Di relazione che cura sentiamo parlare da un po’ di anni, ma cosa significa concretamente dare spazio alla relazione nei nostri contesti lavorativi? Ce lo racconta Cinzia Siviero, in questa recensione del libro “La nave dei pazzi”, di Daniele Roccon

Come si legge un testo come “La nave dei pazzi?”

Un libro da assaporare, da leggere con calma e attenzione, che ti propone riflessioni di spessore collegate a interessanti riferimenti culturali. Serve un tempo per leggerlo, ma il suggerimento è: “regalatelo, ne verrai nutrito”.

Vi troverai svariati temi che in qualche modo ruotano attorno alla fragilità della mente e del corpo e, cosa più importante di tutte, entrerai nella successione degli argomenti invitato dall’autore a meditare sulla relazione di cura, la relazione cioè di quanti di noi ogni giorno provano a bussare alla porta della casa interiore dell’individuo fragile provando a entrare in punta di piedi. Come già da molto stiamo sentendoci dire, non basta la buona volontà nelle nostre professioni. Certo ci vuole un grande cuore, ma è necessario conoscere, conoscere il più possibile quel mondo.

In questo testo arricchiamo enormemente il nostro bagaglio culturale, apriamo le nostre menti e movimentiamo i nostri pensieri stimolati da quesiti sulla corporeità, sui significati che diamo alla malattia, sulla relazione tra corpo e malattia, sui diversi atteggiamenti culturali che inevitabilmente condizionano i nostri vissuti a seconda della struttura sociale in cui ci troviamo.


la nave dei pazzi

Se vuoi leggere altre recensioni su “La nave dei pazzi” qui trovi anche: “La contenzione in RSA: il libro che spiega le origini, le responsabilità e le normative vigenti”, di Luca Croci.


Un cambiamento di paradigma: medicina e malattia

La nave dei pazzi approfondisce anche il complesso rapporto tra medicina e malattia dove si parte dal presupposto, fin nelle prime pagine, che gli strumenti della medicina non possono essere sufficienti quando parliamo di malattie psichiatriche e demenza, né per guarirle né per gestirle.

Il cambio di paradigma, di cui da così tanti anni parliamo stimolati da Tom Kitwood (Modello PCC) ma che tarda a far parte veramente di tutti noi, sta, secondo l’autore, nel cercare risposte altre alla malattia e nella partecipazione, nel coinvolgimento di tutto il nostro essere rispetto a ciò che sta accadendo sotto i nostri occhi:

«È necessario compiere un cambio di paradigma, nel pensiero, nelle pratiche e nelle emozioni che si avvertono davanti alla persona malata»

La relazione che cura: emozionarsi senza paura

Sulla necessità di guardare in maniera differente l’anziano fragile rifletto da molto tempo confrontandomi con i tanti operatori della cura con cui lavoro. Mi capita spesso di suggerire loro di emozionarsi senza paura davanti ad un anziano confuso; consiglio di osservarlo da ogni angolazione possibile, di collegare il suo strano comportamento al bisogno umano di base che sta subito lì sotto.

Propongo di sentire senza timori ciò che l’altro sente e di mettere poi tutto insieme, compresa la vita intera vissuta, con tutte le sue fatiche e conquiste, e di lasciarsi affascinare da quel linguaggio così poetico. La resistenza che proviamo, tanta, è sempre la stessa, ed è la paura.

La paura dell’eccessivo coinvolgimento, la paura di soffrire con l’altro, per l’altro. È ciò che ci sbarra la strada, perché entrare nelle emozioni dell’altro, stare lì, autentici, può far sentire il dolore. Non intendo dire che è giusto lasciarsi annientare dal dolore altrui, tutt’altro. C’è un modo per proteggere il sé, ovvero per non ammalarsi; lo si può preparare e non si deve così rinunciare al sentire.

A pag. 35 del libro al proposito si legge sulla cura di sé:

«Il prendersi cura dell’altro, però, non può prescindere dall’aver appreso la cura di sé, cosa tutt’altro che scontata, perché dipende da come gli altri si sono curati di noi e da come noi abbiamo elaborato i punti di forza e di debolezza di questa relazione… incontrare l’altro rimanda all’incontro con sé stessi».

D’altra parte, sostiene l’autore, la medicina stessa per anni si è tenuta ben distante dalle emozioni del malato nell’intento di essere più scientifica e corretta. In questo libro arrivi piano piano a scoprire che la visione d’insieme dell’essere umano malato e la tua possibilità di emozionarti, possono guidarti nella cura e che lo strumento per eccellenza che avrai nelle tue mani per la cura è la relazione. Quel corpo e quella mente prima ancora che di guarire, hanno bisogno di sentirsi con te, con le persone che si trovano lì attorno e con l’ambiente. In fin dei conti, cioè, è la stessa relazione che cura.

Mente e corpo: una cosa sola

Ho trovato interessante il frequente riferimento nel sistema medico al bisogno di integrazione, al bisogno di occuparsi del corpo e della psiche come un unico sistema, complesso e meraviglioso. Daniele Roccon spesso raccomanda di non cadere nel tranello delle semplificazioni.

Essere consapevoli della complessità della persona e della situazione quando vi è malattia, essere capaci di contatto empatico, non dovrebbe spaventarci, bensì ridimensionarci, riportandoci a quella modesta posizione di chi non sa tutto, ma farà tutto il possibile, sentendo profondamente che il to cure, azione terapeutica, è un tutt’uno con il to care, avere a cuore. Ci potremo così aprire a quelle risposte “altre” come possono essere il tocco consapevole o la semplice, ma profonda, vicinanza.

Sitografia e bibliografia

About the Author: Cinzia Siviero

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Formatrice Validation® certificata – Responsabile di AGAPE AVO organizzazione Validation® autorizzata.

Di relazione che cura sentiamo parlare da un po’ di anni, ma cosa significa concretamente dare spazio alla relazione nei nostri contesti lavorativi? Ce lo racconta Cinzia Siviero, in questa recensione del libro “La nave dei pazzi”, di Daniele Roccon

Come si legge un testo come “La nave dei pazzi?”

Un libro da assaporare, da leggere con calma e attenzione, che ti propone riflessioni di spessore collegate a interessanti riferimenti culturali. Serve un tempo per leggerlo, ma il suggerimento è: “regalatelo, ne verrai nutrito”.

Vi troverai svariati temi che in qualche modo ruotano attorno alla fragilità della mente e del corpo e, cosa più importante di tutte, entrerai nella successione degli argomenti invitato dall’autore a meditare sulla relazione di cura, la relazione cioè di quanti di noi ogni giorno provano a bussare alla porta della casa interiore dell’individuo fragile provando a entrare in punta di piedi. Come già da molto stiamo sentendoci dire, non basta la buona volontà nelle nostre professioni. Certo ci vuole un grande cuore, ma è necessario conoscere, conoscere il più possibile quel mondo.

In questo testo arricchiamo enormemente il nostro bagaglio culturale, apriamo le nostre menti e movimentiamo i nostri pensieri stimolati da quesiti sulla corporeità, sui significati che diamo alla malattia, sulla relazione tra corpo e malattia, sui diversi atteggiamenti culturali che inevitabilmente condizionano i nostri vissuti a seconda della struttura sociale in cui ci troviamo.


la nave dei pazzi

Se vuoi leggere altre recensioni su “La nave dei pazzi” qui trovi anche: “La contenzione in RSA: il libro che spiega le origini, le responsabilità e le normative vigenti”, di Luca Croci.


Un cambiamento di paradigma: medicina e malattia

La nave dei pazzi approfondisce anche il complesso rapporto tra medicina e malattia dove si parte dal presupposto, fin nelle prime pagine, che gli strumenti della medicina non possono essere sufficienti quando parliamo di malattie psichiatriche e demenza, né per guarirle né per gestirle.

Il cambio di paradigma, di cui da così tanti anni parliamo stimolati da Tom Kitwood (Modello PCC) ma che tarda a far parte veramente di tutti noi, sta, secondo l’autore, nel cercare risposte altre alla malattia e nella partecipazione, nel coinvolgimento di tutto il nostro essere rispetto a ciò che sta accadendo sotto i nostri occhi:

«È necessario compiere un cambio di paradigma, nel pensiero, nelle pratiche e nelle emozioni che si avvertono davanti alla persona malata»

La relazione che cura: emozionarsi senza paura

Sulla necessità di guardare in maniera differente l’anziano fragile rifletto da molto tempo confrontandomi con i tanti operatori della cura con cui lavoro. Mi capita spesso di suggerire loro di emozionarsi senza paura davanti ad un anziano confuso; consiglio di osservarlo da ogni angolazione possibile, di collegare il suo strano comportamento al bisogno umano di base che sta subito lì sotto.

Propongo di sentire senza timori ciò che l’altro sente e di mettere poi tutto insieme, compresa la vita intera vissuta, con tutte le sue fatiche e conquiste, e di lasciarsi affascinare da quel linguaggio così poetico. La resistenza che proviamo, tanta, è sempre la stessa, ed è la paura.

La paura dell’eccessivo coinvolgimento, la paura di soffrire con l’altro, per l’altro. È ciò che ci sbarra la strada, perché entrare nelle emozioni dell’altro, stare lì, autentici, può far sentire il dolore. Non intendo dire che è giusto lasciarsi annientare dal dolore altrui, tutt’altro. C’è un modo per proteggere il sé, ovvero per non ammalarsi; lo si può preparare e non si deve così rinunciare al sentire.

A pag. 35 del libro al proposito si legge sulla cura di sé:

«Il prendersi cura dell’altro, però, non può prescindere dall’aver appreso la cura di sé, cosa tutt’altro che scontata, perché dipende da come gli altri si sono curati di noi e da come noi abbiamo elaborato i punti di forza e di debolezza di questa relazione… incontrare l’altro rimanda all’incontro con sé stessi».

D’altra parte, sostiene l’autore, la medicina stessa per anni si è tenuta ben distante dalle emozioni del malato nell’intento di essere più scientifica e corretta. In questo libro arrivi piano piano a scoprire che la visione d’insieme dell’essere umano malato e la tua possibilità di emozionarti, possono guidarti nella cura e che lo strumento per eccellenza che avrai nelle tue mani per la cura è la relazione. Quel corpo e quella mente prima ancora che di guarire, hanno bisogno di sentirsi con te, con le persone che si trovano lì attorno e con l’ambiente. In fin dei conti, cioè, è la stessa relazione che cura.

Mente e corpo: una cosa sola

Ho trovato interessante il frequente riferimento nel sistema medico al bisogno di integrazione, al bisogno di occuparsi del corpo e della psiche come un unico sistema, complesso e meraviglioso. Daniele Roccon spesso raccomanda di non cadere nel tranello delle semplificazioni.

Essere consapevoli della complessità della persona e della situazione quando vi è malattia, essere capaci di contatto empatico, non dovrebbe spaventarci, bensì ridimensionarci, riportandoci a quella modesta posizione di chi non sa tutto, ma farà tutto il possibile, sentendo profondamente che il to cure, azione terapeutica, è un tutt’uno con il to care, avere a cuore. Ci potremo così aprire a quelle risposte “altre” come possono essere il tocco consapevole o la semplice, ma profonda, vicinanza.

Sitografia e bibliografia

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