L’operatore sociosanitario è più di un semplice professionista: è una persona che prende coscienza della propria attitudine alla cura dell’altro e che la nutre con competenza e professionalità. Nell’articolo che segue abbiamo intervistato Carmen, una OSS che ci ha raccontato cosa l’ha portata a questa scelta.


Intervista a cura di Paola Mulazzi

Notte. In mezzo a una stradina di periferia c’è una bicicletta a terra. Sul marciapiede è seduto un anziano sovrappeso. Stordito, sporco di sangue e terriccio, è circondato da un capannello di persone. Qualcuno ha già chiamato l’ambulanza, qualcuno gli parla, c’è voglia di aiutare. Nessuno, però, supera quella specie di bolla, invisibile ma invalicabile, che circonda l’uomo. Dopo un po’ arriva una ragazza.

Lei sola supera il confine invisibile della bolla. Tira fuori dalla borsa fazzoletti di carta, pulisce il viso e le mani dell’uomo, gli parla con dolcezza e rispetto. L’anziano sembra meno stordito. A lei risponde, la ringrazia, le fa proposte oscene e sgradevoli. Lei ride, continua a pulirgli le mani, lo tranquillizza.

Alla comparsa dell’ambulanza, l’anziano si agita, fa movimenti scomposti, strepita. Lei lo rassicura e lo convince di lasciarsi portare all’ospedale, tranquillamente. Quella ragazza, Carmen, sta preparando gli esami finali del corso per diventare operatore sociosanitario.

Hai imparato al corso la capacità di intervenire in modo efficiente, rapido ed efficace?


Non credo. Non mi era mai capitato di soccorrere qualcuno per strada, nemmeno in casa. Non esseri umani, almeno. Ho soccorso spesso gattini. Sono cresciuta con una zia che non può vederne uno in difficoltà senza occuparsi di lui. Li raccoglie, li fa curare e li fa adottare.

Durante il soccorso non sei indietreggiata nemmeno di fronte alle proposte oscene. Non hai mai avuto paura?


Forse per un secondo quando ci siamo trovati faccia a faccia. Ma non era un tipo aggressivo e sapevo che a parlare era tutto l’alcool che aveva in corpo. A dire il vero le proposte oscene non me le ricordo neanche. Io vedevo solo un uomo che aveva bisogno di aiuto. Nelle situazioni di crisi divento lucida e provvedo.

Quando a casa ci è arrivata la telefonata del medico con la diagnosi di tumore per mia zia, qualcuno si è pietrificato, qualcuno ha cercato di minimizzare. Io sono diventata lucida. Le dicevo la verità, pianificavo gli step da affrontare insieme, cercavo di dire le cose com’erano nel modo più positivo possibile.

Come hai deciso di diventare operatore sociosanitario (OSS)?


Dopo le superiori ho fatto il test per professioni infermieristiche. Mi sono classificata tra le riserve. Pensavo di dover aspettare una chiamata. Avrei dovuto chiamare io. Così ho cominciato a lavorare in un altro settore, e dopo cinque anni ho dovuto smettere per il lockdown. Da sola nella mia stanza, ho avuto il tempo per pensare e capire dove volevo andare. Alla fine mi sono iscritta al corso per operatore sociosanitario senza sapere con precisione a cosa andavo incontro.

Ormai il tuo periodo di studi è alla fine. Cambieresti qualcosa del percorso didattico?


Sarebbe utile più integrazione e coerenza tra i corsi. Mi spiego: se a ottobre parliamo di stomie, affrontiamole contemporaneamente in tutte le materie. Non ha senso approfondire la parte di igiene e quella di anatomia a distanza di mesi.

Al corso per operatore sociosanitario sei stata preparata alla morte delle persone di cui ti occupi?


Gli insegnati hanno provato a preparaci. Ci hanno spiegato, ci hanno avvertiti, hanno insistito. Ma finché non ti succede, non sei pronto. La mia prima volta, durante uno stage in struttura, è andata male. Mi stavo infilando i guanti, una collega mi chiede una mano. La seguo. Entriamo nella camera della signora Elena, l’avevo pettinata quella mattina. La vedevo tutti i giorni, mi ci ero affezionata parecchio anche se la comunicazione era difficile perché lei non era più tanto presente.

Comunque la mia collega apre la tendina. La signora Elena era morta. Non lo sapevo, non me lo aspettavo. Vederla così, con un colore completamente diverso da quello che aveva tre ore prima, è stato destabilizzante. Ho cercato di tenere duro fino a sera, ma gli altri ospiti si sono accorti che quel giorno ero diversa. A casa ho potuto piangere. Voglio precisare che la collega non ha alcuna colpa. Ignorava che io non fossi stata informata.

La regola non è non affezionarsi?


Me l’hanno detto in molti, ma non è un modo di proteggersi adatto a me. Voglio concedermi il lusso di affezionarmi e sono pronta a pagarne le conseguenze. Lo so che sarà difficile, l’ho capito bene, ma il problema vero è diventare un’operatore sociosanitario anestetizzato dal troppo dolore che ha visto. Ho lavorato con persone che di fronte alla sofferenza sembravano senz’anima. Senz’anima, non sei d’aiuto. Non voglio indurirmi in quel modo.

Abbiamo affrontato il tema della formazione adeguata sul fine vita proprio su rivista CURA online, nell’articolo scritto da Elisa Mencacci: “Una formazione sul fine vita al tempo del covid

Le colleghe con tanta esperienza sono più dure?


No. Non sempre. Non necessariamente. Dipende dalle singole persone. Anche se ho ancora un sacco da imparare, ho avuto la fortuna di seguire un corso come operatore sociosanitario che mi ha dato parecchi strumenti. Per alcune colleghe, che questa fortuna non l’hanno avuta, servirebbero corsi d’aggiornamento, soprattutto sulla mobilizzazione e sull’umanizzazione.

Ripeto: dipende sempre dal singolo, ma in una struttura ho sentito una vecchia operatrice offendere pesantemente un anziano che si era sporcato. Queste cose non devono succedere. Non è difficile cambiare un pannolone con l’adeguato rispetto.

Ma a parte questo singolo caso, in una struttura ho anche visto colleghe stremate correre come disperate per riuscire a fare l’impossibile con tempi e mezzi inadeguati. Il problema è il solito. Poco personale e fondi insufficienti.

Come ti vedi tra dieci anni?


In sanità, di sicuro. Se riuscirò a organizzarmi, magari riproverò il concorso per professioni infermieristiche, mi piacerebbe stare in pronto soccorso. Oppure continuerò su questa strada come operatore sociosanitario. Qualche che sia la tecnica che applicherò, spero solo di non aver perso l’istinto di prendermi cura degli altri con amore e umanità e la capacità di immedesimarmi.

Sulla pagina facebook di CURA ci siamo occupati di fare chiarezza sull’operatore sociosanitario (OSS) distinguendolo dall’OSA e dall’ASA con cui spesso viene confuso. Qui di seguito il post per la rubrica #Glossariodellacura:

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L’operatore sociosanitario è più di un semplice professionista: è una persona che prende coscienza della propria attitudine alla cura dell’altro e che la nutre con competenza e professionalità. Nell’articolo che segue abbiamo intervistato una OSS che ci ha raccontato cosa l’ha portata a questa scelta.

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