dove poter vivere in comune (il c.d. co-housing): anziani, cinquantenni, quarantenni, bambini e bambine. E ancora collaborare con le scuole, fare qualche stage, superare le difficoltà nel comunicare, attuare attività di scambio apportando qualcosa che aiuti i più giovani a crescere, come i corsi di socialità.
Le strutture per anziani non autosufficienti dovrebbero essere solo un punto di arrivo per chi a casa non ce la fa più. Lo devo dire sinceramente, nessuno si aspetta di arrivarci, è anche il mio punto di vista. Penso che tu possa andare avanti tranquillo con le tue cose, la tua casa, quello che hai fatto, le cose che hai messo in pista; hai voglia di startene nel tuo ambiente.
Nel periodo in cui mio marito è stato molto male mi avevano proposto di collocarlo in un ricovero per malati terminali e io mi sono rifiutata, l’ho portato a finire i suoi giorni a casa. Dove per un periodo è stato meglio, c’è stato anche un fisioterapista che lo ha rimesso in piedi, se vogliamo. Ho notato che alla fine a casa tua ci stai comunque bene, riprendi le tue abitudini e questo vale per tutti noi. Se ci fosse un servizio domiciliare migliore, studiato meglio, efficiente, ognuno potrebbe rimanere a casa sua.
L’alternativa è ricreare la casa nella propria camera della residenza, come ho fatto io. Adesso mi ci ritrovo bene, ma all’inizio sono stata male, malata, ricoverata e poi non conoscevo nessuno. Alla fine così è un cambio di domicilio, perché io qui ci sono venuta ad abitare qui, mi sono portata quattro delle mie robette, il mio vestitino messo con le mie scarpe, la mia roba. A casa sono rimaste un sacco di cose che non posso portarmi qui per mancanza di spazio, però questo e il “mio” monolocale, dove io vivo.
Una comunità di persone
Bisognerebbe riprendere quello spirito comunitario che avevamo, quando eravamo più poveri, quando c’era il bisogno di lottare assieme per ottenere le cose che servivano. Io mi ricordo da bimba la corte di mia nonna, la cosiddetta Corte dove i vicini si incontravano e parlavano, i bambini che uscivano da casa per giocare, chi li guardava non erano la mamma o la nonna, ma la vicina. Nel frattempo però tenevano d’occhio gli anziani, li assistevano, la Corte accudiva tutti i suoi anziani. Conosco alcune realtà analoghe esistenti ancor oggi, potremmo provarci ancora.
Marisa (Marialuisa) Marchetti: una storia di vita, passioni, impegno professionale
Classe ’48, ho percorso la mia vita in malattie, purtroppo, perché ho iniziato all’età di sei anni con una pleurite e poi diverse complicazioni agli arti inferiori. A undici anni l’ortopedia era un disastro e sono finita tra quelli che aggiustavano le ossa, sino all’arrivo di un professore al mio capezzale che si è meravigliato di trovare una ragazzina lasciata a lungo a letto con una fascia che teneva in trazione una gamba, e mi ha curato come si doveva. Poi sono cresciuta con problemi alla schiena ed è arrivata la scoliosi, ma ce l’ho fatta a tirarmene fuori, pur se con due cadute di quelle un po’ tragiche. Però ce l’ho fatta. All’età di 17 anni finisco anche in mano malamente a dei fisioterapisti, che non mi aiutano; però ancora una volta, sistemo tutto e riesco ad uscirne.
Avevo la licenza elementare, mi sono data da fare, ho fatto le medie, segretaria d’azienda e le magistrali. Diventata maestra ho però dovuto trovarmi un altro lavoro, perché la mia famiglia non poteva mantenermi nell’attendere la cattedra o proseguire gli studi, e mi sono presa il lavoro e un diploma di elettricista. Si entrava come apprendisti, si andava a fare il corso, lavorando in un laboratorio dove costruivamo gli amperometri che allora si usavano nelle automobili, e finito il tutto c’era un bel diploma con scritto il proprio nome e la qualifica di elettricista, che ho sempre tenuto con me. Nel tempo ne ho riso con mio marito perché le spine a casa le cambiavo io perché lui non ne era capace.
A seguire sono andata a lavorare in redazione al giornale Famiglia Cristiana; il direttore pubblicava alcune lettere che gli interessavano, le altre che non pubblicava me le dava e riguardavano parecchie persone che chiedevano assistenza, aiuto per i loro problemi, e io me ne occupavo. Così facendo mi ero fatta una catena di informazioni sul sociale e avevo praticamente avuto diversi contatti con i tossicodipendenti, con i malati di mente, con determinate strutture per queste problematiche; ero segreteria di redazione e davo delle indicazioni a questi lettori che scrivevano. All’epoca Famiglia Cristiana aveva lo stabilimento ad Alba in provincia di Cuneo, lì ho visto arrivare il primo computer dove c’erano ancora le vecchie macchine telescriventi. Qualcuno inizio a dirmi che per il lavoro che facevo non avevo un titolo adeguato, allora ho saputo che in Provincia facevano i corsi per assistente sociale, sono andata a farmi i corsi di alfabetizzazione, e a seguire mi sono diplomata. Nel frattempo nasce sul campo la concorrenza con gli psicologi, ma io ho continuato a lavorare come una matta nel mio settore, mentre in Regione non ci riconoscevano il ruolo professionale perché uscivamo da una scuola speciale e non con una laurea universitaria. Allora, assieme ad altre, abbiamo promosso e firmato per la nuova proposta di creare l’Albo professionale delle Assistenti Sociali, base per tutto quello che è venuto dopo, dall’equiparazione del diploma alle nuove lauree del settore.
Contemporaneamente in Famiglia Cristiana era nato un po’ di caos, perché l’Ordine dei Paolini che gestiva il giornale non metteva a posto i contratti di lavoro, allora mi muovo con il sindacato, dandoci da fare perché questi religiosi non ci davano neppure la metà di quanto prevedeva la categoria dei poligrafici. Alla fine abbiamo vinto, e hanno sistemato il contratto, solo che probabilmente qualcuno ha fatto una soffiata dicendo che io c’entravo nella cosa e vengo richiamata dal direttore. Al quale, senza paura, faccio presente che dai Paolini voglio più confidenza e riconoscenza, da cristiani che non possono portare via metà del contratto ai lavoratori; e rimango al mio posto. Anzi, mi hanno dato l’ufficio dei servizi sociali e ho avuto tra l’altro due tossicodipendenti in Famiglia Cristiana da seguire, e una malata di mente. l’Ufficio personale mi chiamò dicendomi: “Guarda, ho dei soggetti di questo tipo, li licenzio?” E no, non puoi farlo, risposi. E me ne occupai. Ho conosciuto e combattuto la droga; ma era la psiche di questi giovani che avevano bisogno di essere aiutati. La droga è un palliativo. Io mi ricordo sempre un ragazzo che ho aiutato, che prendeva psicofarmaci. Ho cercato di farglieli togliere dal medico, chiedendo al ragazzo di raccontarmi come va e cos’ha. Gli ho detto di provare a smettere un attimo. È andato in crisi d’astinenza come un tossico, ma l’ho fatto riprendere pian pianino. Alla fine, dopo che l’abbiamo riuscito a tirarlo quasi fuori dalla dipendenza, l’ospedale di Niguarda lo chiama per fare un controllo e in quell’ambito ha avuto una ricaduta. L’abbiamo ripreso, ce l’abbiamo nuovamente fatta, ce l’ho fatta. E l’ho mandato in pensione: è forse stata la sua salvezza. Lui che non aveva ancora trent’anni ha ottenuto la pensione intera, allora c’era la famosa pensione di invalidità totale. In ospedale gli avevano dato un anno di vita e lui adesso è ancora vivo, appassionato degli sport che gli avevo proposto. E quel ragazzo lì, adesso mi scrive ogni tanto sui social e ci ricambiamo i nostri “Ciao”.
Per la cronaca mi sono fatta anche otto esami di biologia, lungo tutta l’università serale a Milano. All’età di 30 anni volevo addirittura tentare di andare a lavorare all’università per continuare gli studi, ma mi ha sorpassato uno che aveva quattro figli, perché nel momento del bando di concorso ha avuto un maggior punteggio.
Alla fine sono andata in pensione anch’io, perché i poligrafici avevano la possibilità di andarci con 35 anni di contributi, e sono finita sul Lago Maggiore, dove viveva la mamma di mio marito, conosciuto al giornale come linotipista e sindacalista. Un luogo e un periodo molto belli, dove avremmo potuto riposare e basta, ma mio marito era attivo come me e non potevamo stare fermi: ci siamo nuovamente reimpiegati e impegnati.
Sono stata Presidente di una casa di riposo
In un momento abbiamo messo in piedi un centro anziani, dove ho iniziato prima che mi chiedessero di andare a fare la Presidente della casa di riposo. Scoprendo solo dopo che metà della struttura era abusiva e si rischiava la demolizione. Devo ringraziare il Berlusconi dell’epoca che con una legge ha permesso il condono, così alla fine siamo riusciti a trasformarla in una residenza flessibile, non grande, da 40 posti, metà autosufficienti e metà invece non auto. Una casa bellina, che esiste ancora a Menaggio. E ho perfino pensato che sarebbe stato bello fare una casa di riposo con l’asilo a piano terra.
Poi, per motivi famigliari abbiamo cambiato lago e ci siamo trasferiti su quello del Garda, ad Arco, innamorati della nostra nuova casetta, della valle, del Monte Baldo davanti, del fatto che vicino c’era la casa dei miei nonni. Lì abbiamo fatto nascere un’associazione con il coro, passione che mi sono portata dietro qui in RSA e ne sono contenta. Così come posso dire di essere contenta della mia vita, nonostante le difficoltà del passato e quelle fisiche attuali, un lungo periodo in sedia a rotelle, il fatto che dopo che sono arrivata qui per le cure, mio marito è “scappato prima”, volato in cielo.