Il terapista occupazionale in RSA è una figura spesso non capita. “Terapista come?”, si sente spesso chiedere dai colleghi. In questo racconto di Valentina Pirola emergono caratteristiche e vissuti di una professione a contatto con gli anziani dove oltre i ruoli ci sono le persone.

Il terapista occupazionale in RSA: una premessa

Dicono che scrivere sia terapeutico e io ci credo. Ho iniziato a scrivere in un momento in cui apparentemente mi si è accorciato il tempo. Mamma bis da poco, giro per la casa con mio figlio in braccio nelle caldi notti insonni mentre le parole mi scorrono davanti e nella testa come un rullo, non riesco a fermarle.

Sono lontana dalla mia realtà lavorativa da circa un anno, forse è questa lontananza che mi porta a scrivere di ciò che mi manca, e i ricordi riaffiorano sempre di più.

Ho sempre amato le parole e la loro forza, negli anni con la formazione ho imparato ad usarle, spesso bene, spesso un po’ meno nel percorso di cura. Ma anche quando non le usiamo bene, i nostri nonni (li chiamerò così) sono talmente saggi che ci perdonano, sempre. Le parole dette o non dette sono un mezzo potente.

Qualcuno tempo fa mi disse: “lo scrivono tutti un libro, perché non lo scrivi anche tu?”
Bene, scriverò di quello che so fare meglio, il mio lavoro, la terapista occupazionale in RSA.
Ecco, volevo ringraziare quel qualcuno, perché da qualche anno mi aiuta a tirare fuori i miei sogni dal cassetto.

Spero che queste pagine siano fonte di ispirazione per i futuri Terapisti Occupazionali che sceglieranno il mondo dell’anziano per scelta come me, e non per obbligo o ripiego.
Per i colleghi Operatori Sanitari, che a volte fraintendono il mio ruolo, ma senza i quali sarei nulla in un luogo di lavoro.
E per tutti coloro che ruotano a questo fantastico, complicato e a volte magico mondo della Cura, spero di farvi sorridere e magari riflettere.
Per me questi quindici anni di lavoro sono stati un percorso di cura e di gratitudine verso tutti coloro che ho incontrato.

Per approfondire il tema della terapia occupazionale segnaliamo due articoli su rivista CURA, La cura della demenza e La Relazione ai tempi del Covid: un’esperienza clinica di Terapia Occupazionale.

Filastrocche nel Cortile

Destino? Credo anche a questo. Fin da piccola, ho sempre passato del tempo con le persone anziane, con i nonni, con le persone nel mio cortile.
Non mi spaventavano, anzi, mi incuriosivano. Vestiti sempre con tanti abiti pesanti, con le ciabatte sbilenche, a parlare in dialetto seduti sugli sgabelli rovinati dal tempo fuori dalla porta di casa. Adesso che ci ripenso capisco ancora di più la loro saggezza, la lentezza nel vivere, il dedicare il tempo a stare in mezzo alla natura, il seguirne i ritmi. Meditare. Forse l’hanno sempre fatto senza esporsi, naturalmente.

Così mi ritrovo a ridere delle filastrocche e ascoltare i proverbi, ad osservarli.

La mia formazione come terapista occupazionale in RSA parte da studi tecnici ma dopo il quinto anno mi stavano stretti. Ecco che pensi di inseguire il grande sogno. E che fai? Medicina e Chirurgia?
Provi il test, anzi, paghi l’iscrizione d’istinto ma poi ci ragioni un po’ troppo e capisci che iniziare un percorso di studi così lungo senza sapere cosa fare di preciso non va bene per una che ha la mente che vuole sempre organizzare tutto. E così, destino, trovi un volantino fuori dall’Università che parla di questa facoltà nuova, Terapia Occupazionale, leggi, ragioni, provi.

Bam! Entrata!
Sono stati tre anni intensi, formativi, ricchi, culminati con la tesi finale presso un Istituto di Riabilitazione Psichiatrica. Che arricchimento!

E loro sono sempre lì, i vecchietti che mi guardano, sorridono, che spesso non capisco come si comportano, ma dai quali non riesco più a staccarmi.

Non ho dubbi, anche se le competenze acquisite e successive specializzazioni mi potrebbero far lavorare in diversi ambiti della relazione d’aiuto io scelgo loro, i nonni.

Lisa

Esistono emozioni che durano fino all fine? Io credo di sì. Vi racconto di Lisa, la mia nonna materna, la mia preferita. Con lei ho condiviso la mia infanzia, la mia adolescenza e ho conosciuto attraverso i miei occhi l’Alzheimer. Mi ricordo che a fine dell’asilo passavo dalla nonna, mi faceva trovare una rosetta di pane e la mangiavo sempre tutta. Fa niente se buttavo briciole ovunque. Era la rosetta più buona del mondo.


Poi i giochi, il guardarla cucire, sì perché lei era una sarta eccellente ma non lo dava a vedere, accompagnarla nei campi a raccogliere l’erba per i polli, a stare in silenzio. Mi ha insegnato a contare, quante partite a carte! E poi, la vita va avanti, io vado sempre da lei, lei è sempre indaffarata, cucina, legge le riviste, guarda i programmi di Politica, va a Messa.
Poi il nonno ci lascia, in modo brusco, veloce, senza via di scampo e lei perde dodici chili, è spossata, ha perso il riferimento.


La aiutano, nelle faccende, nella spesa e io cosa faccio? Vado da lei a dormire quando posso, per me i sabati sera sono così, dalla nonna. Un po’ di televisione, il calcio e poi i libri del nonno, che con cura lei ha conservato e pare che mostri solo a me.
Si tira tardi a letto, la faccio ridere e raccontare di quando era giovane, cosa faceva in giro in bicicletta e lei mi dice “non ridiamo troppo forte che i vicini ci sentono”.
Poi alla mattina io mi alzavo ma lei non c’era più, era già a lavorare nel pollaio o nell’orto.
Quanto lavoro, quanta fatica, quanta umiltà.


Io sono all’Università, verso la fine, e inizio a studiare l’anziano e l’anziano fragile.
Vedo e lo ammetto che la nonna sta iniziando una discesa, la voglio accompagnare, voglio approfondire. Così, destino, inizio inconsapevolmente ad essere Terapista occupazionale in RSA e caregiver.

La nonna è stata a casa per molti anni, assistita come? Non spetta a me giudicare, so solo che arriva un momento in cui bisogna metter da parte i pregiudizi, la vergogna, il non accettare una realtà che hai sotto agli occhi e decidere di accompagnare il proprio familiare in una struttura.

Sono stati anni intensi e dolorosi più che altro per lei, la vita in RSA, il non riconoscere da tempo le figlie, i problemi al corpo sempre più importanti. Quel corpo nel letto tutto accartocciato, mi viene proprio alla mente questa parola, un corpo stroncato dalla malattia.


Però Lisa c’è sempre stata, fino alla fine, perché la memoria emozionale rimane, e quando la andavo a trovare lei spesso apriva gli occhi solo con me, solo quando la chiamavo per nome, Lisa. E lì, sospese tra quello sguardo con occhi stanchi e che brillavano, capivo che la mia strada era giusta e dovevo proseguire e realizzarmi come terapista occupazionale in RSA.

Terapista come ?

Buona la Prima? Sono stata fortunata. Ho trovato lavoro proprio come terapista occupazione in RSA a pochissimi chilometri da me, e nel corso degli anni questo lo apprezzerò sempre di più soprattutto per la mia vita familiare. Se poi diventa anche la tua seconda casa, direi che è perfetto.
Negli anni, e lo consiglio, mi è sempre piaciuto vedere, visitare, prendere spunto e a volte collaborare con strutture e centri diurni, ma credo che non arrendersi e cercare di migliorare la propria realtà dia una grande soddisfazione come operatore, non importa che lavori una grande città o in un paesino di campagna.

È il primo giorno, sono passate le vacanze natalizie e si parte. Arrivo in RSA e vengo travolta letteralmente dagli addobbi, aiuto!
Primo mito da sfatare: in RSA è tutto asettico e senza colore.Mi accoglie una suora anziana, eh si in struttura ci sono le suore, e noto che ci tiene particolarmente ad accogliermi e farmi vedere quanto sia bella casa sua, si perché l’RSA si chiama Casa Santa Teresa e fa parte dell’Opera Don Guanella, di cui poi scriverò alcune riflessioni.


Mi indica la Chiesa, lo spogliatoio mentre io fatico a seguirla nonostante la struttura sia piccola e accogliente, ho troppe cose per la testa. Entro in spogliatoio (cambierò postazione molte volte nel corso degli anni!) e inizio a sistemare il mio armadietto.
Farò il turno del pomeriggio. Forse ho portato troppe cose? Saranno necessari i libri di anatomia dell’Università? Mah, poi non c’è neanche tanto spazio, li userò? Le scarpe dove le metto?


Sto sistemando la tasca della divisa (come amo le divise con le tasche grosse), posiziono le pene, il bloc notes, qualche caramella, sento la porta che cigola sbattere, il mio primo incontro. “Ciao, finalmente una nuova OSS giovane! Sai, il tuo armadietto era di Francesca, ora è in pensione, beata lei!”
“Ciao, no veramente io sono la nuova Terapista…”
“Oh meglio ancora”– risponde la ragazza – “un aiuto al nostro Fisioterapista”.
Ecco: spiegate sempre chi siete, non sarà facile, ma spiegatelo perché essere terapista occupazionale in RSA a volte è dura.
Non faccio in tempo a provare a continuare il discorso che la ragazza ha già indossato la divisa, lanciato una bottiglietta d’acqua nella borsetta, un pacchetto di mentine e via…volatilizzata.

Esco dallo spogliatoio e passo per forza di cose dalla direzione dove intravedo, sotto le scartoffie, una ragazza mora con un bel rossetto rosso. La segretaria.
Francesca è subito disponibile, mi da del tu, mi spiega alcune nozioni burocratiche, credo che andremo d’accordo, lo sento.


Inizio a spostarmi e arrivo finalmente alla palestra, dove vivrò il mio lavoro per anni, ma poi mi guadagnerò altri spazi!
Sinceramente non sono delusa, cosa dovevo aspettarmi una palestra ipertecnologica con ausili e attrezzi che sono come in vetrina e basta? Certo, un po’ di colore non farebbe male, ma per quello si può rimediare.

Ho sempre cercato, ed è parte del mio carattere, di andare d’accordo con le persone.
Credo non sia segno di buonismo, ma di intelligenza. Non mi piace chi usa il proprio ruolo per imporre, mi piace lavorare in gruppo, anche se la confidenza si può scegliere a chi donarla e a chi no.


Negli anni ho imparato che le maschere non funzionano, i nonni apprezzano la trasparenza, la sincerità, non potrei mai snaturarmi per lavorare in un certo modo, è impossibile.
Nell’ambito professionale di una RSA, avere buoni rapporti con colleghi è fondamentale per creare un clima costruttivo di lavoro, creare progetti, condividerli. Ma soprattutto, come in una famiglia, i nonni percepiscono un clima di tensione, di difficoltà e questo rende tutto più macchinoso da portare avanti.
È faticoso se qualcuno non vuole seguirti, ma la determinazione ripaga sempre.

Nei reparti sono la novità, incontro tutti e sono tutti indaffarati, si presentano, ma non ricorderò subito i loro nomi. I nonni stanno facendo merenda, ci sono i familiari accanto, la Suora sempre pronta alle loro necessità. Fa caldo, il riscaldamento è alto, ho bisogno di aria.
Esco in corridoio e timidamente estraggo il mio taccuino, voglio almeno scrivere qualche nome di anziano che ho incontrato, ma non c’è tempo, bisogna spostarsi nelle camere.


Il mio collega parla, parla, ma io mi guardo intorno, vedo questi grandi poster appesi di paesaggi bellissimi e “attenzione!”, passa un carrello di una infermiera di corsa, incrocio gli sguardi dei colleghi e capisco che c’è qualcosa che non va, qualcosa di brutto.


“Qui è sempre così, nessuno dice niente”, mi dice Pina, arzilla signora sulla carrozzina.
“Di dove sei cara? Non sei di Livraga, vero?”(perché se sei del paese sei in una sorta di serie A dell’assistenza, ma io con il tempo, qualche caffè e chiacchiera di vita, il suo cuore me lo sono conquistato!).
“No, abito qui vicino, è il mio primo giorno.”

Porto sempre in tasca un bloc notes, anzi faccio a gara con una collega a chi ne ha di più, per me è indispensabile. Non per scrivere le consegne vere e proprie, per quelle non bastano due tasche, ma per annotarmi idee, anche bizzarre.
Dai colloqui con le anziane, dalle chiacchiere tra di loro escono le idee. È nata così l’idea delle memory box e di tante altre piccole soddisfazioni nel corso di questi anni che vi racconterò.


Ho sempre avuto il desiderio di accontentarli per quanto possibile, sono sempre alla ricerca di idee per farli stare bene e ho sempre sentito una grande responsabilità perché noi operatori li accompagniamo nel loro percorso finale di vita.

Il pomeriggio scorre veloce, i nonni sono a Messa, fuori c’è una nebbia che non si vede la strada, ma li dentro è tutto acceso, è tutto un mondo. E ormai io ne faccio parte. Sento un fracasso in arrivo dall’ascensore, è il carrello della cena! In men che non si dica le operatrici, come formiche veloci, sistemano gli anziani ai tavoli e si inizia la dispensa.


Io cerco di rendermi utile, non vorrei essere d’impiccio, forse lo sono, ma seguo una signora anziana che mi dice che è una volontaria. Ma come è possibile, lei con il bastone che si prodiga così per gli altri?
Indossa il grembiule e via, parte con i piatti alla velocità della luce, entra ed esce dalle camere dispensando saluti, chiedendo “come stai?”, infondendo forza e coraggio.
In mezz’ora il momento della cena è quasi concluso, quantomeno per le nonne, poi il lavoro per le OSS prosegue.


“C’è della pizza in più, ne vuoi un pezzetto?” Secondo mito da sfatare: in RSA c’è solo la pastina. In realtà si mangia bene!
Guardo l’orologio, mancano pochi minuti allo scadere del turno!
“Ragazze, grazie, io andrei” dico alle operatrici. “Buonasera, a domani”, saluto gli anziani.
Nell’uscire dal reparto incrocio Pina, sta leggendo ma sente i mie passi e mi dice “a domani bella, ci sei vero?”.
Esco in cortile, la nebbia mi riempie il viso e lo raffredda. Non vedo niente, segno sul bloc notes che mi dovrò avvicinare di più alle signore, altrimenti non riusciranno a vedermi bene domani quando le incontrerò di nuovo.

Trovare il mio posto, trovare il mio centro


I giorni passano e sono alle prese con i primi problemi da terapista occupazionale in RSA.
Dove scrivo? Sulla consegna del Fisioterapista o dell’Animatore? Che attività propongo, individuali o a piccoli gruppi?
Ci sono voluti anni di lavoro per trovare il mio centro, il mio equilibrio in modo da apportare all’équipe di lavoro un valido aiuto.


La cosa che amo del ruolo di Terapista Occupazionale in RSA sono le ampie vedute, le prospettive diverse con le quali si affrontano i problemi. Ebbene si, ho ottenuto una mia consegna, dove uso la mia terminologia appresa dai corsi di formazione.


E le attività? Le studio, le programmo con largo anticipo e le provo. I colleghi mi guardano strano, cosa sono tutti gli oggetti in quel cestino che faccio manipolare alla signora? Uscire in cortile a raccogliere dei fiori e metterli in un vaso per abbellire la camera. Ma che terapia è? Dare una posata con l’impugnatura più grande alla signora dell’altro reparto? Mistero, però qualcuno dei colleghi mi chiede in corridoio, e se c’è bisogno dice che mi aiuterà.


Non bisogna focalizzarsi su una attività e la sua riuscita, quante volte non è andata bene la proposta al gruppo o al singolo e quanti fattori possono intralciarne la riuscita.
Lavoriamo con persone, non con scatole, che hanno giornate no, hanno problemi di salute, o di tanto in tanto non si sentono di seguire l’attività.


Scrivere che l’anziano non ha partecipato all’attività non è un fallimento, il fallimento si raggiunge quando diventa normalità scriverlo nella consegna.
Avete fatto quattro chiacchiere con lui? Come si sente in quel periodo? Magari ha solo voglia di essere ascoltato da solo, ha bisogno di più tempo, sta peggiorando la sua attenzione e se ne rende conto e ha vergogna nei rapporti sociali? Il grado di partecipazione ha molte variabili in gioco.


E poi ci sono loro, le nonne super attive. Gli anziani che sentono il rumore della chiave della stanza di Terapia Occupazionale e sono già li vicino con la carrozzina, ci diamo il buongiorno e anche se lo sanno mi chiedono “cosa c’è oggi di bello da fare?”.
La vita in RSA è fatta di routine che danno sicurezza agli anziani, e regole a noi operatori. A dir la verità non mi dispiace la routine.


Martedì è il giorno della ginnastica di gruppo.
Ho preparato la palestra, stamattina avevo più tempo e ho preparato un bel vassoio di caramelle e bicchieri d’acqua, in più un nuovo gioco con i birilli.

Quanto sono competitive le nonne! Quando giocano non si ricordano più dei loro acciacchi, ridono, si arrabbiano se perdono, danno la colpa a me per come organizzo le squadre.
Ma stamattina l’ascensore è rotto e passo una buona mezz’ora ad avvisare tutte che la ginnastica è rimandata a domani.
“Va bene, allora ritorniamo in camera, aspettiamo li il pranzo, almeno con te c’era qualcosa da fare”.

Negli anni ho capito che noi operatori diventiamo un riferimento, un punto fisso, così come tante situazioni e cose della struttura. Le attività, riproposte con cadenza settimanale, l’arrivo delle feste, gli orari, i turni degli operatori addirittura. Cambiare una di queste cose non è una cosa di poco conto, anzi, per loro è fonte di stress.


Ma la fonte di stress più grande è il cambio di camera o l’arrivo di una compagna di camera nuova. Sui compagni di camera potrei scrivere un libro intero, negli anni ho incontrato sconosciute che sono diventate amiche e che si davano talmente forza l’una con l’altra da esser chiamate in coppia, ad altre persone più solitarie, alla ricerca del miraggio, la camera singola.


“Io da questa stanza non mi sposto, questa è casa mia, sono arrivata prima io”. Casa.
Sì, per loro una stanza, pur grande che sia, diventa la loro casa. Io entro sempre chiedendo permesso, perché a casa mia chi entra lo dice. Non è così scontato e spesso fa la differenza.


Ci sono i comodini con le foto ingiallite del marito, i disegni dei nipoti, i cassetti pieni di cose, la maggior parte poco utili, che diventano invece importantissimi per loro. Perché quelle sono le loro cose, i loro fazzoletti, le loro camicie da notte e nessuno ha il diritto di spostarle.
Ci sono poi le borsette, contenitore infinito simile a un mercatino, dove si trovano le cose più bizzarre tranne che un fazzoletto. Ricordo una volta una forchetta “rubata” al pranzo e una dentiera ben avvolta in un fazzoletto di lino.

E quando devo spiegare alle anziane il mio lavoro come terapista occupazionale in RSA dico spesso “io guardo e curo la tua testa e il tuo corpo, con attività che facciamo per farti stare bene”.
E più dai attenzione e cura alla preparazione dell’attività, più il risultato è speciale.

[Il continuo della storia di Valentina Pirola verrà pubblicato venerdì 15 ottobre su rivista CURA]

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