Non tutti sono anziani allo stesso modo: non si può più ragionare in ottica di struttura residenziale statica. Bisogna ragionare in termini di diversificazione di servizi
Non si può cioè più ragionare in ottica di struttura residenziale statica, specializzata nella cura e nell’assistenza di ospiti non autosufficienti e affetti da demenza. Per ritrovare un ruolo attivo come presidio sociosanitario sul territorio, le RSA devono mettersi al centro di una rete di servizi composta anche da co-housing, centri riabilitativi, attività aperte ai cittadini e così via. Un punto di riferimento al quale le famiglie possono rivolgersi.
Come sarà l’RSA del futuro? Altamente specializzata nell’assistenza a un particolare tipo di utente, ovvero un anziano non autosufficiente e affetto da demenza, o multiservizi per adattarsi meglio al territorio in cui è inserita? E proprio sulla diversificazione dei servizi hanno posto l’accento gli ospiti del gruppo di studio organizzato il 27 novembre da Editrice Dapero: Roberto Franchini, responsabile dell’Area Strategia, Sviluppo e Formazione di Provincia religiosa Madre della Divina provvidenza, oltre che docente presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore; Daniele Roccon, direttore di IPAB (Istituto pubblico di assistenza e beneficenza) Veneto; Fabio Bonetta, Direttore APS ITIS (Azienda pubblica di servizi alla persona) di Trieste in Friuli Venezia-Giulia; Elisabetta Notarnicola, coordinatrice area Ricerca su Social Policy and Service Management e dell’Osservatorio Long Term Care per CERGAS Bocconi (Centro di Ricerche sulla Gestione dell’Assistenza Sanitaria e Sociale). L’incontro era moderato da Renato Dapero, direttore editoriale della rivista CURA.
La diversificazione dei servizi
Prima di tutto, cosa si intende per differenziazione dei servizi? Una struttura residenziale che sia al centro di una rete che segue l’anziano e risponda a tutti i suoi bisogni. L’offerta diventa dunque più ampia e supera il binomio assistenza domiciliare-ricovero in struttura. Tra i due poli vengono infatti aggiunte altre formule come il co-housing, la riabilitazione, le attività aperte ai cittadini e tutto quello che può consentire all’RSA di adattarsi meglio al territorio nel quale deve essere inserita. Il suo ruolo diventa quello di parte attiva e che porta beneficio, non «dell’ultimo anello, quello debole, di ogni tipo di catena. Ghettizzate da una politica e una società che sono rimaste ancora al concetto di ospizio», come fa notare Fabio Bonetta.
Questo problema non è nuovo. Negli Stati Uniti se ne parla dagli anni ’90, al punto che un articolo del New York Times prendeva già atto di come nella Grande Mela e nel resto del Paese «le case di cura abbiano iniziato a reinventarsi, offrendo programmi e servizi che vanno oltre le tradizionali istituzioni residenziali che così tante persone ora dicono di voler evitare a favore dell’invecchiamento a casa». Siamo nell’aprile del 1994 e le nuove attività di cui si parla includono il potenziamento dell’assistenza domiciliare con infermieri che ogni due giorni visitano l’anziano per misurare pressione e altri parametri, ricoveri temporanei per alleggerire il carico sulle famiglie, periodi di degenza per convalescenti in sostituzione dell’ospedale, co-housing, assistenza negli spostamenti. Mentre oggi in Italia «abbiamo due supporti all’età anziana: le badanti e le case di riposo», spiega Bonetta e aggiunge: «oltre alle famiglie, che sono il vero asse portante del welfare nella nostra Nazione», sul celebre quotidiano si parlava già di strutture in grado di rispondere ai bisogni di tutti, dalla persona non autosufficiente e in condizioni di salute serie, a chi aveva bisogno di aiuto solo per svolgere alcune mansioni quotidiane e magari desiderava un po’ di compagnia.
«Il problema è che ora come ora in RSA trovi il morente che andrebbe assistito con ben altra intensità, e forse anche con una mentalità operativa più palliativista, e poi l’anziano con il girello che magari ha dovuto andarsene da casa solo perché abitava al quinto piano senza ascensore – conferma il professor Roberto Franchini. – Forse per lui era immaginabile un contesto di vita mediamente protetto e invece finisce per essere accolto in una realtà di maggiore intensità. E questa situazione, probabilmente, lo conduce ad aggravarsi, come una sorta di profezia che si auto avvera. Di conseguenza produce un onere sia per la famiglia, che per la sanità pubblica. Perciò la risposta è sì, diversificare».
Cosa è “Sanità”?
Il termine “sanitario” fa parte del nome stesso delle strutture residenziali per anziani, non è un aspetto che può essere eliminato. Il suo significato – ci ricorda Roberto Franchini – semmai deve essere rivisto e ampliato, tenendo conto di tutte quelle necessità che un essere umano manifesta e che non sono strettamente di carattere medico-infermieristico, pur contribuendo al suo benessere e dunque alla sua salute. Non solo. Questi bisogni possono anche non trovare risposta in RSA ed essere gestiti meglio in soluzioni differenti. «Mi piacerebbe arrivare a un giorno in cui la parola Sanità comprenda tutto – prosegue Franchini: – Dall’abitare protetto al co-housing, che è una forma di prevenzione e quindi rientra in ambito sanitario; l’apertura al territorio con la predisposizione di contesti nei quali non vi sia solo il posto letto, ma anche una biblioteca, una tavernetta, un luogo dove gli anziani possano vivere anche molto prima di essere ricoverati».
Una prospettiva che trova riscontro nell’esperienza del comune di Lastra A Signa, nella città metropolitana di Firenze, dove già negli anni 70 si era pensato di recuperare un edificio che altrimenti sarebbe andato dismesso e organizzarlo in 61 mini-appartamenti, dando vita a una delle prime realtà di housing: il Centro Sociale Residenziale di Lastra A Signa. Questa formula permise di ottenere benefici dal punto di vista sia umano che economico: il comune dovette spendere solo 3 mila euro in 12 mesi e nel giro di una trentina d’anni solo 24 persone erano state dimesse per essere ricoverate in un’RSA vera e propria. Oggi il Centro esiste ancora e si trova in un’area vicina a un ristorante, una biblioteca, un teatro, alcune scuole e un centro di aggregazione AUSER. Una realtà completamente inserita nel territorio dunque.
E questo aiuterebbe anche le strutture residenziali ad essere meglio accettate e valorizzate proprio da un punto di vista culturale. Secondo una ricerca svolta nel 2014 da Lombardia Sociale, un progetto di Irs (Istituto per la Ricerca Sociale) che si occupa di analizzare l’andamento del welfare nella regione,sono sempre di più le famiglie che rinunciano a un posto in RSA, nonostante ne abbiano fatto richiesta tempo addietro. E le ragioni economiche sono solo una delle reali cause all’origine del dietrofront. Bisognainfatti considerare anche la rinuncia per «senso di colpa dei familiari all’idea di sradicare l’anziano dalla sua casa e dal suo contesto sociale» e «per miglioramento delle condizioni dell’interessato che rendono possibile l’organizzazione di un’adeguata assistenza a casa. Evidentemente, per questi anziani l’RSA non era l’unica soluzione percorribile, né quella più appropriata in quel momento».
Specificare meglio chi regola i servizi
«Sicuramente l’RSA del futuro non potrà restare da sola. Dovrà essere integrata nel territorio e in una rete più ampia di servizi, con una maggiore diversificazione – puntualizza Elisabetta Notarnicola. – Credo, però, che per riuscire a fare in modo che ciascuna di queste soluzioni sia davvero un luogo di cura e di assistenza per quanto gli compete, debba esserci una migliore specificazione di cosa siano i vari servizi e di chi li debba gestire».
Il riferimento è alle differenze che sorgono da regione a regione, quando non all’interno delle stesse, provocate proprio dalla mancanza di definizioni precise alle quali attenersi. Può così accadere che un’RSA venga confusa con un hospice, un ospedale o una casa di riposo. E questo crea un problema sia per le famiglie, che non sono più in grado di capire a chi possano affidare il proprio caro, sia per chi deve gestire queste realtà o per chi vi collabora. «Se vogliamo fare il passaggio a una rete di servizi che funzioni veramente, è indispensabile mettere prima nero su bianco chi si occupa di cosa e chi finanzia cosa. Quale parte è in carico ai comuni? Quando interviene il Servizio sanitario nazionale? E le famiglie? Servono delle regole chiare e condivise, in modo che i cittadini non debbano pagare l’eterogeneità di offerta sul territorio nazionale. Ad oggi si vive un’iniquità molto forte: a seconda di dove abiti e di quanto sei fortunato, passi attraverso esperienze molto diverse».
Un sistema nazionale o regionale?
In altre parole, chi deve prendere in mano la situazione, le regioni o lo Stato? Fino a prima della pandemia, la risposta sarebbe stata chiara: le regioni. Il federalismo veniva auspicato da diverse parti politiche, anche opposte tra loro. La maggior parte degli addetti ai lavori la considerava una soluzione per gestire meglio le risorse economiche da destinare alla sanità e dunque anche al sociosanitario. Poi, però, è arrivato il Covid-19, che ha messo in difficoltà la Lombardia tanto quanto la Calabria. E ora?
«Rispetto al federalismo, siamo figli di un pensiero unico – interviene Roccon. – In sé è contemplato dalla Costituzione, ma il problema è che siamo schiavi di un’idea che è arrivata a concepire la riforma del titolo V, che ha dato potere alle autorità locali per poi ritrovarsi con la regina di questo sistema, la Lombardia, completamente in ginocchio. Da noi il concetto più bistrattato è proprio quello di welfare. Il nostro welfare è sempre stato insufficiente, piò o meno iniquo rispetto a tutti. E soprattutto è un welfare familista, che si aspetta che le famiglie si assumano la maggior parte del carico».
In tutto questo le residenze per anziani sono state lasciate di nuovo all’ultimo posto. «In molte regioni mancano anche i dirigenti di riferimento – conferma Notarnicola. – Quando devo raccogliere dati per capire meglio cosa stia accadendo in un determinato territorio impiego almeno una settimana di tempo solo per trovare l’indirizzo mail del dirigente che si occupi delle questioni legate agli anziani. E a volte nemmeno lo troviamo, perché questa figura non esiste».
«Nonostante vent’anni fa credessi al federalismo, ora auspico anche io un ritorno al centralismo totale – confessa Bonetta, – perché il fallimento dei sistemi regionali è evidente. La mancanza di conoscenza politica sugli argomenti è totale e ancora più drammatica è la carenza di riferimenti oggettivi a livello tecnico e di competenze. Le RSA sono state usate come contenitori che dovevano mantenere in equilibrio un sistema che ormai non lo è più».
L’apertura verso il territorio
«Ci siamo guardati e ci siamo chiesti: ma se fossimo vecchi anche noi, vorremmo finire in una struttura per anziani? No». Suona come una provocazione quella di Fabio Bonetta, ma in realtà è stata la miccia che ha innescato il cambiamento all’APS ITIS di Trieste. «Abbiamo intrapreso altre strade, creando ad esempio il primo centro diurno assistito del Friuli Venezia-Giulia. E ancora, sulla scorta di una bellissima iniziativa degli anni ’80 quando avevamo dato vita a una comunità fatta da 20 appartamenti mono- e bilocali con supporti personalizzati per ogni inquilino, nel 2005 abbiamo creato il primo condominio solidale della regione. Stiamo tuttora portando avanti la possibilità di completare l’opera e prima dell’arrivo del Covid-19, stavamo per proporre l’offerta di un servizio domiciliare costruito su una base completamente diversa rispetto all’Assistenza domiciliare integrata (ADI) o al Servizio di assistenza domiciliare (SAD)».
Insomma, la struttura di norma chiusa e statica si è invece aperta al territorio e ha differenziato i suoi servizi. Solo così l’RSA smetterà di essere considerata una sorta di depandance dell’ospedale per pazienti che ormai sono arrivati all’ultima parte della loro vita e potrà riprendersi il suo spazio come presidio di prossimità, per andare incontro a tutti i bisogni delle famiglie. «Da circa 18 anni stiamo cercando di offrire diverse opzioni alle persone – conferma Bonetta. – Per cominciare, abbiamo differenziato completamente le varie tipologie di assistenza all’interno delle residenze che gestiamo. Si deve rimodulare quello che si ha e riqualificarlo. Per questo motivo abbiamo intrapreso la strada dell’apertura al territorio, del mantenimento di ogni forma di rispetto per gli ospiti, dell’acquisizione di professionalità e competenze specifiche, perché non tutti sono anziani allo stesso modo».
«La politica non sembra volerlo capire – conclude, – ma il futuro è creare dei centri servizi dove il cittadino possa avere un punto di riferimento certo e dove ci siano le competenze in grado di farsi carico delle domande della singola persona e della sua famiglia. E le opzioni devono essere offerte in regime di condivisione, perché al giorno d’oggi la maggior parte degli anziani ha un potere di scelta molto ridotto. E lo stesso discorso vale per le famiglie, che sono condizionate anche da problemi economici o relativi alla casa dove la persona vive già. Insomma, ci sono mille fattori che li costringono a prendere una decisione che poi non si rivela quella ideale».
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Non tutti sono anziani allo stesso modo: non si può più ragionare in ottica di struttura residenziale statica. Bisogna ragionare in termini di diversificazione di servizi
Non si può cioè più ragionare in ottica di struttura residenziale statica, specializzata nella cura e nell’assistenza di ospiti non autosufficienti e affetti da demenza. Per ritrovare un ruolo attivo come presidio sociosanitario sul territorio, le RSA devono mettersi al centro di una rete di servizi composta anche da co-housing, centri riabilitativi, attività aperte ai cittadini e così via. Un punto di riferimento al quale le famiglie possono rivolgersi.
Come sarà l’RSA del futuro? Altamente specializzata nell’assistenza a un particolare tipo di utente, ovvero un anziano non autosufficiente e affetto da demenza, o multiservizi per adattarsi meglio al territorio in cui è inserita? E proprio sulla diversificazione dei servizi hanno posto l’accento gli ospiti del gruppo di studio organizzato il 27 novembre da Editrice Dapero: Roberto Franchini, responsabile dell’Area Strategia, Sviluppo e Formazione di Provincia religiosa Madre della Divina provvidenza, oltre che docente presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore; Daniele Roccon, direttore di IPAB (Istituto pubblico di assistenza e beneficenza) Veneto; Fabio Bonetta, Direttore APS ITIS (Azienda pubblica di servizi alla persona) di Trieste in Friuli Venezia-Giulia; Elisabetta Notarnicola, coordinatrice area Ricerca su Social Policy and Service Management e dell’Osservatorio Long Term Care per CERGAS Bocconi (Centro di Ricerche sulla Gestione dell’Assistenza Sanitaria e Sociale). L’incontro era moderato da Renato Dapero, direttore editoriale della rivista CURA.
La diversificazione dei servizi
Prima di tutto, cosa si intende per differenziazione dei servizi? Una struttura residenziale che sia al centro di una rete che segue l’anziano e risponda a tutti i suoi bisogni. L’offerta diventa dunque più ampia e supera il binomio assistenza domiciliare-ricovero in struttura. Tra i due poli vengono infatti aggiunte altre formule come il co-housing, la riabilitazione, le attività aperte ai cittadini e tutto quello che può consentire all’RSA di adattarsi meglio al territorio nel quale deve essere inserita. Il suo ruolo diventa quello di parte attiva e che porta beneficio, non «dell’ultimo anello, quello debole, di ogni tipo di catena. Ghettizzate da una politica e una società che sono rimaste ancora al concetto di ospizio», come fa notare Fabio Bonetta.
Questo problema non è nuovo. Negli Stati Uniti se ne parla dagli anni ’90, al punto che un articolo del New York Times prendeva già atto di come nella Grande Mela e nel resto del Paese «le case di cura abbiano iniziato a reinventarsi, offrendo programmi e servizi che vanno oltre le tradizionali istituzioni residenziali che così tante persone ora dicono di voler evitare a favore dell’invecchiamento a casa». Siamo nell’aprile del 1994 e le nuove attività di cui si parla includono il potenziamento dell’assistenza domiciliare con infermieri che ogni due giorni visitano l’anziano per misurare pressione e altri parametri, ricoveri temporanei per alleggerire il carico sulle famiglie, periodi di degenza per convalescenti in sostituzione dell’ospedale, co-housing, assistenza negli spostamenti. Mentre oggi in Italia «abbiamo due supporti all’età anziana: le badanti e le case di riposo», spiega Bonetta e aggiunge: «oltre alle famiglie, che sono il vero asse portante del welfare nella nostra Nazione», sul celebre quotidiano si parlava già di strutture in grado di rispondere ai bisogni di tutti, dalla persona non autosufficiente e in condizioni di salute serie, a chi aveva bisogno di aiuto solo per svolgere alcune mansioni quotidiane e magari desiderava un po’ di compagnia.
«Il problema è che ora come ora in RSA trovi il morente che andrebbe assistito con ben altra intensità, e forse anche con una mentalità operativa più palliativista, e poi l’anziano con il girello che magari ha dovuto andarsene da casa solo perché abitava al quinto piano senza ascensore – conferma il professor Roberto Franchini. – Forse per lui era immaginabile un contesto di vita mediamente protetto e invece finisce per essere accolto in una realtà di maggiore intensità. E questa situazione, probabilmente, lo conduce ad aggravarsi, come una sorta di profezia che si auto avvera. Di conseguenza produce un onere sia per la famiglia, che per la sanità pubblica. Perciò la risposta è sì, diversificare».
Cosa è “Sanità”?
Il termine “sanitario” fa parte del nome stesso delle strutture residenziali per anziani, non è un aspetto che può essere eliminato. Il suo significato – ci ricorda Roberto Franchini – semmai deve essere rivisto e ampliato, tenendo conto di tutte quelle necessità che un essere umano manifesta e che non sono strettamente di carattere medico-infermieristico, pur contribuendo al suo benessere e dunque alla sua salute. Non solo. Questi bisogni possono anche non trovare risposta in RSA ed essere gestiti meglio in soluzioni differenti. «Mi piacerebbe arrivare a un giorno in cui la parola Sanità comprenda tutto – prosegue Franchini: – Dall’abitare protetto al co-housing, che è una forma di prevenzione e quindi rientra in ambito sanitario; l’apertura al territorio con la predisposizione di contesti nei quali non vi sia solo il posto letto, ma anche una biblioteca, una tavernetta, un luogo dove gli anziani possano vivere anche molto prima di essere ricoverati».
Una prospettiva che trova riscontro nell’esperienza del comune di Lastra A Signa, nella città metropolitana di Firenze, dove già negli anni 70 si era pensato di recuperare un edificio che altrimenti sarebbe andato dismesso e organizzarlo in 61 mini-appartamenti, dando vita a una delle prime realtà di housing: il Centro Sociale Residenziale di Lastra A Signa. Questa formula permise di ottenere benefici dal punto di vista sia umano che economico: il comune dovette spendere solo 3 mila euro in 12 mesi e nel giro di una trentina d’anni solo 24 persone erano state dimesse per essere ricoverate in un’RSA vera e propria. Oggi il Centro esiste ancora e si trova in un’area vicina a un ristorante, una biblioteca, un teatro, alcune scuole e un centro di aggregazione AUSER. Una realtà completamente inserita nel territorio dunque.
E questo aiuterebbe anche le strutture residenziali ad essere meglio accettate e valorizzate proprio da un punto di vista culturale. Secondo una ricerca svolta nel 2014 da Lombardia Sociale, un progetto di Irs (Istituto per la Ricerca Sociale) che si occupa di analizzare l’andamento del welfare nella regione,sono sempre di più le famiglie che rinunciano a un posto in RSA, nonostante ne abbiano fatto richiesta tempo addietro. E le ragioni economiche sono solo una delle reali cause all’origine del dietrofront. Bisognainfatti considerare anche la rinuncia per «senso di colpa dei familiari all’idea di sradicare l’anziano dalla sua casa e dal suo contesto sociale» e «per miglioramento delle condizioni dell’interessato che rendono possibile l’organizzazione di un’adeguata assistenza a casa. Evidentemente, per questi anziani l’RSA non era l’unica soluzione percorribile, né quella più appropriata in quel momento».
Specificare meglio chi regola i servizi
«Sicuramente l’RSA del futuro non potrà restare da sola. Dovrà essere integrata nel territorio e in una rete più ampia di servizi, con una maggiore diversificazione – puntualizza Elisabetta Notarnicola. – Credo, però, che per riuscire a fare in modo che ciascuna di queste soluzioni sia davvero un luogo di cura e di assistenza per quanto gli compete, debba esserci una migliore specificazione di cosa siano i vari servizi e di chi li debba gestire».
Il riferimento è alle differenze che sorgono da regione a regione, quando non all’interno delle stesse, provocate proprio dalla mancanza di definizioni precise alle quali attenersi. Può così accadere che un’RSA venga confusa con un hospice, un ospedale o una casa di riposo. E questo crea un problema sia per le famiglie, che non sono più in grado di capire a chi possano affidare il proprio caro, sia per chi deve gestire queste realtà o per chi vi collabora. «Se vogliamo fare il passaggio a una rete di servizi che funzioni veramente, è indispensabile mettere prima nero su bianco chi si occupa di cosa e chi finanzia cosa. Quale parte è in carico ai comuni? Quando interviene il Servizio sanitario nazionale? E le famiglie? Servono delle regole chiare e condivise, in modo che i cittadini non debbano pagare l’eterogeneità di offerta sul territorio nazionale. Ad oggi si vive un’iniquità molto forte: a seconda di dove abiti e di quanto sei fortunato, passi attraverso esperienze molto diverse».
Un sistema nazionale o regionale?
In altre parole, chi deve prendere in mano la situazione, le regioni o lo Stato? Fino a prima della pandemia, la risposta sarebbe stata chiara: le regioni. Il federalismo veniva auspicato da diverse parti politiche, anche opposte tra loro. La maggior parte degli addetti ai lavori la considerava una soluzione per gestire meglio le risorse economiche da destinare alla sanità e dunque anche al sociosanitario. Poi, però, è arrivato il Covid-19, che ha messo in difficoltà la Lombardia tanto quanto la Calabria. E ora?
«Rispetto al federalismo, siamo figli di un pensiero unico – interviene Roccon. – In sé è contemplato dalla Costituzione, ma il problema è che siamo schiavi di un’idea che è arrivata a concepire la riforma del titolo V, che ha dato potere alle autorità locali per poi ritrovarsi con la regina di questo sistema, la Lombardia, completamente in ginocchio. Da noi il concetto più bistrattato è proprio quello di welfare. Il nostro welfare è sempre stato insufficiente, piò o meno iniquo rispetto a tutti. E soprattutto è un welfare familista, che si aspetta che le famiglie si assumano la maggior parte del carico».
In tutto questo le residenze per anziani sono state lasciate di nuovo all’ultimo posto. «In molte regioni mancano anche i dirigenti di riferimento – conferma Notarnicola. – Quando devo raccogliere dati per capire meglio cosa stia accadendo in un determinato territorio impiego almeno una settimana di tempo solo per trovare l’indirizzo mail del dirigente che si occupi delle questioni legate agli anziani. E a volte nemmeno lo troviamo, perché questa figura non esiste».
«Nonostante vent’anni fa credessi al federalismo, ora auspico anche io un ritorno al centralismo totale – confessa Bonetta, – perché il fallimento dei sistemi regionali è evidente. La mancanza di conoscenza politica sugli argomenti è totale e ancora più drammatica è la carenza di riferimenti oggettivi a livello tecnico e di competenze. Le RSA sono state usate come contenitori che dovevano mantenere in equilibrio un sistema che ormai non lo è più».
L’apertura verso il territorio
«Ci siamo guardati e ci siamo chiesti: ma se fossimo vecchi anche noi, vorremmo finire in una struttura per anziani? No». Suona come una provocazione quella di Fabio Bonetta, ma in realtà è stata la miccia che ha innescato il cambiamento all’APS ITIS di Trieste. «Abbiamo intrapreso altre strade, creando ad esempio il primo centro diurno assistito del Friuli Venezia-Giulia. E ancora, sulla scorta di una bellissima iniziativa degli anni ’80 quando avevamo dato vita a una comunità fatta da 20 appartamenti mono- e bilocali con supporti personalizzati per ogni inquilino, nel 2005 abbiamo creato il primo condominio solidale della regione. Stiamo tuttora portando avanti la possibilità di completare l’opera e prima dell’arrivo del Covid-19, stavamo per proporre l’offerta di un servizio domiciliare costruito su una base completamente diversa rispetto all’Assistenza domiciliare integrata (ADI) o al Servizio di assistenza domiciliare (SAD)».
Insomma, la struttura di norma chiusa e statica si è invece aperta al territorio e ha differenziato i suoi servizi. Solo così l’RSA smetterà di essere considerata una sorta di depandance dell’ospedale per pazienti che ormai sono arrivati all’ultima parte della loro vita e potrà riprendersi il suo spazio come presidio di prossimità, per andare incontro a tutti i bisogni delle famiglie. «Da circa 18 anni stiamo cercando di offrire diverse opzioni alle persone – conferma Bonetta. – Per cominciare, abbiamo differenziato completamente le varie tipologie di assistenza all’interno delle residenze che gestiamo. Si deve rimodulare quello che si ha e riqualificarlo. Per questo motivo abbiamo intrapreso la strada dell’apertura al territorio, del mantenimento di ogni forma di rispetto per gli ospiti, dell’acquisizione di professionalità e competenze specifiche, perché non tutti sono anziani allo stesso modo».
«La politica non sembra volerlo capire – conclude, – ma il futuro è creare dei centri servizi dove il cittadino possa avere un punto di riferimento certo e dove ci siano le competenze in grado di farsi carico delle domande della singola persona e della sua famiglia. E le opzioni devono essere offerte in regime di condivisione, perché al giorno d’oggi la maggior parte degli anziani ha un potere di scelta molto ridotto. E lo stesso discorso vale per le famiglie, che sono condizionate anche da problemi economici o relativi alla casa dove la persona vive già. Insomma, ci sono mille fattori che li costringono a prendere una decisione che poi non si rivela quella ideale».
Riferimenti sitografici: