Aducanumab è il primo farmaco approvato dopo quasi vent’anni e soprattutto è l’unico ad agire contro le cause della malattia. Ma c’è anche il rovescio della medaglia: non sembra aver prodotto miglioramenti significativi dal punto di vista clinico. Ecco perché per malati e caregiver potrebbe non cambiare molto rispetto alla situazione di oggi


Una notizia che rischia di destare false speranze, ma che resta comunque un passo avanti così importante da non poter assolutamente essere ignorato. Si tratta dell’approvazione da parte di FDA (Food And Drug Administration), l’ente che regola il commercio dei farmaci negli Stati Uniti, di un nuovo farmaco contro l’Alzheimer: l’aducanumab.

Erano quasi vent’anni che non accadeva. E sì, era un annuncio atteso da milioni di famiglie in tutto il mondo, che devono convivere tutti i giorni con questa malattia. Ma la realtà deve essere chiara: non è stata trovata una cura. Purtroppo. Si tratta piuttosto del primo medicinale che, dopo tanti tentativi infruttuosi, ha mostrato qualche percentuale di successo. Per questo motivo, i caregiver devono essere pronti all’eventualità che l’Aduhelm – questo il nome commerciale del farmaco – non porti nessun cambiamento significativo nelle loro vite e in quelle dei loro cari affetti dalla più diffusa forma di demenza.

Oltre i numeri dell’Alzheimer: le persone

Oggi nel mondo ci sono 6 milioni di persone che hanno ricevuto una diagnosi di Alzheimer. L’Osservatorio demenze dell’Istituto superiore di sanità parla di 600mila pazienti solo in Italia, con 3 milioni di caregiver che si occupano in modo diretto o indiretto della loro assistenza. Tutti questi numeri sono destinati a triplicare entro il 2050, come ha stimato l’Organizzazione mondiale della sanità. Ma queste sono solo cifre.

In foto Alois Alzheimer

Ogni unità che compone quel numero è una persona, le cui capacità cognitive a un certo punto hanno cominciato ad abbandonarla. La memoria ha iniziato a farsi più fragile, i volti dei propri cari non risultavano più così familiari, la propria casa è diventata irriconoscibile, le azioni quotidiane estremamente difficili da compiere.

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Sono 600mila persone che oggi hanno bisogno di aiuto per compiere qualsiasi gesto, anche per mangiare. E attorno a loro ci sono altre persone che hanno visto il proprio caro trasformarsi e diventare sempre più fragile e che hanno dovuto imparare a trovare un equilibrio tra il lavoro ufficiale e quello di caregiver. In questo contesto, la notizia di un nuovo farmaco appare come un’oasi nel deserto.

L’altro volto della malattia: i caregiver

Nel 2019 l’Istituto di ricerca Nextplora, per conto dell’Osservatorio di Reale Mutua sul welfare ha fatto luce su un aspetto della malattia che spesso viene trascurato: l’impatto che ha sulla vita di chi assiste, del caregiver insomma. «Un’attività spesso svolta in maniera informale, che per ben un italiano su tre (30%) ha il suo impatto più forte, provante, e complesso da gestire, sulla sfera psicologica ed emotiva», si legge. E più avanti: «Oltre agli impatti psicologici, per un italiano su quattro (23%) preoccupano le ripercussioni sulle disponibilità economiche derivanti dai costi di cura e assistenza».


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Già nel 2016 il Censis, in collaborazione con l’Associazione italiana malattia di Alzheimer, aveva messo in luce come ogni anno venissero spesi 42 miliardi di euro per le cure sanitarie e l’assistenza ai malati. Il grosso di questa cifra è rappresentato da costi indiretti che, per il 73%, ricadono sulle famiglie.

«L’aspetto più difficile da gestire assistendo un familiare affetto da Alzheimer è il cambiamento irrevocabile nella persona e nella relazione (31%), seguito dal rischio che il paziente possa far male a se stesso o agli altri (20%) e dalla sua regressione psichica (18%)​, che può portare a comportamenti come, tra i più tipici, la frequente tendenza a reiterare domande e gesti (11%) e a stati di agitazione e insonnia (8%)», prosegue la ricerca commissionata da Reale Mutua. L’Alzheimer insomma stravolge la vita sia di chi ne è affetto sia di chi gli è accanto.

Quali terapie esistono oggi

Le terapie contro l’Alzheimer che abbiamo a disposizione oggi hanno tutte lo scopo di agire sui sintomi e rallentarne l’insorgenza. Esistono, ad esempio, gli inibitori dell’acetilcolinesterasi o la mentantina, i quali cercano di prevenire la distruzione di specifici neurotrasmettitori che inviano messaggi da una cellula nervosa a un’altra. Vengono utilizzati per tutte le fasi della malattia, da quella iniziale alle più severe. Ma il massimo che riescono a fare è provare a ridurre il più possibile le manifestazioni più problematiche. Prima o poi la demenza avrà la meglio, come ben sa chi ci è passato.

Accanto ai farmaci, poi, esistono le altrettanto importanti terapie non farmacologiche. «Le maggiori evidenze scientifiche relative a questi interventi riguardano essenzialmente la stimolazione cognitiva (CST) e la terapia occupazionale (TO) ma anche aiuto a domicilio e interventi di formazione per i caregiver, sia di tipo formale (operatori sanitari) sia informale (famigliari), interventi di couseling e gruppi di supporto familiare, i Centri di Incontro/ Meeting Center» ha precisato Andrea Fabbo, geriatra, direttore di struttura complessa Disturbi Cognitivi e Demenze dell’AUSL di Modena, presidente dell’Associazione Italiana Psicogeriatria – sezione Emilia Romagna e membro del gruppo di ricerca europeo INTERDEM, in un articolo su Rivistacura.it.

A mancare del tutto è una cura diretta contro la malattia e non solo a supporto del malato.

La novità dell’aducanumab

Una volta delineato il contesto, è più facile capire perché l’aducanumab rappresenti una novità. E non riguarda solo il fatto che l’ultimo farmaco contro l’Alzheimer era stato approvato nell’ormai lontano 2003. L’aspetto più importante di questo nuovo anticorpo monoclonale è che si è dimostrato in grado di agire contro una tra le diverse cause conosciute della malattia neurodegenerativa.

Può infatti ridurre la formazione di placche amiloidi, che assieme ai grovigli neurofibrillari sono in grado di provocare la morte delle cellule neurali e quindi di “spegnere” una parte di cervello. E siamo così arrivati alla ragione principale per cui l’FDA ha dato il via libera con approvazione accelerata al farmaco prodotto da Biogen.

«Questa è la modalità con cui FDA approva un medicinale pensato per una malattia grave, o che mette in pericolo la vita, e che può produrre benefici terapeutici significativi maggiori a quelli delle altre terapie esistenti – ha spiegato la dottoressa Patrizia Cavazzoni, direttrice del Center for Drug Evaluation and Research dell’ente americano. – Con queste condizioni, di solito, è abbastanza ragionevole presupporre che vi sia anche un beneficio clinico nei pazienti. Su questo punto, però, rimane qualche dubbio».

I dubbi sull’efficacia clinica

I dubbi di cui parla Cavazzoni sono sorti a diversi esperti e sono anche la ragione per cui bisogna usare cautela nel veicolare questa notizia. Nel 2019 la Biogen aveva interrotto i test perché l’aducanumab era apparso come l’ennesimo buco nell’acqua: tra il gruppo che lo assumeva e quello che aveva ricevuto un placebo non erano emersi miglioramenti significativi.

Una successiva revisione dei dati, però, aveva evidenziato come nei pazienti a cui era stato somministrato un elevato dosaggio del farmaco, ed erano ancora nelle fasi iniziali della malattia, era emersa una riduzione del 30% delle placche amiloidi. Dunque, l’anticorpo monoclonale faceva effetto e produceva dei risultati.

«I trial clinici per Aduhelm sono stati i primi a mostrare che una riduzione nelle placche amiloidi – un marchio presente nel cervello dei pazienti con Alzheimer – dovrebbe condurre a una riduzione nella progressione clinica di questa devastante forma di demenza», ha infatti precisato la dottoressa Cavazzoni.

Per poi aggiungere: «È normale che, trattandosi di un farmaco diretto contro una malattia grave e mortale, molte persone abbiamo seguito da vicino i passaggi dell’iter di approvazione. Inoltre, i dati che sono stati presentati erano molto complessi e hanno lasciato alcune incertezze riguardanti i benefici clinici. Si è sollevato un importante dibattito pubblico riguardo a se fosse corretto o meno approvare Aduhelm. Come accade spesso quando si tratta di interpretare dati scientifici, la comunità di esperti ha offerto prospettive diverse».

Il problema principale dell’aducanumab, dunque, è che potrebbe, sì, sciogliere o impedire la formazione di queste placche, ma dall’esterno non si percepirebbe alcun particolare cambiamento. E così, né l’anziano malato né il suo caregiver vedrebbero migliorare la situazione. Riallacciandoci al discorso che facevamo prima, il rischio è quello di non alleggerire per nulla l’assistenza al malato fragile e nemmeno di ritardare la progressione della malattia.

Un altro problema: gli effetti collaterali

Come tutti i medicinali, anche l’aducanumab può avere degli effetti collaterali. E non sono per nulla da sottovalutare: delle 3.285 persone coinvolte nello studio, il 40% ha manifestato edema cerebrali e microemorragie.

«Questo nuovo farmaco – ha commentato il professor Paolo Maria Rossini, direttore del Dipartimento di neuroscienze-neuroriabilitazione dell’Irccs San Raffaele Roma, – è il primo in grado di interferire con uno dei tanti ‘killer’, la proteina beta-amiloide, ma ha potenziali effetti collaterali come microemorragie cerebrali. Chi lo farà (stimo in Italia circa 100mila pazienti candidati se ci sarà l’ok dell’Ema e dell’Aifa) dovrà sottoporsi a risonanze magnetiche e aver documentato la presenza della proteina beta-amiloide».

Una questione di costi

Il farmaco al momento è stato approvato negli Stati Uniti per l’utilizzo su pazienti che presentano la malattia negli stadi iniziali. Ma quanto iniziali? Le formazioni di placche amiloidi possono cominciare anche 10 o vent’anni prima che la malattia si manifesti. E per scovarle sarebbe necessario mettere a punto un programma di diagnosi precoce, anzi precocissima, che in Italia ancora non c’è. Oltre al fatto che i costi lieviterebbero, dal momento che potrebbero essere interessati potenzialmente tutti gli over65. Quasi 14 milioni di persone, secondo i dati diffusi dall’Eurostat

E ancora. Tutti i pazienti trattati con l’aducanumab dovrebbero, appunto, sottoporsi a risonanze magnetiche periodiche. Senza considerare il fatto che il costo stimato della sola terapia, che prevede un’infusione ogni 4 settimane, è di 56mila dollari all’anno a paziente. Certo, si potrebbe prevenire parte di quei 42 miliardi destinati alla cura e all’assistenza di persone affette da Alzheimer, ma il punto è proprio capire quanto.

Come va presa allora questa notizia?

Il sapere che esiste un nuovo farmaco contro l’Alzheimer resta una bella notizia. Un’ottima notizia. Si tratta di un’arma in più che si aggiunge alle possibilità che abbiamo oggi contro quella che rimane una malattia che fa paura e sconvolge la vita.

«Gli studi che hanno condotto alla approvazione dell’aducanumabha commentato infatti Gioacchino Tedeschi, Presidente SIN (Società Italiana di Neurologia) – hanno documentato la riduzione del deposito di amiloide nel cervello dei pazienti trattati e pur mancando ancora la conferma che questo dato strumentale correli con un reale miglioramento clinico, la notizia è senza dubbio importante. La deposizione di amiloide nei neuroni non è probabilmente la sola causa della Malattia di Alzheimer, ma rappresenta certamente un attore importante nel meccanismo di malattia».

E nell’articolo, riportato da Panorama, si legge inoltre: «La Società Italiana di Neurologia (SIN) e L’Associazione SIN demenze (SINdem) accolgono favorevolmente la decisione assunta dalla Food and Drug Administration (USA), l’autorevole Agenzia americana per il controllo dei farmaci, a favore di una “approvazione accelerata” del farmaco aducanumab, prodotto da Biogen, per il trattamento della Malattia di Alzheimer. Tale decisione, pur se non condivisa da tutta la comunità scientifica internazionale, giunge dopo anni di ricerche infruttuose e di fallimenti di studi clinici mirati alla cura della principale causa di demenza e apre uno scenario nuovo».

Il riassunto dell’intera vicenda è proprio questo: stiamo provando ad assaltare la fortezza mirando ai suoi punti deboli. Ancora non ci siamo riusciti. La strada per trovare una cura contro l’Alzheimer è molto lunga e, purtroppo, da oggi per malati e caregiver potrebbe non cambiare molto. Ma sono già in sperimentazione nuovi farmaci, diretti anche contro altri bersagli di cura, che verranno perfezionati in modo da essere più efficaci e sicuri. La vera novità dell’aducanumab è che per la prima volta è stato abbattuto un grande ostacolo: agire sulle cause della demenza è possibile, da ora.

Sitografia di riferimento

  1. FDA’sDecision to Approve New Treatment for Alzheimer’sDisease. FDA. 2021
  2. Epidemiologia delle demenze. Osservatorio demenze dell’Istituto superiore di sanità. 2016
  3. L’impatto economico e sociale della malattia di alzheimer: rifare il punto dopo 16 anni. Ricerca Censis-AIMA. 2016
  4. ​​​L’altra metà dell’Alzheimer​: ​i caregiver, l’altro “volto” del fenomeno. Ricerca dell’istituto di ricerca Nextplora per l’Osservatorio di Reale Mutua sul welfare. 2019

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