Le comunità sociosanitarie hanno subito un colpo molto duro durante la pandemia: nell’intervista che segue ci vengono raccontate da dentro, attraverso la voce di un direttore di RSA che ha voluto salvare i ricordi più difficili dall’oblio e li ha trasformati in una storia densa di emozioni

Andrea, tu sei direttore di una RSA ligure e autore del libro “Reduci” che uscirà per i tipi di Editrice Dapero il prossimo aprile. Nel tuo libro compare spesso la parola comunità: è un termine che per te ha cambiato significato prima e dopo la pandemia? Come si sviluppa il senso di comunità nel mondo sociosanitario?

Le RSA sono luoghi dove si condivide una quotidianità ed è sempre stato così, prima e dopo il Covid. “Comunità” è il punto di vivibilità delle strutture, l’anello di congiunzione fra le cure sanitarie e il modello di vita. Per come la intendo io, la parola comunità ha mantenuto il suo significato sia prima sia dopo la pandemia. “Comunità” era e rimane il contesto nel quale si sviluppa l’assistenza dei nostri cari di ieri, oggi e domani: una condivisione continua degli spazi, del vissuto giornaliero con gli altri residenti o con gli operatori del settore.

Metaforicamente per me la comunità è la rappresentazione di un abbraccio: abbracciamo il nostro ospite nel suo percorso, abbracciamo la sua famiglia, ci abbracciamo come operatori per darci sostegno.

Nel tuo libro “Reduci” assumi il punto di vista del direttore-narratore che poco vuole soffermarsi sugli aspetti tecnici ma molto su quelli emotivi. È una cosa rara da direttore: come mai nella tua narrazione hai voluto privilegiare questo aspetto mettendo in secondo piano quello manageriale?

Perché il lavoro di direttore è un mestiere che non può prescindere da una base emotiva che è quella che ti permette di cogliere giornalmente i punti focali della gestione e dello sviluppo. Non è possibile adottare una tecnica gestionale senza questa base di partenza, perché non ci sarebbero punti di analisi correttamente contestualizzati.
Se non hai la sensibilità di vedere i problemi, per me non esistono i calcoli, quelli si possono fare dopo. Senza la guida emotiva non è possibile fare questo mestiere correttamente, non è possibile nemmeno costruire una comunità.

Nel mio libro è presente qualche accenno rispetto agli aspetti vissuti in qualità di gestore che si è trovato in difficoltà rispetto alle linee guida istituzionali ecc., ma non ho voluto approfondire più di un tanto questi aspetti per non rischiare di ricadere in una narrazione che fosse la ricerca di un colpevole.

Su questo aspetto, credo che gli errori avvenuti siano errori di contesto generale. Secondo me andava valorizzata la forza delle persone che c’erano in quel momento e che, davanti al nulla, allo sconosciuto, di fronte alla “trincea” andavano tutti i giorni a lavoro, certi che sarebbe successo qualcosa o che avrebbero dovuto gestire situazioni difficili, senza sapere quali, né tantomeno con quali risorse.

Ogni giorno cambiavano le procedure, le metodologie e dunque, rispetto a quanto affrontato, credo che queste persone meritino qualcosa di diverso, qualche riconoscimento in più.

Con “Reduci” hai provato a dare voce a tutti i professionisti che hanno continuato, anche durante le difficoltà, a svolgere il loro lavoro con amore e passione e che sono stati scarsamente riconosciuti dal mondo pubblico e mediatico, è a loro che dedichi questo testo?

Assolutamente sì, in primis a loro come operatori del settore che hanno messo a rischio la loro vita e anche, in alcuni casi, quella dei propri familiari, che hanno lavorato senza sosta al limite del possibile, dispensando cure e amore per i propri degenti e anche per le famiglie degli ospiti.


Sono state persone che non hai mai mollato. Spesso chiedevo loro: “Come stai? È tutto apposto? Ce la fai? Domani riesci a coprire il turno?” e mi sentivo rispondere: “Non ti preoccupare, io ci sono”.

Ecco, questo secondo me ha un valore importante. Si parla di persone che non hanno visto i figli per settimane, che sono rimaste in struttura, che hanno continuato a lavorare anche avendo le famiglie a carico, che dovevano proteggere e tranquillizzare allo stesso tempo. Vedere queste persone in quelle fasi di buio continuare a garantire un servizio, per me è stato di grande insegnamento.

Io, per mia parte, anche vedendo la loro risposta, ho fatto una scelta: quella di esserci. Ho deciso che non avrei mai recriminato a me stesso una mancanza, che ci sarei stato anche fisicamente, in mezzo a loro.

Ho scelto di non relegarmi dietro a un monitor, ogni tanto ho passato il tempo aiutando con azioni pratiche. Questo è stato importante e ha fatto molto squadra. Si dice che il comandante della nave sia l’ultimo che la deve abbandonare ed è questo quello che ho fatto.

Non c’è bisogno di essere eroi, ma essere presenti sì. E poi, come fai a chiedere alle persone di rimanere se sei il primo ad andartene? Non sarebbe stato in piedi e comunque non sarebbe stato un bell’esempio. Invece, la scelta di restare con loro sempre ha sortito l’effetto di rafforzare lo spirito di squadra di tutta l’équipe di cura e ha contribuito a ricreare la comunità.

Quali obiettivi volevi raggiungere scrivendo questo testo e consegnandolo alla comunità di lettori?

La prima cosa era rappresentare il triste vissuto di una gestione pandemica proprio nel suo momento più terribile. Volevo narrare il suo arrivo e la totale assenza di conoscenza su come affrontare la pandemia, una condizione che ho vissuto sulla mia pelle ma che è stata simile, se non uguale, per moltissime realtà del nostro settore sociosanitario.

Con il mio libro volevo far capire agli esterni quanto sia stato duro, audace e anche temerario riuscire a non farsi abbattere pur riportando segni indelebili su ognuno di noi.

Devo dire anche che questo libro è nato anche per salvare me stesso. È nato la sera, quando mi mettevo a letto, quando prendevo il computer e mi mettevo a raccontare quello che avevo vissuto nella mia giornata. Se ci penso mi commuovo ancora adesso, perché avevo bisogno di dire a me stesso di quel che stava succedendo. Non volevo perdere e dimenticare quello che avevo vissuto e sentivo la necessità di fissarlo nella memoria.

In seconda battuta l’ho scritto per i familiari e, come ho detto, in generale per il mondo esterno. Io mi rendo conto di aver scritto proprio inserendomi in un contesto mediatico di un certo tipo. La mia idea era quella di dire: a voi che sentite parlare di questi ambienti, che leggete di gestioni disastrose, voglio raccontare come sono andate le cose.

Questo non vuol dire affermare che sia andato tutto perfettamente, ma che qui dentro, dentro le nostre RSA, ci sono persone fantastiche che hanno bisogno di uno spazio di riconoscimento.

Come è stato il rapporto coi familiari?

Il loro modo di interagire ha avuto uno sviluppo. Sono stati per noi gioie e dolori. Il problema grosso è stato all’inizio, quando ci siamo trovati di fronte al distacco forzato. In quel caso è avvenuto qualcosa di forte, che non ha precedenti storici. Lì si è spezzata quella “comunità” di cui parlavamo all’inizio, perché il familiare è parte di vita della struttura e della sua gestione.

La premessa è che quando accogli la persona anziana, accogli nello stesso tempo la sua famiglia. È ovvio che una famiglia ha la possibilità di dialogare, di constatare i bisogni del proprio caro, di soddisfare l’esigenza di contatto, e ha anche la possibilità di verificare l’appropriatezza delle cure.

Tutto questo è venuto meno improvvisamente. C’è stato chi ha reagito con comprensione, chi ha accusato il colpo duramente. Questo voler colmare il distacco forzato è stato, sulle prime, un problema enorme per la struttura, perché tutti volevano notizie, contatti telefonici, spiegazioni. Tutti volevano tutto e subito. Lo scrivo anche nel libro:

“se il covid ha portato fame d’aria, noi avevamo fame di tempo”,

perché in quella situazione, al di là della difficile gestione delle difficoltà e degli sforzi immani, ciò che mancava di più era il tempo, anche quello per star dietro alle richieste.

Un paragrafo del tuo libro si intitola “Facciamo pace”. Qui inviti professionisti e familiari alla comprensione reciproca delle azioni messe in atto durante la pandemia. La mancanza di fiducia che spesso ha contraddistinto questo rapporto che motivazioni ha per te? Si può costruire un reale sentimento di fiducia? Come?

Sì, il mio invito deriva dal fatto che io stesso ho letto il comportamento dei familiari in modo diverso. Dapprima, quando siamo stati colpiti dal covid – proprio quando abbiamo visto spezzarsi la comunità – pensavamo che la pandemia finisse presto, c’era un caos tremendo, ma avevamo la percezione che la crisi fosse limitata nel tempo. Quindi lì per lì non ci siamo comportati nei confronti dei familiari come se non avessero visto i propri cari per molto tempo.

In seconda battuta però poi tutto è cambiato: è stato il tempo stesso che mi ha fatto cambiare prospettiva e capire che quella sarebbe stata una situazione molto lunga e complicata da vivere.

Quindi, se da una parte le richieste dei familiari erano difficili da soddisfare, cambiata la prospettiva e riportato il vissuto dei familiari su un arco temporale spostato nel tempo, tutto ha assunto un significato completamente diverso.

Ho ripensato meglio e analizzato quel comportamento cercando di capire quale dolore ci potesse essere alla base in un distacco così marcatamente forzato tra figli e genitori, senza più quella trasparenza di gestione anche fisica tramite le visite in struttura. Credo sia stato un dolore enorme per tutti, indipendentemente da chi possa essere riuscito a gestirlo meglio.

Da lì ho cercato di capire di più i familiari sotto tutti i profili, specialmente quello emotivo, e questo mi ha aiutato. Poi le persone, man mano, hanno capito che si potevano fidare di più di noi, perché rispetto all’inizio dove avanzavano pretese, hanno iniziato ad apprezzare quello che facevamo, ovvero il fatto che fossimo sempre in piedi, sempre trasparenti, che non ci fermassimo mai, che rischiassimo anche noi la nostra salute, che fossimo disposti a spiegare tutto quello che stava succedendo.

Quindi a quel punto anche loro hanno cominciato a comportarsi diversamente, a capire che le persone qui dentro la struttura stavano facendo davvero tanto. Poi se ci chiediamo: il sistema poteva fare di più? Ci volevano più aiuti? Sicuramente, ma questa è tutta un’altra partita. La “comunità” di cui parlavamo ha iniziato a ricucirsi dall’interno e a capirsi meglio.


Bisogna capire profondamente cosa significa vedere per due anni la propria mamma attraverso un tablet, quindi, al di là di tutto, i familiari credo che meritino una comprensione profonda.


Questa responsabilità insieme alla trasparenza e alla volontà di fare, ha creato un collante fra le due parti: ci siamo guardati vicendevolmente e abbiamo abbandonato le visioni pregiudiziali. Io settimanalmente facevo dei video per spiegare la situazione a tutti i familiari, anche questo faceva presa sul senso di protezione che hanno percepito da parte nostra e sul nostro senso di disponibilità. Questo è stato il ricucirsi della comunità.

Le strutture per anziani sono state, come sai, oggetto di una comunicazione negativa se non denigrante negli scorsi due anni. È stata tutta colpa dei giornali a tuo avviso, o ci sono responsabilità interne al nostro settore a cui dovremmo guardare?

Credo che la modalità con cui si fa notizia – la ricerca della tempestività, della descrizione degli eventi – non abbia tenuto conto della straordinarietà dell’evento della pandemia collegato a questo particolare settore. Questo sicuramente non ha aiutato l’immagine delle RSA.

L’apparato giornalistico – che ha certe logiche su come vengono ricercate e trasmesse le news, come l’arrivare primi, il sintetizzare il più possibile, il cercare titoli ad effetto – non ha tenuto conto della nicchia, del nostro settore sociosanitario.

Se per esempio faccio un video e lo trasmetto ai familiari, lo faccio per essere trasparente e lo faccio secondo certi tempi e certe modalità (spiego cosa succede in modo discorsivo). Ma se scrivo un trafiletto su un giornale in modo frettoloso e pungente, questo causa agitazione, perché spesso non è una notizia interna e non ricostruisce quasi mai il contesto della struttura e anche del territorio.


Poi penso che si siano dati dei numeri senza fare un’analisi corretta che li spiegasse. Credo che sia stato sbagliata un po’ l’assenza di ricostruzione di quel che stava accadendo nelle strutture e si sia finito per dare vita a una gara al macabro.

Tuttavia, alla base di ciò, credo sia necessario riconoscere un aspetto: le persone non sapevano cosa fosse una RSA. Non conoscevano quel mondo lì, un mondo che ha tanti difetti, che è ben lontano dall’essere perfetto ma che però ha un’importanza elevata e che gode di una professionalità alta e sempre in crescita. Quindi andare a mettere dei numeri su strutture che hanno fatto il massimo, secondo me aveva poco senso.

Sicuramente non tutte le strutture hanno agito allo stesso modo, ci sono state quelle più avvedute, più competenti e quelle meno pronte. Credo in generale che un po’ di danno sia stato fatto. Ma credo che la cosa migliore che oggi si possa fare è mettere tutti l’impegno giusto per dare valore e riconoscimento a questi mestieri così tanto utili e di valore sociale.


Sull’argomento della trattazione giornalistica delle RSA si veda l’articolo su rivista CURA online: Le RSA sui giornali: titolo per titolo, la superficialità di un racconto che non si fa domande.


Nelle ultime parti del libro fai un riferimento alla deriva a cui il nostro settore è andato incontro durante la pandemia per mano delle scelte politiche. Da cosa dipende questa scarsa attenzione del mondo istituzionale e cosa si dovrebbe fare per mutarla?

Bisogna prendere sempre più coscienza del fatto che questo settore, oltre ad occuparsi delle persone dando loro cura, fa la sua parte nella tenuta sociale. Oggi sappiamo che è difficile lasciare le persone nei propri domicili e dunque dietro la scelta della residenzialità c’è un mondo che io chiamo, appunto, di “tenuta sociale”.

Senza l’intervento della residenzialità come potrebbero fare le famiglie? Da sole non potrebbero sostenere l’impegno di accudimento. Inoltre, con “tenuta sociale” mi riferisco anche all’economia che questo settore crea, alla creazione dei posti di lavoro. Accudire le persone, quindi, vuol dire anche dare una mano all’indotto sociale nel suo complesso.

Credo che le dimensioni del settore non fossero ben comprese. Io nel libro scrivo di quando sono andato al San Martino per ricevere l’esito dei tamponi e la persona di riferimento mi ha detto “non pensavo ci fossero così tante strutture nel territorio”.

Forse non ci rendiamo conto di quante persone lavorino dentro le RSA. Quindi credo che per la tenuta economica e sociale e per il bisogno a cui rispondiamo, il mondo politico-istituzionale debba avere maggiore attenzione nei riguardi del settore sociosanitario.

L’altro problema è quello del personale. Si è visto un impoverimento del personale a vantaggio del sistema sanitario. Però bisogna essere consapevoli che va bene potenziale il sistema pubblico sanitario, ma non possiamo dimenticarci che questo personale ha lasciato scoperto il nostro settore.

A quel punto non si può chiedere ai gestori di realizzare compiti impossibili con un personale così ridotto. Bisogna quindi, al di là delle soluzioni di comodo nell’immediato, porre l’attenzione sul fatto, per esempio, che nelle strutture manchino infermieri. Le persone da curare ci sono sempre. Questo ha fatto emergere come la programmazione di questo settore sia stata completamente sbagliata.

Credo che bisogni dare la possibilità ai gruppi provati di investire, però bisogna dare una speranza. Credo che ci vogliano forti investimenti, con una buona programmazione, nel breve, medio e lungo periodo e credo che si debba porre maggiore accento al controllo e al rilevamento della qualità. Quella vera pero.

Come deve essere, a tuo avviso la “rinascita” del settore dell’assistenza anziani? Cosa dovrebbe essere diverso dal passato e come vedi questo settore in futuro?

Le strutture non solo hanno dato prova di essere capaci di resistere ma anche di imparare e migliorarsi pure in specializzazioni e prassi a loro normalmente non attribuite. Questo settore dovrà essere capace nelle sue forme private imprenditoriali di generare filiere assistenziali con setting assistenziali diversi e di prosecuzione della gestione del paziente sempre più contestualizzate nel servizio al territorio.

Le strutture hanno dato prova di sapersi migliorare in tutti gli aspetti. Le RSA sono cresciute dopo la difficoltà. Adesso dovrebbero essere capaci di integrarsi col territorio. Dovrebbero essere capaci di intercettare bisogni multipli, di creare una filiera di servizi, di accompagnare le persone in un percorso.


Credo che però la rinascita sia quella di quella della sua rivalorizzazione del suo complesso, a partire dell’immagine che sarà in grado di offrire di sé.

“Reduci: quando il Covid entro in RSA”, un libro di Andrea Benelli in uscita il prossimo aprile per Editrice Dapero.

Andrea Benelli è attualmente direttore di RSA per il Gruppo Zaffiro, Segretario ANASTE, autore per Editrice Dapero. All’epoca della scrittura del libro “Reduci” prestava servizio come direttore in un’altra struttura del territorio ligure.


In anteprima la copertina del libro “Reduci“di Andrea Benelli. Vuoi prenotarne una copia? Scrivi a info@rivistacura.it


About the Author: Editrice Dapero

Casa Editrice Indipendente per una cultura condivisa nel settore dell’assistenza agli anziani.

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