Il tempo nelle RSA non è il tempo che abbiamo vissuto tutti noi: nonostante l’alto tasso di vaccinazione, le strutture continuano a essere chiuse a ogni piè sospinto. Come possiamo oltrepassare questo paradosso e ridare ai nostri vecchi il tempo di relazione coi loro cari che hanno perso?

Il tempo è nemico dell’età

Il tempo che passa non te lo restituisce nessuno.
Questo è un dato di fatto per tutti, ma quando sei vecchio è vero due volte. Il tempo assume un significato diverso a seconda dell’età della vita in cui ci troviamo. Indubbiamente la percezione di aver poco tempo ancora è sensazione quasi sconosciuta ai giovani.


A 30 o a 50 anni è accettabile aspettare, portare pazienza che tutto questo passerà e si tornerà alla socialità di un tempo. Perché sicuramente prima o poi torneremo senza paura ad abbracciarci, a starcene seduti come sardine al tavolino di un bar sovraffollato, ad assaggiare dalla forchetta di un amico. La storia delle pandemie insegna che prima o poi passano, ci vuole tempo. Oltre che coscienza e responsabilità.



Sfortunatamente però il tempo è nemico dell’età. Più sei vecchio e più quel “porta pazienza, passerà” ti disturba, perché se pazienza ne hai anche tanta, è il tempo che ti manca. Prima o poi torneremo a scambiare le bottiglie di birra ad un concerto, ma il nonno che oggi vive in struttura ci sarà ancora?

Scusatemi la durezza, ma è un tema difficile da edulcolorare: “Chi me li ridà i due anni che ho passato lontana dai miei nipoti, dottoressa?”

Un isolamento senza fine: le chiusure paradosso delle RSA

E il tempo nelle RSA? Potremmo chiudere gli occhi e pescare una RSA a caso lungo tutto lo stivale. Qualsiasi scegliamo, troveremo decine di vecchi che da due anni a questa parte hanno perso quasi completamente i contatti diretti con il mondo esterno, senza possibilità di scelta.

Con un tasso di vaccinazione che sfiora il 100%, nelle RSA di tutta Italia gli anziani e i loro familiari hanno dimostrato di avere coscienza e responsabilità da vendere. Eppure sono tra quelli che stanno pagando il prezzo più alto in questa pandemia.


Ad ogni recrudescenza di contagi le RSA sono le prime a chiudere i battenti, già poco aperti anche nelle finestre di respiro che questo virus ci ha dato. Siamo in una situazione paradossale. Si può continuare a sciare, ad andare al ristorante, a visitare un museo, ad assistere ad una partita di calcio, ma non si possono visitare i vecchi. O meglio, si può farlo, ma con una fila di limitazioni che avvilisce gli anziani, scontenta i familiari e mette in difficoltà gli operatori, promossi a secondini loro malgrado.

Sul tema, Giorgio Pavan, direttore dell’ISRAA di Treviso, ha affermato: «Le case di riposo non devono diventare delle carceri». L’articolo apparso sulla Tribuna di Treviso dove si è escogitato un metodo per garantire ai figli non vaccinati di visitare gli anziani.


Due anni fa a quest’ora gli alpini cantavano la stella nella mia struttura girando di camera in camera e i piccoli dell’asilo vicino venivano a fare gli auguri ai nonni, recintando la poesia imparata per l’occasione. Due anni fa la maggior parte dei nostri anziani andava a casa a festeggiare il Natale, chi non poteva farlo riceveva visite su visite. I pochi senza affetti erano coccolati dal personale, dispiaciuto e stranito davanti ad un anziano lasciato solo il giorno di Natale.


In due anni è diventato quasi normale ciò che prima avremmo definito inconcepibile: tenere lontani gli anziani dai loro cari. La motivazione è ovvia e nobile: li dobbiamo proteggere. Così il tempo nelle RSA è rimasto sospeso. Abbiamo visto abbastanza morti da prendere le misure contro il covid molto seriamente nelle case di cura. Sappiamo che più il virus circola più il rischio si alza per chi è fragile, pur vaccinato. E nelle RSA è la fiera della fragilità.


E così nei posti in cui il tasso di vaccinazione è più alto che in qualsiasi altro luogo, dove il distanziamento sociale è imperativo da due anni, proprio lì, nel tentativo di proteggere i più fragili, si abbattono le conseguenze di comportamenti sconsiderati e credenze antiscientifiche altrui. Che paradosso. E che amarezza.

“Non se ne può più di questo covid! Basta! lasciateci vivere…”.

La pandemia ha impattato sul lato psicologico e affettivo in modo notevole sugli anziani in RSA, specialmente nei casi di persone con demenza. Su rivista CURA abbiamo approfondito il tema nell’articolo “L’impatto della pandemia sulle persone con demenza: lo stress di una quotidianità stravolta


Dalla protezione degli anziani al controllo ligio sugli ingressi: operatori o carcerieri?

L’ho sentito dire qualche giorno fa in un bar. Penso che sia lo stesso pensiero di tutti i “miei” vecchi, gli stessi che aspettano pazienti di poter vedere i loro cari nella mezz’ora settimanale di visita. Uno alla volta, vietato l’accesso ai minori, mascherine solo ffp2, attenzione al contatto fisico. Il ruolo di carceriere è quanto di più lontano da quel che immaginavo fosse il compito di un operatore in struttura sanitaria.

È una veste che pesa addosso. Non riusciamo ad abituarci nemmeno noi operatori. Questo isolamento forzato, questo allontanamento dei vecchi dalla vita sociale, fuori le mura delle RSA, era uno dei mali che combattevamo con maggior vigore prima del Covid. Oggi è diventato un alleato, nostro malgrado.

Mentre l’Italia riparte le RSA restano ai box di partenza


Ma intanto il tempo nelle RSA passa, si consuma lontano dai nipoti che crescono, dai compleanni, dagli eventi di famiglia raccontati a posteriori, con fotografie e videochiamate che non colmano nemmeno lontanamente il bisogno di vicinanza e socialità che al tramonto della vita è più forte che mai.


I contagi nelle RSA hanno riempito i giornali nelle prime ondate, le morti hanno generato cordoglio unanime. Si è parlato tanto e a lungo dei vecchi soli nei primi tempi.
E adesso? Chi ne parla ancora? I vecchi sono sempre lì. E, di nuovo, il tempo nelle RSA resta vuoto.


Mentre l’Italia riparte, le RSA restano ferme ai box di partenza. Roccaforti chiuse, con i soldati di vedetta sulle torrette e dame e cortigiani alla finestra, tutti in attesa. Aspettiamo che il Covid passi, chiedendoci dopo aver fatto la nostra parte, se altrettanto stanno facendo tutti gli altri.

Ricordiamoci dei vecchi nelle RSA


Anche se non si parla di nostra madre, o di nostro padre, dei nostri nonni, dei nostri cari…davvero non ci riguarda? Possiamo come società continuare ad ignorare il mare di solitudine in cui affogano centinaia di migliaia di vecchi dietro alle finestre delle strutture?


Davanti alla consapevolezza che dall’agire di ognuno di noi dipende il destino degli altri,
davanti alla certezza che le uniche armi contro questo virus sono responsabilità e coscienza,
davanti all’evidenza che la scienza resta l’unica strada, pur impervia e faticosa, per sconfiggerlo, se ancora avessimo dei dubbi sull’importanza di fare la nostra parte, ricordiamoci dei vecchi nelle RSA.


È anche dalle scelte di chi sta fuori dalle strutture dipende la serenità di chi vive all’interno. E delle loro famiglie.

About the Author: Sara Sabbadin

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Ex caregiver e psicologa perfezionata in counseling psicologico; Fa parte del team dei narratorə di CURA.

Il tempo nelle RSA non è il tempo che abbiamo vissuto tutti noi: nonostante l’alto tasso di vaccinazione, le strutture continuano a essere chiuse a ogni piè sospinto. Come possiamo oltrepassare questo paradosso e ridare ai nostri vecchi il tempo di relazione coi loro cari che hanno perso?

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