Questo testo, una lettera da una educatrice, racconta la storia di Antonella che ha lavorato come educatrice professionale per quasi trent’anni presso una residenza sociosanitaria del Veneto, svolgendo inoltre incarichi di rappresentante della sicurezza e rappresentante sindacale. La storia parla di una scelta difficile, ma fatta con la coerenza di chi non riconoscendosi più nella mission dell’ente per cui lavora, decide di cambiare strada.


A cura di Franco Iurlaro, giornalista e consulente per il settore sociosanitario.

Premessa

Quella che raccontiamo oggi è la storia di una donna strettamente legata a una propria scelta di valori, dove i desideri e i bisogni delle persone in cura – oltre all’attenzione e alle relazioni con i colleghi di lavoro – rappresentavano la centralità del quotidiano e la definizione degli obiettivi di ogni progettualità. Delusa perché la mission dell’ente cui apparteneva era cambiata, e perché la strada che si stava perseguendo non le apparteneva più, ha deciso di accettare una nuova sfida rigenerandosi e ricollocandosi in quella che per lei era una nuova realtà: un’azienda sanitaria locale. Nella sua lettera aperta, l’educatrice descrive le difficoltà che ha affrontato durante i suoi anni di lavoro, ma anche i momenti gratificanti con le persone anziane non autosufficienti che ha accompagnato nel tratto finale della loro vita. L’autrice riconosce che la sua attuale scelta potrebbe considerarsi una resa, ma allo stesso tempo una decisione presa per cercare nuovi obiettivi e stimoli professionali. Ma prova gratitudine verso persone e gruppi con cui collaborava, che con lei hanno contribuito al servizio di assistenza e cura degli anziani. Concludendo l’autrice ricorda l’impegno collettivo per migliorare la qualità della vita dei residenti e degli operatori della struttura, ma anche le difficoltà nel far valere i diritti dei dipendenti a livello nazionale e aziendale.

Questa storia parla di una donna, un’educatrice professionale che ha svolto i propri ruoli con onestà intellettuale, tenacia e massimo impegno, anche a costo di sacrificare il suo tempo libero e la sua vita familiare. Ho voluto proporre ai lettori le sue riflessioni in quanto le ritengo intime e significative, tali da sollecitare e promuovere non solo la dovuta attenzione al suo vissuto, ma anche di aprire la finestra sul mondo delle RSA, queste sconosciute.

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Tutti i nomi utilizzati sono stati modificati, così come riferimenti e località, per proteggere la privacy di quanti sono citati.

Le parole chiave di questa storia

Le parole chiave di questa storia sono: volontari, anziani, famiglie, cura, lavoro, sindacato, impegno, rivendicazioni, esperienza professionale, delusione, countdown, ripartenza, nuovi obiettivi, resa, sofferenza. Con Countdown si intende conto alla rovescia. Quello di chi è ai blocchi di partenza di una gara sportiva, di chi è sulla pista di lancio, o più semplicemente scandisce i minuti/secondi che lo separano dall’inizio di un nuovo anno. Meno 3, 2, 1 oppure meno 10, 9, 8, e così via. E parte una nuova sfida o una nuova avventura.

La mia storia

Bene, premesso questo, io sono stata ferma ai blocchi di partenza ben 29 anni prima di lanciarmi nella nuova avventura, senza distanziarmi troppo da quanto svolto nel lungo periodo di attesa (va letto permanenza): portare l’esperienza e la professionalità maturate (acquisite) alla RSA San Fedele nell’ambito dei compiti che mi verranno assegnati in una nuova realtà: l’Azienda Sanitaria.

Non è stata una scelta facile la mia, tantomeno fatta a cuor leggero: l’ho maturata quando, mio malgrado e nonostante gli sforzi profusi, mi sono accorta che la mission dell’ente e gli obiettivi che stava perseguendo non mi appartenevano più: né come educatrice professionale, né come rappresentante della sicurezza (RLS), nemmeno come rappresentante sindacale. Attività, queste ultime, svolte fino a poco tempo fa.

La mia esperienza in RSA

Eh sì che credo di poter raccontare un po’ di storia del San Fedele, di avervi fatto parte, nel bene e nel male. Ho passato 29 anni intensi, non sempre facili, tante sono state le difficoltà e i momenti critici che l’ente ha attraversato e che di riflesso hanno investito il personale, quindi anche me; la prospettiva, però, che la situazione potesse migliorare mi ha sempre stimolata a dare il meglio per migliorare le condizioni di vita di chi, da anziano, accedeva alla struttura. Perlomeno fino a ieri, quando mi sono resa conto che non potevo e non volevo condividere le scelte e le decisioni di chi oggi siede nella stanza dei bottoni. Perciò ho deciso di staccare la spina e solo chi conosce i miei trascorsi sa quanto questo taglio col passato mi costi.

Una scelta difficile

Me ne vado con l’amarezza di chi si è sentita tradita nelle aspettative, di chi si stava accorgendo di vivere in un ambiente sempre meno riconoscente e appagante, mi viene da dire quasi ostile, limitativo nella mia libertà di operare, con il rischio di ricavare ricadute negative sulla qualità del mio lavoro.

Per questo ho deciso di guardare fuori dal “guscio” in cui ero racchiusa per cercare nuovi obiettivi e ritrovare nuovi stimoli per una professione che amo troppo e che voglio continuare ad esercitare anche in futuro. Basta delusioni, disillusioni, frustrazioni: ho deciso di scommettere sull’opportunità che il mercato mi offriva e che mi ha consentito di approdare all’azienda sanitaria.

Una resa la mia? Sì, se penso all’impossibilità di cambiare le cose. Sì, se penso a quanto amo il mio lavoro. Sì, se penso all’impegno e la dedizione che ho sempre profuso nei confronti dei residenti. Chi mi conosce sa quanto io abbia cercato di alzare l’asticella delle mie competenze, quanto abbia cercato di elevarmi professionalmente, quanta disponibilità abbia dato ai residenti per alleviare la loro condizione di vivere in una struttura comunque condizionante.

Le persone che ho incontrato

Conservo, nella mente e nel cuore, il ricordo di centinaia di anziani che ho avuto il privilegio di accompagnare nel tratto finale della loro vita, nell’intento e con lo spirito di alleviarne le sofferenze e di attenuare l’ansia e la paura per la separazione dagli ambienti familiari.

Ricordo, per la sua gentilezza e dolcezza, Antonio, incontrato nel 1994, ex falegname in un Teatro prima della sua chiusura; Mario, che, dopo una vita trascorsa tra manicomio e carcere, aveva trovato nel San Fedele una nuova “casa”; le sorelle Paola e Chiara che abitavano a Venezia nel Ghetto ebraico durante la seconda guerra mondiale; Francesco e Angelo, che portavano sulle braccia e nel cuore i segni della loro permanenza nei campi di concentramento; il viso di Ludovico, che per anni ha collaborato con il Servizio Educativo andando fiero del suo incarico; Ernesto e le sue lacrime per essere riuscito ad ottenere la cancellazione dell’interdizione e la nomina dell’amministratore di sostegno, grazie alla caparbietà mia e dell’allora Assistente Sociale e alla sensibilità di un anziano giudice. Era al suo primo viaggio a Venezia per recarsi al Tribunale e finalmente si sentiva “liberato”! finalmente poteva uscire da solo, andare al mercato settimanale il lunedì, recarsi al bar per un caffè.

Ricordo Renato, Etty, Guglielmina, la mitica Nelsa, Augusto scomparso prematuramente per SLA, Mara, donna esile con una fede incrollabile: ha vissuto fino a 100 anni e nel suo libro di preghiere conservava le foto degli anziani deceduti annotandovi dietro il nome per ricordarli ogni giorno nelle sue preghiere mattutine; Silvana e il suo rammentare e raccontare di giovane vedova con tre figli da mantenere che tre giorni alla settimana partiva in bicicletta da un paese nell’entroterra illuminata dalla sola luce della luna per andare a Venezia a vendere le uova fresche alle prostitute, che diceva essere più generose delle signore veneziane. Non posso non menzionare Mario, tuttora collaboratore preziosissimo nelle attività quotidiane.

L’elenco degli anziani di cui ho memoria sarebbe lunghissimo, quasi infinito. Conosco, attraverso il loro racconto, le storie di vita di ognuno e io, senza peccare di presunzione, ho cercato di prendermi cura di loro. Credo profondamente nella cultura della cura, nella centralità della persona e dei suoi bisogni, negli interventi personalizzati perché ogni essere umano in quanto tale è unico e si differenzia uno dall’altro.

Gli anni della pandemia

Rivivo gli anni della pandemia. Anni particolarmente difficili che assieme a molti altri colleghi abbiamo cercato di gestire nel miglior modo possibile. Non sempre siamo riusciti a scongiurare aggravamenti e lutti. Fra tutti voglio ricordare Maria Sole, la prima vittima di Covid nonostante avesse tanta energia e voglia di vivere; oppure Pasqua: ero insieme a lei quando con il tablet in videochiamata ha salutato per l’ultima volta i figli. Una tragedia nel dramma di una pandemia che non dava tregua!

Mi vengono in mente le giornate senza orario. Sapevi quando entravi, ma non sapevi a che ora saresti uscito. Rammento il 31 dicembre 2020, Capodanno. L’orario di uscita era fissato alle ore 14,00 e alle ore 19,00 ero ancora impegnata nella gestione delle visite alla finestra. Mi vengono in mente le figlie di Emma: avrebbero visto la madre per l’ultima volta.

I volti di questi anziani indifesi li ho portati a casa con me; ho pianto per loro, sotto la doccia, in qualche notte insonne, ho inveito contro un destino crudele che colpiva i più deboli, i più fragili. L’impotenza sembrava prevalere sugli sforzi che mettevamo in campo mentre percepivamo l’ansia e le preoccupazioni dei familiari che non potevano entrare per vedere i loro cari, mentre per gli anziani residenti eravamo diventati noi la loro famiglia.

Sono altresì convinta, durante questa tragica fase durata oltre due anni, di aver dato, nel mio piccolo, un contributo alla prosecuzione della vita all’interno delle residenze. Di aver contribuito a tranquillizzare gli anziani e a mantenere un clima il più possibile sereno e rassicurante. Ci sono riuscita? Spero di sì; una cosa è certa, non mi sono mai arresa e non mi sono mai avvilita di fronte ai loro occhi in cerca di rassicurazioni. La mia fortuna e quella di altri colleghi, quelli che hanno condiviso, magari anche a malincuore, le direttive che venivano impartite per contenere il diffondersi del virus, è stata quella di avere avuto alla guida un capitano competente, preparato, caparbio, disponibile, pratico, magari intransigente e in alcuni casi suscettibile, ma sempre in prima linea. E se un grazie lo dobbiamo a chi si è speso in prima persona, ritengo debba andare a chi all’epoca vestiva i panni del Direttore.

Grazie a chi contribuisce a dare vita agli anni degli anziani

Non solo, senza peccare di presuntuosità, vado fiera del contributo che anch’io ho dato e ciò mi riempie di orgoglio. Come sono sempre stata orgogliosa del mio lavoro!

Non posso non ringraziare i volontari delle Associazioni, che ho avuto l’onore di coordinare per tanti anni; fra tutti Serena, Isabella, Matteo, Gaia, Federica Maria, Silvia, Alice e gli altri 50, più o meno, che hanno prestato la loro opera al servizio della struttura. E non me ne vogliate se non vi cito tutti! Siete anche voi nei miei pensieri. Siete stati e continuate a essere così preziosi perché con il vostro servizio contribuite a dare “vita agli anni” degli anziani accolti in struttura.

Un grazie va ai gruppi musicali che si sono avvicendati nell’accompagnare e nell’allietare residenti e familiari con le loro musiche; in particolare Alessandro e la sua Band, Davide…

Tra le persone care non posso non citare padre Paolo che ha un posto speciale nel mio cuore: mi ha insegnato la tenerezza verso chi è più fragile. Come oggi non posso che essere grata a don Marco, sacerdote dal cuore d’oro! Grazie per come mi avete sostenuta spiritualmente.

Grazie ai familiari di tanti anziani per la fiducia che mi hanno accordato. Il lavoro di cura ci impone di includere le famiglie che ci affidano i loro cari; conoscere la famiglia ci permette di personalizzare la cura; un familiare quando esce dal cancello della residenza deve avere la certezza che il loro padre, la loro madre, il loro congiunto è in buone mani. La pandemia ha consentito di rafforzare questi rapporti, perché attraverso le videochiamate e/o le visite protette, mi ha fatto incontrare anche familiari che prima non conoscevo.

Negli anni trascorsi a cavallo con il nuovo secolo ricordo il patto condiviso con le famiglie per migliorare la qualità di vita ai residenti: le manifestazioni in piazza, in consiglio comunale, di lavoratori, anziani, familiari, volontari, per ottenere una sedia doccia, un bagno attrezzato, l’organizzazione del lavoro per piccoli nuclei, spazi più confortevoli, la rimozione delle barriere architettoniche…

Ebbene posso dire con orgoglio che io c’ero, come tanti colleghi; tutti uniti da un forte desiderio di cambiamento.

https://www.rivistacura.it/essere-oss/

Gli anni di rappresentanza sindacale e RLS

Provo lo stesso orgoglio per il lungo periodo in cui ho ricoperto il ruolo di rappresentante sindacale e di rappresentante dei lavoratori per la sicurezza. Nel primo caso in carica fino a oggi, nel secondo fino a quasi un anno fa. In entrambi i casi operando sempre in funzione di tutela delle lavoratrici e dei lavoratori. Ruoli che reputo di aver ricoperto con onestà intellettuale, tenacia e massimo impegno, spesso anche togliendo spazio alla famiglia e al mio tempo libero.

Ho cercato, magari non sempre ci sono riuscita, di contemperare le richieste del personale con le esigenze dei residenti al San Fedele: agevolare e migliorare le condizioni di lavoro e di vita dei dipendenti e degli ospiti; riconoscere il ruolo, l’impegno e lo sforzo di chi, operatore o professionista, si adopera in funzione della qualità di vita di chi è accolto in struttura. Tutelare e sostenere un trattamento equo e dignitoso al personale, che ogni giorno assiste persone fragili e bisognose di assistenza e conforto, sono sempre stati il cardine, la base, il punto centrale del mio impegno in entrambi i campi.

Devo dire, però, non sempre del tutto compresi, con tutte le limitazioni che ciò comporta nelle rivendicazioni, anche contrattuali e salariali. Devo dire che nemmeno il contratto nazionale ha aiutato, e ancor meno accordi aziendali che, anziché unire i lavoratori, li ha divisi e ha frustrato ulteriormente il riconoscimento del loro operato.

Amaramente devo anche ammettere che le legittime rivendicazioni dei dipendenti del San Fedele, e non solo, non hanno avuto il giusto riscontro: a livello nazionale in sede di rinnovo del contratto di lavoro dove nulla è cambiato, tantomeno a livello aziendale. Anzi, nel secondo caso, sono state assunte decisioni, con il consenso di buona parte dei rappresentanti sindacali territoriali, che hanno ampliato le disparità: se a livello nazionale riscontriamo una disuguaglianza tra dipendenti della sanità e quelli degli enti locali, a livello aziendale la rileviamo tra operatori e/o professionisti che erano inquadrati nella medesima categoria.

Il mancato coraggio di operare alcune scelte di coerenza ha, dal mio punto di vista, accresciuto il disagio tra i dipendenti e alimentato il distacco da chi li rappresenta, segnando un costante e progressivo disinteresse a ogni iniziativa sindacale e raffreddamento nei confronti di chi dovrebbe rappresentarli. Situazioni a cui altri dovranno porvi rimedio visto l’esaurirsi del poco tempo che ho ancora a disposizione.

L’impegno nella formazione e l’inizio di una nuova esperienza lavorativa

Un ultimo aspetto che non posso trascurare: il tentativo di denigrare il mio operato, screditandomi professionalmente. Alla mia età, 56 anni e a ridosso della pensione (sei anni per mettermi a riposo se non cambiano le regole), ho comunque deciso di “rimettermi in gioco”, di misurarmi con un’altra realtà, abbastanza simile se vogliamo, comunque nuova e tutta da esplorare; almeno per me.

Per raggiungere questo traguardo ho studiato, mi sono preparata come meglio potevo sacrificando non tempi di lavoro, ma personali o togliendone ai miei cari, ho superato brillantemente (posso dirlo senza ipocrisia) il concorso indetto dall’Azienda Sanitaria e dal 20 febbraio inizia per me una nuova vita e una nuova esperienza professionale: non più con persone anziane, ma pur sempre con persone che presentano fragilità. Devo anche svelare che sono un po’ preoccupata di questa nuova esperienza in cui mi cimenterò; per questo mi sto ulteriormente preparando, consapevole, però, che darò sempre il meglio di me.

Chiudo questa mia lettera con un abbraccio, per ora virtuale (in seguito lo farò di persona), ai tanti colleghi con cui ho lavorato e condiviso momenti di vita al San Fedele in questi anni: un saluto particolare e un ringraziamento speciale vanno alla mia responsabile Ludovica alla mia amica Sofia, a Simona, Sara, Ludovica, Gabriele, Asia, Viola e Valentina a quanti altri mi hanno accompagnato in questa lunga avventura.

A Bernardo e ai tanti che hanno avuto fiducia in me, che hanno condiviso idee e suggerimenti, che hanno contribuito all’elaborazione e introduzione di nuove idee e progetti, che si sono posti l’obiettivo di realizzare, perché ci credono e la sostengono, una “organizzazione che si prende cura”.
Grazie per avermi supportato.

Non so, e lo dico con altrettanta franchezza, se analogo ringraziamento posso rivolgerlo a chi, oggi, amministra e governa l’ente. Negli anni della mia permanenza in struttura sono passata per diversi amministratori, molti di loro sensibili e disponibili nei confronti degli ospiti e dei lavoratori, altri che pensavano di imporre la condivisione attraverso il rigore e le direttive, quasi mai confrontandosi con chi vive sul campo le difficoltà e i problemi; altri ancora che hanno fatto prevalere il loro tratto distintivo, politico e valoriale, rispetto al ruolo loro assegnato. Il vero impulso allo sviluppo dell’ente l’ho visto e vissuto, perlomeno io, quando la reggenza è stata in mano all’amministrazione a guida Benedetti / Pascolo.

Non so se posso dire altrettanto con il cambio di compagine governativa dell’ente. Nell’attuale amministrazione intravedo – per carità è il mio pensiero – una visione autoreferenziale nel governo e nella gestione dei problemi. Poco incline al dialogo quando vengono posti i problemi che invece lo richiederebbero. Colgo nelle scelte operate, ma spero di sbagliarmi, interventi regressivi di riorganizzazione dei rapporti interni, altrettanto negativi per il disconoscimento del buon lavoro prodotto di chi si è speso per l’ente negli ultimi anni.

Mi auguro, questo sì, da spettatrice, di assistere a un cambio di passo. Ritengo che sia indispensabile e ineludibile, per ciò che io ho vissuto in questo ultimo periodo, un cambiamento nel governo e nella gestione dell’ente, consapevoli, però, che il cambiamento non è neutro: può essere progressivo o regressivo. Progressivo se l’ente decide di avvalersi dell’apporto di tutti, regressivo se si dovesse continuare con una delegittimazione delle posizioni e delle proposte che vengono avanzate. Le riunioni, gli incontri, il confronto hanno un senso e producono effetti positivi se vi è una vera discussione, altrimenti rischiano di essere soltanto dei monologhi che chiudono qualsiasi canale della comunicazione tra le parti.

Concludo ringraziando chi avrà la pazienza di leggere questa mia lunga lettera; altrettanto ringrazio e mi scuso con coloro che non ho citato e nell’augurarvi “BUONA VITA”, colgo l’occasione per ricordare Egle recentemente scomparsa: donna forte e caparbia che ha sempre saputo cogliere l’essenza della vita! Perché i cosiddetti “vecchi” non sono figli di un dio minore.

Con profonda riconoscenza.
Entroterra veneziano, 13 febbraio 2023 Antonella, educatrice.

About the Author: Franco Iurlaro

Giornalista e consulente per il settore sociosanitario

La storia di Antonella, educatrice di una RSA del veneto, e della sua scelta di cambiare strada. Scelta difficile ma dettata dalla coerenza ai propri valori.

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